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Didattica > Fonti > Le campagne nell’età comunale > III - Introduzione (2/3)

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione III – La proprietà fondiaria nella prima età comunale

Introduzione (2/3)

Nel diritto romano dell’età imperiale era stata vietata l’appropriazione diretta e definitiva del pegno da parte del creditore ed erano stati imposti limiti rigorosi al godimento dei frutti del bene tenuto in pegno, poiché sia l’una che l’altra pratica offrivano ai creditori la possibilità di lucri che erano ritenuti eccessivi. Ma nel corso del Medioevo il prestito su pegno fondiario, nella forma qui descritta, si riaffermò e rappresentò anzi per lungo tempo il tipo più diffuso di rapporto creditizio.

In questa attività si impegnarono in particolar modo preti, chiese e monasteri dell’Italia centro-settentrionale. Nel diritto canonico era stato sancito da lunga data il divieto del prestito a interesse, ma la speciale forma di prestito che abbiamo descritto consentiva di mascherare il carattere usurario dell’operazione: essa si configurava infatti come una normale compravendita, munita di una semplice clausola aggiuntiva; la percezione degli interessi era implicita, e quindi dissimulata, nel godimento dei frutti del bene impegnato; era infine possibile far figurare nella compravendita un prezzo fittizio, più elevato di quello realmente versato dal compratore-creditore. Oltre a essere aggirato ed eluso con questi procedimenti, il divieto canonico del prestito a interesse era spesso semplicemente ignorato, e violato senza preoccupazioni né conseguenze: esso non costituì mai, in realtà, un ostacolo effettivo all’esercizio del credito, nemmeno per sacerdoti ed enti ecclesiastici.

Chiese e monasteri acquisirono dunque vasti possedimenti non solo grazie alle donazioni e alle concessioni di cui abbiamo parlato sopra, ma anche mettendo a profitto la loro forte disponibilità di denaro liquido. L’esazione delle decime e la riscossione regolare di canoni e censi facevano affluire nel loro “tesoro” e nelle loro “caneve” (magazzini) una quantità di moneta e di derrate generalmente assai superiore alle necessità di spese correnti delle comunità ecclesiastiche. Nei secoli dell’Alto Medioevo si erano inoltre accumulati presso le chiese ingenti depositi di oggetti preziosi, che nel corso dei secoli XI e XII furono in gran parte immessi in circolazione, come mezzi di pagamento destinati all’espansione del patrimonio fondiario (per l’uso dei preziosi come mezzo di pagamento cfr. doc. n. 6a).

Tale espansione rappresentò talora un parziale recupero di quello che era stato l’immenso patrimonio delle chiese nell’età carolingia e ottoniana. In quel tempo (inizio del secolo IX-fine del secolo X) le gerarchie ecclesiastiche, in particolar modo i vescovi, erano investiti di una serie di pubblici poteri e costituivano un elemento essenziale della struttura politica e amministrativa del regno d’Italia. Allora più che mai i possedimenti ecclesiastici erano stati strumenti di dominio e di governo: il che vuol dire, in concreto, che erano l’oggetto di frequentissime concessioni a funzionari laici, a famiglie potenti, a esponenti minori dell’aristocrazia militare, a persone di mediocre livello sociale che si ponevano sotto la protezione delle chiese e offrivano a loro volta il proprio appoggio per ogni evenienza politica e militare. Le concessioni di beni ecclesiastici a questa vasta “clientela” di laici assumevano la forma del beneficio feudale e delle varie forme di cessione a lungo termine che descriveremo più avanti; in linea di principio il diritto di proprietà rimaneva alle chiese, di fatto il divieto canonico di alienazione dei beni ecclesiastici era eluso, perché i concessionari laici finivano col disporre a proprio piacimento delle terre e spesso le concedevano a loro volta, o addrittura le vendevano, a terze persone.

