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Didattica > Fonti > Le campagne nell’età comunale > II - Introduzione (3/4)

Fonti

Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)

a cura di Paolo Cammarosano

© 1974-2005 – Paolo Cammarosano


Sezione II – La servitù della gleba

Introduzione (3/4)

Verso la metà del Duecento alcuni Comuni cittadini si spinsero più oltre, e sanzionarono la piena libertà personale di tutti i residenti nel contado. Anche qui non si espresse la volontà di distruggere la base economica del potere signorile, bensì quella di eliminare l’autorità giudiziaria, militare, fiscale, politica insomma, che i signori ancora vantavano sui propri servi della gleba. Se i signori si fossero limitati e a percepire canoni fondiari e ad imporre la permanenza delle famiglie contadine sulla terra, i Comuni non sarebbero certo intervenuti in forme così radicali. Ma il tratto caratteristico della servitù della gleba, tra XII e XIII secolo, era appunto la soggezione dei servi ai poteri signorili, cioè a poteri di natura essenzialmente pubblica.

Per i compilatori dello Statuto vercellese del 1241, il riconoscimento della potestà dei signori sui rustici aveva implicato una diminuzione dell’autorità giudiziaria dei magistrati cittadini; proprio dal primo capitolo dello Statuto risulta che il podestà, al quale spettava il governo e la tutela su tutti “gli uomini del districtus e della giurisdizione cittadina”, doveva ammettere una gravissima deroga a questi suoi poteri: “giuro che non costringerò i signori a rendere giustizia ai propri rustici per delitti che abbiano commesso contro di loro” (doc. n. 3, cc. 1 e 231). Ben presto una simile riduzione di autorità apparve intollerabile: nel 1243 questa norma fu abrogata insieme ad altre di analogo contenuto. Gli autori della legge di abrogazione (doc. n. 4) sottolinearono come, dalla potestà dei signori “sulle persone dei loro uomini”, si trovasse “ad essere ridotta la giurisdizione cittadina”.

Un altro elemento importante venne addotto a motivazione della legge: poiché i rustici erano soggetti a “fodri, banni, maltollètte ecc.”, “essi venivano sempre di più a trovarsi nell’impossibilità di accollarsi e di sostenere gli oneri pubblici imposti dalla città e dal Comune di Vercelli”. Per questo furono dichiarati “liberi e immuni […] nei confronti dei rispettivi signori”, ai quali ultimi era fatto divieto di esercitare giurisdizione, di vantare diritti di successione, di esigere tributi, di imporre prestazioni d’opera a carattere angariale: tutti aspetti del potere signorile che abbiamo analizzato nella Sezione precedente. Restavano fermi i canoni dovuti ai signori “come corrispettivo dei fondi e delle terre” concesse ai rustici; del vincolo alla gleba non si faceva parola, perché la questione era stata già definita nello Statuto del 1241 (doc. n. 3, c. 246) nel senso che abbiamo veduto.

La motivazione essenzialmente politica di questa famosa “abolizione della servitù della gleba” del 1243 è messa in risalto anche dalla clausola in cui si negava il “beneficio” dell’affrancazione “a coloro che in alcun tempo si rendano avversari e ribelli ai reggitori e al Comune di Vercelli”; nonché dall’uso della legge stessa come mezzo di pressione nei confronti di alcune comunità rurali, che sarebbero state escluse “da ogni libertà, affrancazione e immunità” se non si fossero presentate “agli ordini del podestà o del reggitore del Comune di Vercelli”.

Anche le leggi fiorentine di affrancazione (cfr. doc. n. 10) furono determinate dalla necessità di evitare una diminuzione di sovranità politica nel territorio. La canonica della cattedrale di Firenze possedeva nel Mugello un insieme assai consistente di terre e di coloni e, nell’estate del 1289 si apprestava a farne atto di vendita agli Ubaldini, una grande casata signorile che era stata a lungo in aperta ostilità con il Comune di Firenze. Le autorità comunali cercarono di evitare questa transazione; l’occasione fu offerta (o creata) da una petizione di comunità rurali del Mugello, i cui delegati fecero presente ai consiglieri di Firenze che la vendita dei beni canonicali agli Ubaldini avrebbe comportato una seria detrazione “alle prerogative e alla giurisdizione del Comune di Firenze”, e chiesero che il Comune si portasse compratore al posto degli Ubaldini. I consiglieri decisero a maggioranza di occuparsi della questione, che presentava qualche difficoltà sul piano finanziario, dato che gli Ubaldini avevano offerto ai canonici una cifra molto notevole; inoltre l’interesse del Comune all’acquisto delle terre e degli uomini del Mugello avrebbe potuto indurre i canonici ad alzare il prezzo o ad accelerare, per il timore di una qualche pressione dei consiglieri di Firenze, la vendita agli Ubaldini.

