Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI –
metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
Introduzione (2/4)
Soggetti alla giurisdizione dei padroni e al loro potere di “banno”
erano anche i servi della gleba (rustici) del territorio di
Vercelli, che furono affrancati in massa dal Comune di Vercelli con
la nota legge del 10 luglio 1243 (doc. n. 4);
dal testo della legge si apprende che i padroni esigevano inoltre contributi
vari (“maltollètte, angarìe, parangarìe ed
altre innumerevoli estorsioni”) e riscuotevano il fodro. Nel territorio
modenese un uomo stretto da vincoli “di manenza e di servitù
della gleba” (doc. n. 6) era tenuto per
consuetudine a “prestazioni di denari e di opere”, al versamento
di imposte (colte) e alla concessione di albergarie. Una celebre
legge bolognese (doc. n. 9) lamenta il fatto
che tutti i contadini dipendenti fossero “obbligati a fornire
[…] servizio militare e cavalcate, oppure collette o
altre contribuzioni, oppure donativi di maiali, determinate albergarie,
cera, capponi, focacce e altre prestazioni di carattere speciale o generale”.
Si deve osservare che in queste fonti il vincolo alla gleba viene appena
menzionato, quando non è addirittura passato sotto silenzio.
Non si tratta di una particolarità dei documenti scelti da noi,
bensì di un fatto assolutamente generale nelle fonti italiane
dell’età dei Comuni. Non c’è dubbio che Ferretto, Benivieni
e gli altri villani di Toscana, i rustici di Vercelli,
i manenti e i coloni dell’Emilia fossero legati al fondo, cioè
che il padrone avesse il diritto di muovere contro di loro un’azione
rivendicativa nel caso avessero abbandonato il fondo per trasferirsi
in città o sopra un nuovo podere. Ma sia nelle carte private
che negli atti processuali o nei solenni documenti di affrancazione
dei secoli XIII e XIV si insiste soprattutto su quel complesso di obblighi
e di prestazioni di i cui abbiamo fornito esempi qui sopra: soggezione
all’autorità giudiziaria e al potere coercitivo del padrone,
oneri di natura militare presso i castelli, fodro e albergaria, imposte
speciali, censi, donativi e “angarie”. Si tratta, come il
lettore avrà già constatato, dei medesimi rapporti di
dipendenza che caratterizzavano il regime signorile. Anche le restrizioni
alla capacità di alienare beni e di contrarre matrimonio, che
abbiamo messo qui in relazione con il vincolo alla gleba, presentano
una stretta analogia con il controllo sulle alienazioni e sui matrimoni
esercitato dai signori, e di cui abbiamo visto esempi nella Sezione
precedente.
Le fonti comunali insistono a tal punto sugli obblighi di natura signorile
dei servi, che lo storico è portato senz’altro a identificare
dipendenza signorile e servitù della gleba. Per cogliere il senso
profondo di questa identificazione è necessario ricordare quale
era stata l’evoluzione del regime signorile nel medesimo periodo. Abbiamo
veduto nella Sezione precedente come, dalla metà del secolo XII,
fosse stato eroso il carattere pubblico e territoriale del dominio signorile
e come l’esercizio di questo dominio fosse sempre più contestato
da parte soprattutto di medi e piccoli proprietari fondiari. La potestà
del signore venne così a restringersi alle sole persone che risiedevano
e lavoravano su terra di sua proprietà. Mentre infatti nei confronti
dei medi e piccoli proprietari egli riusciva a mantenere la propria
autorità solo imponendo vincoli di tipo feudale o stipulando
convenzioni, i servi rimanevano integralmente soggetti alla sua autorità
giudiziaria, fiscale e patrimoniale. La soggezione personale ed ereditaria,
che caratterizzava il loro stato, era ormai la base principale su cui
potesse fondarsi la potestà signorile.
Ma anche questa base era vacillante. Il processo di contestazione dell’autorità
signorile, promosso dai liberi alloderi, coinvolse anche i servi della
gleba. Tra le due categorie non esisteva infatti una precisa linea di
demarcazione. Il fatto stesso che per un lungo periodo di tempo fossero
stati tutti soggetti all’autorità signorile aveva costituito
un elemento di fusione. Grazie al conquestum molti servi si
erano procurati fondi di loro proprietà e lavoravano su questi
oltre che sulle terre del signore. Un esempio molto tipico e interessante
è quello del villano Ferretto (doc. n. 1
). Il padre di Ferretto era stato “castaldo”, cioè
amministratore laico, dei canonici di Siena; fu certo grazie a questa
attività che egli e Ferretto si procurarono i mezzi per comperare
“molti beni allodiali”: a questo punto Ferretto cercò
di sottrarsi al dominio dei canonici e chiese alle autorità cittadine
di “essere annoverato tra gli alloderi”, cioè tra
i liberi proprietari.
Inoltre, proprio perché il vincolo servile era ereditario, potevano
trovarsi nella condizione giuridica di servi i discendenti di famiglie
che, nel corso di generazioni, avevano accumulato notevoli ricchezze
e raggiunto una elevata posizione sociale: tale il caso di Jacopo di
Buono e di Bartolo di Giunta (il secondo era “giudice e notaio”!),
che il monastero di Passignano liberò nel 1279 “da ogni
vincolo […] di colonia” (doc. n. 8).