Nell’età della riforma della Chiesa, tra la metà del secolo XI e gli inizi del XII, vi fu negli ambienti ecclesiastici un movimento di reazione contro questo processo dispersivo: una parte dei “tesori”, cioè delle ricchezze in denaro e oggetti preziosi, accumulati presso le chiese cattedrali, fu destinata al recupero dei beni fondiari perduti, mentre il divieto di alienazione dei beni ecclesiastici veniva ribadito e fatto osservare con maggior rigore che nel passato; una parte sostanziale dei possedimenti vescovili venne affidata in autonoma gestione al clero della chiesa cattedrale, costituito in una organizzazione di tipo comunitario, la canonica, che fu uno degli strumenti principali della riforma ecclesiastica, della rinnovata vitalità economica e dell’incremento patrimoniale delle chiese cattedrali nei secoli XI e XII. Fiorì inoltre tutta una serie di abbazie e di congregazioni monastiche che avviarono un processo lento ma metodico di acquisizione di terreni, spesso beneficiando di alcuni fenomeni di disgregazione dei maggiori patrimoni laici e incamerando castelli e territori già appartenenti a famiglie dell’aristocrazia militare.

Anche i beni ecclesiastici rappresentarono comunque, sino a tutto il secolo XII, uno strumento di potere e di governo sugli uomini piuttosto che una “proprietà fondiaria” destinata esclusivamente allo sfruttamento economico. All’interno delle gerarchie si verificarono spesso situazioni di grande tensione, nelle quali i vescovi potevano essere indotti a disporre dei beni della cattedrale per acquistare i necessari appoggi politici: tale il caso del vescovo scismatico di Cremona, che secondo i suoi accusatori avrebbe svenduto boschi, derrate e strumenti agricoli e avrebbe fatto ampio ricorso a concessioni feudali “per conquistare stabilmente, con la forza, il seggio vescovile che aveva usurpato” (doc. n. 9). Dilapidazioni dell’entità di quelle attribuite al vescovo cremonese costituivano, certo, un fenomeno eccezionale dovuto a particolari circostanze. Le concessioni di benefici feudali da parte di vescovi, canonici e abati costituivano invece una prassi corrente. Il rapporto che veniva così istituito tra le chiese e i loro beneficiari era assai diverso a seconda della posizione sociale di questi ultimi, che potevano essere contadini, piccoli proprietari, artigiani oppure persone di condizione assai elevata (cfr. i due atti tradotti qui sotto il n. 10): ma in ogni caso le relazioni di subordinazione, di “clientela” o di alleanza che gli ecclesiastici riuscivano ad instaurare grazie a simili concessioni comportavano la rinunzia ad esercitare un controllo economico diretto sulla terra e sulla produzione agricola.

Questa scissione tra la proprietà giuridica, nominale del territorio rurale e la gestione effettiva delle varie unità economiche che lo componevano fu comune a tutte le grandi aziende, ecclesiastiche e laiche, dei secoli XI e XII. Ad accentuare il fenomeno contribuì il processo di dissoluzione del cosiddetto “sistema curtense”, cioè di quella che era stata la tipica organizzazione economica e amministrativa della grande proprietà nelle epoche carolingia e ottoniana. Una gran parte delle terre lavorative si trovava allora suddivisa in tanti poderi detti “mansi”, ciascuno dei quali era concesso (generalmente a lungo o a lunghissimo termine) a una famiglia contadina di condizione libera o servile: come corrispettivo della concessione, i coltivatori erano tenuti a versare una quota della produzione annuale (differenziata a seconda del prodotto: metà del vino, un terzo dei grani ecc.) oppure una quantità annuale fissa di derrate o ancora dei canoni in denaro; ma soprattutto erano tenuti a dedicare un numero consistente di giornate lavorative (spesso due o tre giornate per settimana) alla coltivazione della “parte dominicale” o “dominico” (pars dominica, dominicum, domnicatum), cioè di quelle terre che i proprietari non avevano frazionato e ceduto al pari dei “mansi”, ma mantenevano sotto la loro diretta gestione economica. Alla lavorazione del dominico partecipavano anche degli schiavi, i quali non avevano in concessione alcuna terra ma ricevevano direttamente dal padrone vitto, vestito e alloggio. Dalla produzione del dominico, consegnata integralmente ai proprietari, questi ultimi prelevavano infatti quanto era necessario ad assicurare la sussistenza annuale degli schiavi; ai contadini dei mansi, che venivano a lavorare sul dominico, era assicurato in genere il pasto della giornata.

