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Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione II – La servitù della gleba

1. Causa tra i canonici di Siena e il “villano” Ferretto

Della controversia tra i canonici della cattedrale di Siena e il villano Ferretto, che tentò senza successo di rivendicare lo stato di libertà, si conoscono due atti: la sentenza (b), pronunziata il 13 novembre 1183 dal giudice imperiale Federico e pubblicata dal MURATORI, Antiquitates cit., I, Milano, 1738, Dissertazione XIV, col. 827 (il documento originale è oggi smarrito), e un verbale di deposizioni di dieci testimoni favorevoli alla canonica (a), non datato – ma certo di poco anteriore alla sentenza – e pubblicato in C. F. VON RUMHOR, Ursprung der Besitzlosigkeit des Colonen im neurem Toscana. Aus den Urkunden, Hamburg, 1830, p. 31, n. 3 (di questo atto si conserva l’originale presso l’Archivio di Stato in Siena, e noi l’abbiamo consultato per emendare alcuni errori e integrare alcune lacune dell’edizione del Rumohr). Dal verbale riproduciamo tutte le parti essenziali, cioè tutta la prima deposizione, gran parte della seconda e la prima metà della nona; della sentenza omettiamo soltanto alcune formule conclusive. Si noti come il secondo teste, pur essendo di parte della canonica come gli altri, si lasci andare ad una importante ammissione favorevole al colono quanto al carattere allodiale, cioè di piena e libera proprietà, del fondo su cui egli risiedeva (si comprende facilmente dal testo il motivo di interesse personale che spinse il teste a simile ammissione).


a/ Le deposizioni dei testi

§ In nome del Signore, amen. Testimoni dei canonici contro Ferretto che dice di essere alloderio.


§ Albertinello dice sotto giuramento che sono trascorsi più di […] anni da quando vide come Gianni di Verrano, padre di Ferretto, venisse ogni anno alla canonica – finchè fu in vita – per versare il suo censo e come fosse ricevuto dai canonici come loro uomo; e dice che i canonici lo consideravano loro uomo – l’uomo migliore e più importante che avessero in quel luogo – e che egli stesso dichiarava di essere uomo dei canonici e di non avere alcun signore all’infuori di essi. Dopo la morte di Gianni di Verrano, vide che anche suo figlio veniva talora alla canonica, per versare un censo di 20 denari. Interrogato sul tenimento di Ferretto, dice che questi ha dalla canonica un tenimento, ma non sa di quale entità [1].

Interrogato sulla residenza di Ferretto, dice che risiede nel poggio di Santa Colomba, che appartiene in comune e pro indiviso – secondo ciò che il teste ha sentito dire e ritiene, in base all’opinione corrente tra gli uomini del luogo – ai canonici e ai vicedomini; ma ignora quanta parte spetti a ciascuno.

Interrogato sulle prestazioni che vide fornire alla canonica da Gianni di Verrano e dal figlio, risponde di averli visti dare un canone di 20 denari, far legna e pali per la canonica insieme agli altri villani di questa, prestare la propria opera a fornaci e calcinai e dare le albergarie alla canonica come gli altri villani di questa, nella proporzione che a loro toccava. Dice inoltre di sapere, per sentito dire, che i due diedero alla canonica un dazio, ma non sa di quanto. Una volta che Gianni e Ferretto avevano recato offesa agli agenti della canonica, fu il teste in persona ad eseguire nei loro confronti una spoliazione violenta, conforme a quelle che compie un signore contro i suoi villani; egli dice inoltre che è opinione corrente e diffusa in quella terra che essi dipendono direttamente dalla canonica come suoi uomini e villani, e in tale condizione dice di averli visti tenere sino ad oggi.

Interrogato se avessero un allodio e fossero annoverati tra gli alloderi, risponde di non sapere se abbiano un allodio e dice che non diedero mai un dazio come alloderi se non nel corrente anno e non furono mai annoverati tra gli alloderi, bensì diedero sempre il dazio come villani della canonica e vennero sempre nominati tra i villani della canonica [2]. Dice inoltre che Ferretto è nato nel fondo di residenza di cui sopra e che egli e suo padre fornivano alla canonica le prestazioni suddette e molte altre cose e che detenevano in nome della canonica […] Altro non sa.