Quanto più il valore delle terre e delle ricchezze personali
del servo superava quello del fondo a lui concesso dal signore, tanto
più risultava inevitabile una contestazione dei diritti signorili,
analoga a quella mossa dai liberi “alloderi” e di cui si
è parlato nella Sezione precedente.
Si capisce dunque come i signori abbiano cercato di instaurare quei
vincoli feudali, dei quali abbiamo visto esempi nella Sezione precedente,
anche per mantenere il proprio dominio sui servi. In alcuni casi il
servo veniva affrancato, in cambio della completa rinunzia a ogni suo
diritto sul fondo, ma subito dopo il padrone glielo concedeva di nuovo
a titolo feudale (doc. n. 5). Spesso invece
la qualifica di colono e quella di fedele si trovano senz’altro giustapposte
e indicano la stessa categoria di persone (cfr. docc. nn. 9
e 10); il servo della gleba è designato
talora come “uomo” (homo) del signore (docc. nn.
1 e 2), cioè
con il termine che designava il vassallo feudale: come quest’ultimo,
egli poteva essere tenuto a prestare l’“omaggio” (homagium,
hominagium) (cfr. ancora il doc. n. 5,
dove il villano appare vincolato all’omaggio già prima
dell’atto di affrancazione e della concessione in feudo).
Il lettore comprende adesso perché abbiamo affermato che “servo
della glebaӏ un termine storiografico non completamente
felice. Esso sottolinea un solo aspetto del rapporto di dipendenza contadina
e, potendosi applicare indifferentemente ai coltivatori non liberi dell’Alto
Medioevo come a quelli dei secoli XII-XIV, non consente di cogliere
le caratteristiche specifiche di questo ceto nei diversi periodi. Si
può continuare senz’altro a parlare di “servi della gleba”
per l’epoca dei Comuni, purché sia ben chiaro che si trattava
allora di un ceto estremamente differenziato al suo interno, spesso
caratterizzato da un vincolo di tipo feudale e comunque sempre da forme
di dipendenza personale che non erano altro se non la manifestazione
ordinaria della dipendenza signorile. Solo tenendo presenti questi aspetti
è possibile comprendere il significato e la portata delle famose
leggi, che alcuni Comuni cittadini promulgano in materia di servitù
della gleba.
Per lungo tempo le classi al potere nelle città non tennero un
atteggiamento netto e definito nelle controversie, che continuamente
opponevano i signori ai propri dipendenti. Abbiamo veduto nella Sezione
precedente (doc. n. 8) che nel 1185 i consoli
di giustizia di Asti confermarono la “potestà” e
il districtus dei canonici della cattedrale sopra i sudditi
ribelli del territorio di Quarto, escludendo solo quei poteri di natura
fiscale e militare che erano rivendicati ormai dal Comune cittadino.
Negli stessi anni i consoli e i consiglieri di Siena si trovarono a
dover prendere una difficile decisione nella lite tra i canonici della
loro cattedrale e il villano Ferretto (doc. n. 1b):
i diritti signorili dei canonici erano incontestabili, ma Ferretto possedeva
beni in piena proprietà (“allodi”) e le autorità
cittadine erano tenute “in virtù del loro giuramento al
Comune senese a difendere nei confronti di chiunque gli alloderi e i
diritti e le ragioni di questi”. Posti in imbarazzo, consoli e
consiglieri demandarono il giudizio a un’altra autorità, il giudice
imperiale Federico il quale diede torto al villano. Nella prima
metà del Duecento, gli Statuti di Treviso negavano l’estensione
dell’autorità signorile a tutti i residenti di un determinato
territorio, ma riconoscevano i diritti del signore sui propri rustici
(Sez. I,. doc. n. 11 ) e le più antiche rubriche degli Statuti
di Vercelli sanzionavano in pieno l’autorità giudiziaria dei
signori nei confronti dei rustici (qui oltre, doc. n. 3).
Già in quest’epoca, tuttavia, la subordinazione di gran parte
della popolazione rurale a signori ecclesiastici e laici appariva difficilmente
conciliabile con l’affermazione della sovranità cittadina. Anzitutto
era praticamente impossibile, una volta ammessa e tutelata l’autorità
di un signore sui suoi servi, evitare che venisse estesa a un numero
sempre maggiore di persone. Quando un servo sposava una donna estranea
alla giurisdizione del signore, questi poteva accampare dei diritti
sulla persona e sui beni di costei. Ecco perché i legislatori
di Vercelli, pur ammettendo che i rustici venissero sottratti
alla giurisdizione cittadina, vollero includere una clausola che salvaguardasse
“tutti i diritti dotali delle mogli dei rustici”
(doc. n. 3, c. 231). Ma il mezzo più
ordinario con cui un signore poteva estendere il proprio dominio era
un altro: quando i rapporti di forza lo consentivano, egli esercitava
pressioni su piccoli proprietari e liberi coltivatori perché
questi si assoggettassero allo stato di servitù. Questo pericolo
spinse alcuni Comuni, come quello di Parma nel 1234, a vietare l’instaurazione
di nuovi rapporti di dipendenza: si riconosceva invece la legittimità
del vincolo alla gleba per chi si trovasse già in tale condizione
(doc. n. 7b).