Nei documenti dei secoli XI e XII ricorrono molto spesso i termini “manso” (cfr. ad es. doc. n. 2 e Sez. I, docc. nn. 5, 7, 9) e “dominico” (cfr. ad es. doc. n. 5b e Sez. I, docc. nn. 1 e 2), a designare rispettivamente il podere su cui lavorava una famiglia contadina e le terre gestite direttamente dal proprietario. Ma le terre dominicali appaiono adesso frazionate e disperse, e sono comunque in netta minoranza rispetto ai mansi e ad altre terre date in concessione ai coltivatori oppure a imprenditori intermedi. Una classe di schiavi rustici non esisteva più (cfr. Sez. II, Introd.); proprio la difficoltà di provvedere direttamente al loro mantenimento era stata una delle ragioni determinanti che avevano indotto i grandi proprietari a restringere sempre di più la parte dominica della curtis e a creare nuovi mansi: su questi erano stati insediati gli schiavi (destinati a fondersi con gli altri contadini dipendenti nell’unica categoria dei servi della gleba), perché provvedessero essi medesimi alla propria sussistenza e versassero ai proprietari un canone.

Con lo sviluppo di questa gestione economica indiretta e con la drastica riduzione del dominico, venne scomparendo il sistema di prestazioni d’opera che aveva costituito l’elemento centrale dell’ordinamento curtense. Nella prima età comunale i detentori di mansi non dedicavano una parte importante del proprio lavoro alla messa a coltura della terra dominicale, che non rappresentava più una parte considerevole e relativamente compatta dei grandi possedimenti: quando anche erano contemplate nelle concessioni fondiarie, le prestazioni d’opera si riducevano a poche giornate annuali di lavoro o ad un numero determinato e ridotto di servizi di trasporto (cfr. docc. nn. 2, 4, 6). Le menzioni di “dominico” nei documenti non attestano dunque che una sopravvivenza, destinata a sparire lentamente, dell’antico “sistema curtense”. Nel corso dei secoli XI-XII, poi, sotto l’impulso di un forte incremento demografico, dell’accresciuta mobilità della terra e quindi di un accentuarsi del fenomeno del frazionamento agrario, venne progressivamente intaccata anche la compattezza dei mansi e il termine stesso decadde o mutò di significato. Si sfaldarono così tutti gli elementi costitutivi della curtis, che era intesa ormai come entità circoscrizionale e non più come la forma tipica di organizzazione economica della grande proprietà.

Il “sistema curtense” aveva assicurato a suo tempo una certa coesione a patrimoni anche estesissimi e dispersi; le grandi dinastie laiche e le potenti abbazie dei secoli IX e X disponevano spesso di boschi e di terre distanti tra loro decine e decine di chilometri: il raggruppamento di questi beni in tante curtes, ciascuna delle quali aveva una sua struttura organizzativa articolata e autonoma, garantiva l’indispensabile decentramento dell’amministrazione economica. Tale era stata ad esempio la situazione della celebre abbazia di Bobbio, che ancora nel secolo XI possedeva fondi lontani oltre cento chilometri dalla sede abbaziale (doc. n. 8). In quest’epoca, tuttavia, il caso era ormai eccezionale: le numerosissime fondazioni monastiche del secolo XI e le abbazie di più antica origine che – al contrario di Bobbio – procedettero nell’età comunale ad una riorganizzazione del loro patrimonio, costituirono attorno a sé dei complessi fondiari meno estesi e articolati di una volta, ma più compatti.

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UpUltimo aggiornamento: 17/01/05