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Discussioni

V Workshop nazionale
“Medioevo e didattica”

Brescia, Università Cattolica del Sacro Cuore
15 aprile 2005


Giuliana Albini

L’insegnamento della storia economica medievale: problemi di metodo e individuazione dei “saperi minimi”

1. Storia generale e storie settoriali tra ricerca e didattica [1]

Un dibattito ampio e, a tratti, polemico ha interessato negli ultimi decenni le questioni relative all’utilità del persistere di una storia generale o storia tout court e dei suoi rapporti con le storie settoriali.

Questo dibattito ha alle sue spalle almeno due filoni di riflessione metodologico-storiografico-epistemologica, che si sono talvolta intersecati, ma più spesso ignorati: il filone scientifico/disciplinare e il filone didattico/disciplinare.


Il primo filone attraversa, come una sorta di fil rouge, tutta la storiografia dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai nostri giorni. La “rivoluzione storiografica” che ha profondamente mutato il mestiere di storico nell’ultimo secolo, ha portato con sé, pur nella complessità delle posizioni delle diverse scuole, un tratto comune: uno sviluppo costante delle storie settoriali, cresciute a tal punto da mettere in dubbio la stessa possibilità – e necessità – di continuare a far esistere una “storia generale”. La continua specializzazione della ricerca ha tolto via via interi settori, che prima “appartenevano” alla storia, definendoli progressivamente come ambiti distinti: la storia economica, la storia religiosa, la storia delle istituzioni, la storia della cultura, la storia della scienza e della tecnica, la storia della mentalità, la demografia storia, ecc. Si chiede Paolo Prodi: In ogni caso cosa rimane della storia senza aggettivi o storia generale dopo la nascita di tante storie specializzate? È soltanto un residuo di ciò che non ha trovato una propria autonoma specializzazione? In questo caso, data l’ineluttabilità delle specializzazioni in quest’era tecnologica, sarebbe meglio abolirla: di fatto il confine tra le storie speciali e la storia generale non è facilmente definibile e varia concretamente nella ricerca stessa dello storico[2].

Sembra quasi una contraddizione dover discutere, dopo che la storiografia delle Annales ha comunque pervaso la storiografia del Novecento, della necessità di difendere la storia nella sua accezione più ampia quando sembrava che il percorso avviato, sebbene talvolta contraddittorio e non sempre lineare, dovesse portare, nelle intenzioni di Bloch, Febvre, Braudel, alla “histoire totale”, alla “histoire globale”. Le Annales della prima generazione, la rivista voluta da Bloch e da Febvre, ossia gli «Annales d’histoire économique et sociale» riprendevano il progetto dello stesso Febvre di una rivista internazionale di storia economica [3]. L’accento posto sull’economia, del resto, era funzionale alla necessità di ampliare le conoscenze storiche là dove ormai la storiografia inglese e tedesca da tempo si stavano impegnando, mentre la storiografia francese ne era ancora lontana, intrisa del modello della storia politica, nelle sue caratteristiche di storia diplomatica, di storia-racconto / storia degli avvenimenti / storia “evenemenziale”, tanto avversata da Bloch e Febvre. Eppure, il titolo della rivista, caratterizzato dagli aggettivi economico e sociale, poteva far intuire una specializzazione che essi non volevano suggerire. Tali aggettivi erano, nelle loro intenzioni, stati individuati proprio perché in grado di “abbracciare tutta la storia” [4]: Sapevamo bene che “sociale”, in particolare, è uno di quegli aggettivi che sono stati usati per molti scopi, nel corso dei tempi, tanto che, ormai, non significa quasi più niente… Ma concordavano nel pensare che appunto un termine così vago come “sociale” pareva essere stato creato e messo al mondo dalla Provvidenza storica, apposta per servire da insegna a una rivista che non voleva circondarsi di steccati… Non esiste una storia economica e sociale. Esiste la storia, la storia pura e semplice, nella sua unità. La storia che è tutta sociale, per definizione [5].

Si trattava, dunque, della ricerca di un nuovo metodo di approccio alla storia, vista come storia problematica, storia concettuale, storia globale o totale; quindi, necessariamente, storia interdisciplinare. … Storia totale – insomma – significa una storia in cui le molte dimensioni della ricerca volta al passato si congiungono nell’uomo [6].

Non si trattava di specializzazioni o di parcellizzazioni della storia, ma al contrario di una reductio ad unum, della costruzione di una “scienza dell’uomo” (Febvre). Per dirla con Bloch l’oggetto della storia è per sua natura l’uomo. O meglio: gli uomini. A una scienza del diverso si addice infatti, meglio del singolare, favorevole all’astrazione, il plurale, che è il modo grammaticale della relatività. La storia vuol cogliere gli uomini al di là delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o delle macchine, degli scritti in apparenza più freddi e delle istituzione in apparenza più completamente staccate da coloro che le hanno create. Chi non vi riesce non sarà, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là è la sua preda [7].