Anche ammesso che si fosse riusciti a circoscrivere l’autorità
dei signori e a consentirne l’esercizio solo su chi era da lunga data
in condizione servile, sussisteva tuttavia un pericolo serio per la
stabilità interna delle città. Nel corso dei secoli XII
e XIII vi furono numerosi trasferimenti di residenti del contado entro
le mura urbane (si veda il caso di quel Benivieni, che dopo aver lavorato
sulle terre della Badia fiorentina era venuto a dimorare in una “propria
casa” in Firenze: doc. n. 2). Quest’emigrazione
dalla campagna alla città interessò sia i ceti rurali
più agiati (proprietari fondiari di una certa importanza, che
nell’espansione del mercato cittadino, dell’artigianato, dell’attività
mercantile e usuraria trovavano nuove opportunità di impiego
del denaro) sia contadini poveri, che si staccavano dal proprio nucleo
familiare quando questo era troppo numeroso per poter vivere del solo
lavoro agricolo. Gli uni e gli altri erano soggetti in genere a un signore
e questi poteva aver consentito o tollerato il loro allontanamento dalla
terra perché si era potuto così impossessare dei loro
fondi o perché, interessato esclusivamente alla percezione di
un certo reddito, non si curava della consistenza numerica della famiglia
contadina.
Con l’accresciuta importanza dei vincoli di dipendenza personale e con
la progressiva erosione dell’autorità signorile – fenomeni che
raggiunsero la fase critica, come abbiamo detto, verso la fine del secolo
XII – questa tolleranza da parte dei signori dovette essere sempre meno
frequente. Così essi potevano spingersi a rivendicare i propri
diritti di signoria su famiglie residenti in città e che si erano
magari inurbate una o due generazioni prima. Per troncare questa possibilità
di continue contestazioni, questa ricorrente minaccia sui discendenti
di antichi coloni e su contadini che avessero acquisito lo
stato di cittadinanza, i legislatori comunali furono portati a stabilire
delle norme di prescrizione: dopo un certo periodo di tempo, a decorrere
dal momento in cui un uomo si era inurbato, egli non poteva più
essere rivendicato dal signore come suo colono.
Il termine di prescrizione più frequente fu quello di dieci anni,
adottato per esempio negli Statuti di Parma (doc. n. 7a).
Al lettore non deve sfuggire un aspetto essenziale di questa legge.
Essa non aveva valore per alcun membro della famiglia contadina, nel
caso che il capofamiglia fosse rimasto sul fondo; nel caso di fratelli
che detenessero “in comune” la terra padronale, non era
tutelata l’emigrazione in città di uno solo tra essi. I legislatori
favorivano dunque il trasferimento in città di interi nuclei
familiari, non di persone singole: era estranea alle autorità
comunali la preoccupazione, che invece doveva avere spinto tanti contadini
in città, di migliorare la condizione economica della famiglia
contadina nel suo complesso grazie a un alleggerimento della pressione
demografica sul fondo e a una diversificazione delle attività
dei singoli membri.
Considerazioni analoghe devono essere fatte a proposito di una rubrica
dello Statuto di Vercelli (doc. n. 3, c. 246),
che consentiva a chiunque di poter “venire ad abitare nella città
di Vercelli, nonostante l’eventuale fodro o un pignoramento dei suoi
beni eseguito o imposto dal signore o la stipulazione di una promessa
od obbligo di non abbandonare la terra del signore”, purché
l’inurbato abitasse in città “con la famiglia per dieci
anni di seguito”. Era dunque una norma più favorevole rispetto
a quella emanata a Parma: a Vercelli infatti non si tutelavano i contadini
solo dopo che fossero trascorsi dieci anni, ma al contrario si assicurava
sin dall’inizio la loro libertà. Anche in questo caso, tuttavia,
era contemplata l’emigrazione di una intera “famiglia” e
si diceva espressamente che della terra doveva essere fatta “completa
rinunzia al signore”.
Disposizioni simili a queste di Parma e di Vercelli si trovano in numerosi
Statuti cittadini del secolo XIII. Nella pratica esse favorivano l’inurbamento
di medi o piccoli proprietari non coltivatori o di contadini che avessero
rinunziato completamente alla terra; e non consentivano che singoli
contadini abbandonassero il podere su cui lavoravano ancora i propri
familiari. Nella legislazione comunale non c’era dunque alcuna intenzione
di sottrarre manodopera al lavoro delle terre signorili (sotto questo
aspetto, anzi, i diritti dei signori si trovavano ad essere tutelati),
ma solo la volontà di garantire – entro certi limiti e a determinate
condizioni – lo stato di libertà delle famiglie che lavoravano
e abitavano stabilmente entro le mura urbane.
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