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Didattica > Fonti > Le campagne nell’età comunale > II - Introduzione (1/4)

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione II – La servitù della gleba

Introduzione (1/4)

Nelle fonti dei secoli XI-XIV la parola servus (al femminile: ancilla) ha lo stesso significato che aveva nel latino classico: indica lo schiavo, cioè un uomo che è proprietà di un altro uomo e che può essere oggetto di alienazione alla stregua di un pezzo di terra, di una casa, di una bestia dal lavoro. Secondo il diritto romano, lo schiavo non poteva compiere nessun atto che avesse valore giuridico: se vendeva o donava dei beni, la vendita o donazione era nulla; la sua unione con una donna non poteva essere considerata matrimonio, non produceva cioè alcun effetto civile.

Nell’Italia dei Comuni esistevano molti uomini di simile condizione, ma – a differenza da quanto era avvenuto nell’età romana e nei primi secoli del Medioevo – essi costituivano una piccola minoranza della popolazione agricola. La gran parte degli schiavi e delle schiave era addetta infatti al servizio domestico presso famiglie abbienti e si concentrava nelle città maggiori. Una categoria particolare era quella dei “servi di masnada” o “masnadieri” (cfr. docc. nn. 2 e 7), posseduti per lo più da famiglie aristocratiche e impiegati da queste come milizia privata e personale, come messi, agenti ed esecutori materiali delle loro volontà. Ai servi di masnada erano assegnate spesso in godimento case e terre: essi potevano così trasformarsi in agricoltori e una volta che avessero ottenuto dai padroni la “manomissione” (cioè un atto solenne di liberazione), in medi o piccoli proprietari fondiari.

La maggioranza dei contadini non si trovava in condizioni di schiavitù, ma era legata da altre forme di dipendenza personale. La loro condizione giuridica è designata nelle fonti con termini disparati. Nell’Italia settentrionale si parla in genere di rustici (docc. nn. 3 e 4), in Toscana di villani (docc. nn. 1, 2, 5); dovunque è diffuso il termine di “manenti” (docc. nn. 5-10), che viene dal verbo latino manere (= “risiedere”, “dimorare”) e accenna all’obbligo di non abbandonare il fondo senza il consenso del padrone (obbligo di “manenza”). Anche in età romana molti coltivatori erano vincolati da quest’obbligo, pur essendo liberi sotto ogni altro aspetto, e venivano chiamati coloni (la loro condizione: colonatus); nell’età dei Comuni, quando erano fiorenti gli studi di diritto romano e questo veniva applicato e adattato a tutti i rapporti sociali, si riprese il termine coloni e lo si usò alternativamente alle parole rustici, villani, “manenti” della lingua volgare (docc. nn. 2, 8, 9, 10). Riesumando tutta una terminologia con cui nei testi romani si erano designate forme diverse di colonato, notai e giuristi dei secoli XII-XIV parlarono nelle loro carte di inquilini, di censiti, di “ascrittizi” (docc. nn. 5, 7, 8, 9, 10), senza che ai differenti termini corrispondessero differenze reali nelle condizioni giuridiche dei contadini. Così i dotti inquirenti nella causa tra la Badia fiorentina e il colonus Benivieni (doc. n. 2) chiedono a un testimone “che tipo di colono era Benivieni”: e il testimone risponde che Benivieni era un villano, cioè non fa altro che tradurre in, volgare toscano il termine romanistico. Quanto agli storici moderni, essi sogliono definire tutti questi villani, rustici, “manenti”, coloni, inquilini ecc. con l’unico termine di “servi della gleba”.

Questo termine non è completamente felice, per motivi che chiariremo in seguito. Tuttavia è bene continuare ad usarlo, sia perché mette in luce un aspetto molto importante dei rapporti di dipendenza contadina sia perché sono le stesse fonti a suggerirne l’impiego. Il termine deriva da quello che era il tratto più caratteristico del colonato romano, cioè dal divieto di abbandonare la terra del padrone: il colono era “ascritto” (adscriptus = “vincolato”) alla gleba (“zolla”, e cioè “terra”, “fondo”). Il fatto stesso che nei secoli XII-XIV sia stato ripreso il termine colonatus per indicare i rapporti di dipendenza contadina dimostra come a quel tempo la residenza obbligatoria sul fondo fosse un elemento essenziale di tali rapporti. Abbiamo accennato del resto alla grande diffusione del termine “manenti”, che trae origine dal vincolo di residenza.