Il progetto era ambizioso, e, per molti aspetti, condiviso anche da coloro che non si riconobbero nella storiografia delle Annales; anzi, preparato, in alcuni suoi aspetti, da esperienze, ad esempio, della storiografia tedesca. Essa infatti recepiva un più generale clima culturale, nel quale un ampio spettro di saperi si stava dischiudendo alla ricerca storica, così come sempre più ampio era il panorama delle fonti utilizzate dagli storici. Lo storia globale necessitava, per superare i limiti angusti nei quali si vedeva costretta, ma della quale non rifiutava in toto l’eredità, di ricerche in tutti i campi delle scienze sociali. La storia, nel momento in cui voleva essere sociale, era storia economica, geografica, sociale, demografica, culturale, religiosa, politica, antropologica…

Il clima culturale diffusosi già a partire dal secondo Ottocento e in modo ancor più forte nel primo Novecento – le sollecitazioni furono molte, tra le altre lo sviluppo delle scienze sociali [8] e l’ampliamento degli interessi degli storici – portò a sua volta ad uno sviluppo sempre più ampio delle “storie speciali”, come dimostra anche l’evoluzione della scuola delle Annales, che nelle tre generazioni di storici privilegiò ambiti diversi [9], inseguendo suggestioni spesso già presenti nei fondatori della rivista, ad esempio la storia delle mentalità, dell’immaginario collettivo, della psicologia collettiva, ma introducendo via via elementi nuovi.

In tutto questo la “storia generale” continua ad esistere, senza che i suoi caratteri, le sue funzioni, i suoi limiti risultino però facilmente definibili. Prodi afferma: a noi sembra che, pur avendo perduto il suo trono di regina delle scienze della società, la storia abbia mantenuto una sua speciale funzione fondamentale.
Una funzione ineliminabile della storia senza aggettivi (o della storia generale che dir si voglia) può e deve rimanere, almeno secondo due direttrici positive, con la formazione di campi suoi propri: a) come studio del punto di intersezione delle storie particolari tra loro…dato che non esiste nella realtà l’homo oeconomicus, l’homo religiosus ecc. ma l’uomo nella sua complessità così nella vita di oggi come nella storia; b) come studio di un punto particolare di intersezione o per meglio dire di una linea di confine lungo la quale le singole storie particolari degli uomini si confrontano con il problema del potere [10].

È una delle risposte possibili, sicuramente dettata dalla convinzione che vi sia un livello nel quale si deve ricercare una giunzione, un’intersezione tra le storie settoriali. Non risulta certo ben chiaro – credo – chi e come concretamente debba svolgere il ruolo di “storico generale” o “generalista”; così come la proposta di Prodi (la storia del potere, la storia “politico-costituzionale”, la Verfassungsgeschichte, secondo la storiografia tedesca) è una delle risposte possibili, diversa dalle proposte della storia globale della “nuova storia”.


Il secondo filone prende invece l’avvio da una riflessione di più stretto interesse didattico, che ha animato negli ultimi decenni il panorama culturale italiano. La discussione, infatti, iniziata negli anni Sessanta nell’ambito di esperti di scuola e di pedagogia sulla scia dei problemi aperti dall’avvento della scuola di massa [11], entrò nel suo vivo, coinvolgendo anche il mondo degli storici, negli anni Settanta. L’avvio fu dato da un intervento di Giuseppe Ricuperati [12], che nel 1972 intervenne a proposito dell’insegnamento della storia: un saggio assai polemico, che denunciava la crisi del modello tradizionale di insegnamento della storia – e con esso dei manuali in uso – prendendo posizione per una didattica nuova, nella quale fosse centrale un approccio alla storia basato sulla “storia-ricerca”. Ricuperati sarebbe ritornato più avanti su queste affermazioni, con una sorta di valutazione autocritica, pur non rinunciando ad affermare che con il suo intervento aveva soprattutto mirato a proporre con forza la «complessità» della disciplina e delle modalità di trasmissione di tale sapere [13]. Si trattava di un percorso che aveva portato Ricuperati dal rifiuto dell’uso del manuale alla sua rivalutazione, inquadrandolo in un più ampio contesto di utilizzazione di strumenti didattici alternativi, ma sottolineandone l’importanza per l’acquisizione di «quella minima grammatica storica che permette di orientarsi e partecipare» [14]. Il percorso di Ricuperati si precisò ulteriormente con la stesura (insieme a Comba e Salvatori) di un manuale, che voleva superare i modelli esistenti, e, nel contempo, doveva costituire lo strumento necessario per far acquisire agli studenti le conoscenze necessarie per affrontare modalità di approccio alla storia più vicine alla “storia ricerca”.