Era questa seconda eventualità che le autorità comunali dovevano innanzitutto scongiurare, e lo fecero con molta abilità. Nei giorni immediatamente successivi alla petizione degli uomini del Mugello fu elaborato un provvedimento, emanato in forma solenne e definitiva il 6 agosto del 1289, che si pretendeva ispirato a criteri generali di libertà ma in realtà era concepito su misura per la questione in corso. Esso vietava e dichiarava nulla ogni compravendita di fedeli e coloni o di diritti sulle loro persone: sarebbero state consentite solo le vendite fatte al Comune di Firenze; era anche ammessa la vendita dei diritti signorili sopra un colono fatta al colono stesso, vale a dire l’affrancazione dietro un compenso in denaro.

Con quest’ultima precisazione i legislatori volevano probabilmente aprire la via a una soluzione molto vantaggiosa per loro: la canonica avrebbe potuto vendere la libertà ai singoli coloni del Mugello, ricavando da essi la somma che aveva pensato di ottenere dagli Ubaldini. Sin dal primo momento, infatti, i consiglieri fiorentini avevano espresso l’intenzione di far pagare ai coloni stessi il loro riscatto dagli oneri servili. Ma sembra che una vendita in tante piccole rate non convenisse agli ecclesiastici della cattedrale fiorentina; e forse essi si appigliarono alle norme del diritto canonico che vietavano la vendita dei servi e degli altri beni della chiesa e consentivano solo la permuta, cioè lo scambio di beni con altri beni e non con denaro. Questo significava anche che le autorità fiorentine, se avessero voluto acquistare servi e terre del Mugello, avrebbero dovuto prima comprare dei beni immobili da cedere alla canonica in permuta. Ci si orientò infatti verso tale soluzione, che comportando tempi piuttosto lunghi diede agio ai canonici di alzare il prezzo e al Comune di cercare la via per far pagare ai coloni il costo della loro affrancazione.

Nel corso della faticosa trattativa i dirigenti del Comune emanarono una nuova disposizione di contenuto generale: il 3 febbraio del 1290 stabilirono che tutte le persone “non soggette alla giurisdizione del Comune di Firenze”, le quali possedessero entro il contado fiorentino terre e coloni, avrebbero dovuto cederle (con atto di vendita o di permuta) al Comune stesso o comunque avrebbero dovuto liberare i propri coloni. La deliberazione non faceva parola dei canonici, ma era chiaramente intesa a fare pressione su di loro: erano essi che, in quanto soggetti alla giurisdizione ecclesiastica, si sottraevano “alla giurisdizione del Comune di Firenze”.

Le leggi fiorentine del 1289-1290 furono emanate dunque in una precisa contingenza e sventarono un pericolo immediato e ben determinato. Ma se ad esse venne data una formulazione generale, ciò non dipese dall’astuzia o dall’ipocrisia dei legislatori: in realtà la minaccia che i diritti signorili su coloni e fedeli rappresentavano per la sovranità cittadina era un dato costante, e richiedeva un provvedimento che potesse aver valore indipendentemente dalla questione del Mugello. A molti anni di distanza,quando tale questione non era più che un ricordo, la legge del 6 agosto 1289 venne ripresa quasi integralmente in uno Statuto cittadino (doc. n. 10), e fu così sanzionato il suo valore generale. I compilatori di questo Statuto, elaborato negli anni 1322-1325, prestarono particolare attenzione agli enti ecclesiastici, estranei all’autorità giudiziaria e fiscale del Comune; non fu ripreso il drastico provvedimento del 3 febbraio 1290, che del resto era servito a suo tempo come semplice strumento di pressione: ma fu sancito per ogni “persona, ente o collettività non soggetta alla giurisdizione del Comune” il divieto di acquistare diritti sulle persone; ai laici si concedeva la facoltà di acquistare “da qualunque chiesa, ecclesiastico, convento di religiosi”, insieme ai beni fondiari, i diritti sulle persone, purché i compratori procedessero poi a liberarle “dal vincolo di fedeltà”.

Nella motivazione della legge si esprime anche la preoccupazione che “gli impotenti e i deboli non siano indebitamente oppressi dai magnati e dai potenti”. Questa non è una semplice clausola retorica, ma l’accenno a un’importante necessità interna delle città, che ebbe altrettanto peso, nel movimento di affrancazione dei servi, della necessità di espansione nel contado, e le cui radici vanno cercate nella struttura del ceto dirigente cittadino nella seconda metà del Duecento.

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UpUltimo aggiornamento: 17/01/05