La cessazione dell’obbligo di residenza è un contenuto essenziale degli atti di affrancazione dei contadini dipendenti: “liberò e sciolse Martino […], villano e manente […], da ogni villanatico […] e da ogni obbligo di residenza e di omaggio e da ogni servitù della gleba […]. Così che Martino e i suoi eredi e tutta la progenie che da lui discende e discenderà siano d’ora in poi sempre liberi e sciolti dai vincoli di cui sopra […] e a ciascuno di loro sia lecito andare dovunque voglia […] e dimorare dove preferisca” (doc. n. 5; e vedi anche il n. 6).

Molti elementi contribuiscono a farci individuare nell’obbligo di residenza il punto centrale della dipendenza contadina. Si trattava, come risulta dai documenti nn. 1, 2, 5, 6, 8, 9, di un vincolo ereditario: ora nel Medioevo il fatto di essere costretti a determinati obblighi per condizione di nascita, e non per volontà personale, implicava già di per sé l’esclusione dalla categoria degli uomini liberi. A parte questo, la facoltà di potersi spostare, di poter fissare ad arbitrio la propria residenza era concepita come un requisito essenziale della libertà. Per un contadino essere privo di questa libertà comportava restrizioni di altri diritti essenziali. Fin dall’età romana il patrimonio personale del colono era concepito come una specie di pegno, di garanzia per il padrone: questi avrebbe avuto diritto ad impossessarsene nel caso che il colono, trasgredendo al suo obbligo fondamentale, avesse abbandonato il fondo. Una conseguenza molto importante, che si manifestò sia in età romana che nel Medioevo, era che il contadino non potesse disporre dei propri averi senza il consenso del padrone.

Era riconosciuta tuttavia al contadino la facoltà di disporre del denaro che si fosse procurato col proprio lavoro. Se infatti, dopo aver dedotto il canone dovuto al padrone, le cose necessarie al sostentamento della propria famiglia e degli animali, le sementi per l’anno successivo e le scorte, egli disponeva ancora di un’eccedenza di prodotto agricolo, poteva venderla e accumulare così, in una serie di anni, un patrimonio mobiliare suo personale (spesso designato nelle fonti con il termine conquestum: cfr. doc. n. 6). Un possibile impiego del patrimonio così costituito era l’acquisto di terre, con la conseguenza che il contadino veniva a trovarsi nella duplice posizione di servo della gleba e di piccolo o medio proprietario. Un altro impiego poteva consistere nell’acquisto della libertà: versando una somma al padrone, il servo otteneva di essere affrancato.

Ereditario, l’obbligo di residenza si estendeva a tutto il nucleo familiare del contadino dipendente. Le sue figlie e le sue sorelle potevano sposarsi liberamente solo con contadini che dipendessero dal medesimo padrone, in modo che il numero complessivo di braccia, di forze lavorative sulle terre padronali rimanesse immutato: era questo – il lettore lo tenga ben presente – lo scopo essenziale del rapporto di servitù. Perché le donne di condizione servile contraessero matrimonio con uomini liberi, o dipendenti da un padrone diverso dal loro, era necessario, ancora una volta, il consenso padronale.Il vincolo alla “gleba” colpiva dunque un’altra libertà fondamentale delle persone. Esso era l’elemento determinante in un sistema di restrizioni, che poneva la gran parte dei contadini al di fuori dello stato di libertà.

La condizione di questi servi medievali presentava un gran numero di analogie con quella dei servi dell’età romana, cioè degli schiavi: restrizione della capacità di compiere atti giuridici (ma disponibilità di un patrimonio personale: il “peculio” degli schiavi, il conquestum dei servi della gleba: cfr.il doc. n. 6, dove i due termini sono abbinati), impedimenti ai matrimoni. Di più, essendo legato alla terra padronale, il servo della gleba ne seguiva i trasferimenti: quando il proprietario alienava il fondo a un’altra persona, il servo diveniva dipendente di quest’ultima; appariva così che anch’egli, come lo schiavo, fosse un oggetto degli scambi tra uomini liberi.