§ Giovanni Caldume dice sotto giuramento le stesse cose di Albertinello, ma dice anche che Gianni di Verrano e suo figlio risiedettero sempre nel proprio allodio e hanno molti beni allodiali, che si sono comprati, e dice che detengono in nome della canonica terre, una vigna, un bosco e degli ulivi […] Dice che i canonici riscossero il dazio da lui medesimo, Giovanni Caldume, e dagli altri loro villani, al modo che i signori esigono dai propri villani, e che Gianni di Verrano finchè visse fu sempre castaldo dei canonici – ma ignora se desse il dazio quando era castaldo.

Aggiunge inoltre che in coscienza propria e secondo le affermazioni dei suoi vicini il fondo su cui risiedettero lui medesimo e Gianni di Verrano è un loro allodio, e non è in quella parte del poggio di Santa Colomba posseduta in comune da canonici e vicedomini. Altro non sa, se non che fu consorte di Gianni di Verrano e condivise con questi un tenimento. […]


§ Il canonico Giovanni dice che sono trascorsi quarant’anni da che, a sua conoscenza, Ferretto, Gianni e il padre di quest’ultimo, Verrano, sono nello stato di uomini e angariali della canonica. Questa li teneva alle sue dirette dipendenze in qualità di villani, e il teste dice che li vide fornire alla canonica quel tipo di prestazioni che i villani forniscono ai loro signori: davano cioè un canone in danaro, che in seguito, precisamente due anni or sono, fu commutato in un affitto di 5 staia di frumento – ma non sa se sia stato effettivamente versato; raccoglievano nella selva legna e rovi; portavano la calce ai canonici, come a loro signori, quando era necessario; prestavano albergarie, recavano talora ai canonici, come a loro signori, pesci, uccelli [3] e lepri e andavano a pescare per i canonici quando era loro comandato.

b/ La sentenza

In nome di Dio, amen. Nacque una controversia tra il prete Benzo da una parte, rappresentante, specificamente istituito per la presente causa, del collegio canonicale di S. Maria del vescovato senese, e dall’altra parte il convenuto Ferretto di Giovanni di Verrano: i canonici sostenevano che costui dipendeva direttamente da loro come loro uomo e villano, che in tale stato lo avevano detenuto – insieme al padre e al nonno – per trent’anni e più e che non era mai stato annoverato tra gli alloderi, mentre Ferretto dichiarava di essere libero e alloderio e di non essere affatto villano dei canonici, affermava che nemmeno suo padre e suo nonno lo erano stati e intendeva essere annoverato tra gli alloderi.

Poiché i consoli e i consiglieri senesi, cioè Giacomo Paltonieri, Tommaso, Mariano, Provenzano e Ildibrando di Giuseppe, erano tenuti in virtù del loro giuramento al Comune senese a difendere nei confronti di chiunque gli alloderi e i diritti e le ragioni di questi, e d’altro canto desideravano che non venissero lesi i diritti di nessuna delle due parti, affidarono a me, Federico giudice, il compito di definire e istruire la lite suddetta: se cioè Ferretto fosse alloderio o se fosse o meno villano dei canonici.

Onde io, Federico, per grazia di Dio giudice ordinario del Signor imperatore Federico, dietro mandato dei suddetti consoli e consiglieri, avendo udite le dichiarazioni e le allegazioni di ambo le parti; avendo udita inoltre la dichiarazione di Ferretto, il quale disse di essere uomo dei canonici in ragione di un loro podere, che egli deteneva in loro nome; avendo esaminato con cura i testimoni prodotti da ambo le parti e la questione se Ferretto fosse o meno alloderio; avendo raggiunto la certezza della verità, così mi pronunzio:

Secondo l’uso di questa regione Ferretto, benché possieda – come ho potuto accertare – un allodio, è tuttavia villano dei detti canonici e non alloderio poiché detenne per lunghissimo tempo un tenimento dei canonici nella qualità di loro uomo, poiché fu a lungo detenuto dai canonici e poiché questi percepirono da tempi antichi prestazioni del tipo che i villani sogliono compiere per i propri signori.

[1] Per il termine tenimento cfr. Sez. I, doc. n. 9, nota 5.

[2] Si distingue qui il dazio versato dai liberi proprietari fondiari (alloderi) al Comune cittadino e il dazio versato dai dipendenti della signoria (villani) al proprio signore. In ambedue i casi il termine dazio, al contrario di quanto avviene oggi, designa un’imposta diretta.

[3] In un’altra deposizione, che non abbiamo riprodotta qui, si parla di fagiani.

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UpUltimo aggiornamento: 17/01/05