D’altra parte, fin dalla tarda età imperiale romana era venuta lentamente mutando la condizione personale degli schiavi rustici. Adibiti al lavoro dei campi, sempre meno spesso essi erano mantenuti dal padrone: in genere ricevevano un fondo in coltivazione, al pari degli altri contadini, traevano da questo il sostentamento per la propria famiglia e versavano al padrone un canone. Le leggi degli imperatori romani avevano concesso agli schiavi di poter disporre, entro certi limiti, dei beni che si fossero procacciati con il proprio lavoro (il “peculio”); la legislazione ecclesiastica riconosceva validità religiosa al matrimonio degli schiavi.

Così, per effetto di un duplice processo storico, le condizioni dei servi della gleba e quelle degli schiavi rustici vennero a fondersi, e si formò un unico rapporto di dipendenza contadina. Una prova di questa fusione è proprio il fatto che nelle lingue volgari il termine “servo”, derivato dall’antico servus = schiavo, sia stato adottato per designare la nuova categoria di dipendenti contadini. Siccome d’altronde esistevano persone adibite al servizio domestico, la cui condizione era identica a quella dei servi antichi, così negli idiomi volgari si creò un termine tutto nuovo per designarle; esse provenivano, grazie ai commerci e alle razzie, dai Balcani e dai paesi dell’Oriente europeo, erano dunque in grandissima parte di lingua e di nazionalità slava: da sclavi = Slavi derivarono appunto i vocaboli volgari “schiavi”, “Sklaven” ecc. Ma nel latino dei secoli XI-XIV, cioè nella lingua dotta dei giuristi e dei notai, si continuava ad usare – come abbiamo già indicato – il termine servi. Nella misura in cui esistevano interferenze tra il latino dei giuristi e dei notai e la lingua volgare, si creavano numerose possibilità di equivoco: “servo” si diceva anche di schiavi domestici, servus equivale talvolta nelle fonti a rustico e a villano, cioè a servo della gleba.

La fusione degli schiavi rustici e dei servi della gleba in un’unica forma di dipendenza contadina si era già compiuta agli inizi dell’età comunale. Tra la metà del secolo XI e la metà del secolo XII le fonti parlano piuttosto raramente delle condizioni dei contadini e non lasciano cogliere alcuna distinzione importante tra i differenti tipi di dipendenza; in seguito esse contengono riferimenti sempre più numerosi e dettagliati alle condizioni dei contadini: compaiono allora tutti quei termini (rustici, villani, coloni ecc.) nei quali gli storici moderni identificano, come si è detto, l’unica categoria dei “servi della gleba”. Ma tra la metà del secolo XII e la metà del secolo XIV questa forma di dipendenza contadina non era caratterizzata soltanto dal vincolo alla terra e dalle conseguenti restrizioni di libertà (limiti alla capacità di alienazione e di matrimonio). Essa comportava anche una serie complessa di obblighi, che passiamo ad analizzare sulla base di alcuni tra i documenti qui raccolti.

I villani Ferretto e Benivieni, che dipendevano rispettivamente dai canonici della cattedrale senese e dagli abati della Badia fiorentina (docc. nn. 1 e 2) versavano censi annuali in denaro o in natura e donativi vari (“pesci, uccelli e lepri”: doc. n. 1; pollame, uova, lino, olive, vino: doc. n. 2), ed eseguivano per i loro padroni una serie di lavori: Ferretto tagliava legna e faceva pali, contribuiva alla fabbricazione di “fornaci e calcinai”, portava la calce ai canonici e andava a pescare dietro loro ordine; Benivieni faceva per gli abati “calcinaio e calcina”, era adibito alla manutenzione di un mulino e compiva lavori di muratura e servizi di guardia presso un castello della Badia. Ambedue i villani versavano un’imposta diretta (dazio) e fornivano albergarie. Benivieni era soggetto all’autorità giudiziaria degli abati: “era di dominio pubblico nel paese – afferma un teste – che Rinucciolo e il figlio Benivieni davano agli agenti dell’abate […] penalità, banni […]”; quanto a Ferretto, sembra che i canonici lo avessero violentemente spogliato di alcuni suoi beni per punirlo di un’offesa recata ai loro agenti: dal contesto si comprende chiaramente che l’azione dei canonici non era considerata un atto illegittimo di vendetta privata, bensì l’espressione naturale di una loro autorità giudiziaria.

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UpUltimo aggiornamento: 17/01/05