Posizione assai più radicale (che ci aiuta ad avvicinarci al problema che qui si affronta) fu quella di Ivo Mattozzi [15], che contestò dalle radici il manuale, presentato come uno strumento fortemente ideologizzato, in quanto frutto di un preciso momento storico (il secondo Ottocento), di un preciso contesto sociale (la borghesia), di una precisa corrente storiografica (il positivismo) postulando la possibilità di accertare i fatti nel loro reale svolgimento e di ordinarli, attraverso un monotono ritmo narrativo, in una sequenza cronologica e contemporaneamente causale (sul modello post hoc propter hoc), metodo al quale l’analisi critica delle fonti forniva garanzia scientifica di oggettività. L’idea di una storia generale e narrativa, “coincidente con lo stesso passato nella sua totalità” ha origine dunque per Mattozzi in tale contesto ideologico e culturale storicamente determinato e ha valore solo all’interno di esso [16].

Ciò che in questa sede interessa sottolineare, nell’ampio dibattito su manuale ed uso del manuale, è che la posizione di Mattozzi, assai più di quella di Ricuperati ed altri, porta a criticare la “storia generale” di cui, in un contesto didattico, il manuale rappresenta il prodotto per eccellenza. Siamo di fronte all’affermazione della crisi della storia generale.

Mattozzi ritiene che il manuale, nonostante i tentativi di rinnovamento e adeguamento alle istanze della nuova storiografia, per le sue caratteristiche intrinseche, presenti una serie di elementi negativi ineliminabili. In primo luogo il manuale ha la pretesa di rappresentare in un continuum i fatti storici cumulativamente, ma nel frattempo li presenta come un «miscuglio di racconti settoriali separati» [17].

La riflessione potrebbe portarci molto avanti, perché il dibattito sulla storia come ricerca e sulla manualistica non si è certo chiusa negli anni Settanta. Ma ciò che interessava affermare era come un problema apparentemente lontano dagli interessi della didattica fosse in realtà ad esso strettamente legato: la questione storia generale / storie settoriali trova nel dibattito sull’insegnamento della storia come storia-ricerca e sul prodotto “manuale di storia” il nucleo attorno al quale si sono sviluppate numerose riflessioni, di storici e di esperti di didattica. Tali problemi furono sostenuti anche dalle riflessioni sulle abilità cognitive, in relazione alle modalità di acquisizione di una terminologia specifica, di elaborazione di concetti complessi, di capacità di stabilire nessi: un approccio tutt’altro che semplice per una disciplina che, spesso inserita in un contesto di “storia narrazione di eventi”, era uscita da tale schema per acquisire linguaggi complessi (delle storie speciali) che richiedono competenze diverse e articolate da parte degli allievi. L’“ubriacatura” degli anni Settanta della storia-ricerca fu contestata da molti interventi negli anni Ottanta [18] che recuperarono la storia generale, criticando l’ipotesi di lavoro di coloro che avevano recepito la diffusione della microstoria come novità che consentiva di condurre con i ragazzi un percorso che li portava direttamente dalle fonti (spesso legate alla storia locale) alla capacità di una ricostruzione della storia generale. Pare ormai didatticamente più valida la modalità attraverso la quale la ricerca viene intesa come una possibilità di integrazione e interazione tra i due livelli: quello della “storia generale” e quello della esperienza diretta su una tematica (ad esempio di storia locale).

Una serie di riflessioni, dunque, di natura cognitiva, pedagogica, storiografica, didattica, portarono alla produzione di una manualistica che recepiva le novità storiografiche, si apriva alle “storie settoriali” – spesso ritenute più appetibili per gli studenti. Tutto questo non metteva, nella maggior parte dei casi, in dubbio la necessità di acquisire, proprio attraverso lo strumento manuale, le competenze di base, senza le quali veniva a cadere anche la proposta di una storia come ricerca.

Non più quindi un rifiuto del manuale, ma una sua utilizzazione insieme a strumenti diversi; e soprattutto sì ad un manuale diverso, in quanto in grado di recepire le storie settoriali.

Tra gli esperti di didattica si fa strada anche un crescente interesse per le storie settoriali. Nel suo “decalogo” per ripensare l’insegnamento della storia, Giuseppe Deiana rifletteva sul «fascino indiscreto delle storie settoriali».

La storia della realtà non esiste se non come l’insieme di tante storie, che costituiscono una stratificazione complessa … Non una storia, dunque, se non come l’insieme di tante storie intrecciate: storia politica, storia economica, storia sociale, storia delle istituzioni, storia delle mentalità, storia ambientale (o ecostoria), storia delle donne, ecc. Anche di questo lo studente deve essere consapevole … attraverso esperienze di lettura di lavori monografici settoriali, di “storia di”: storia dell’economia, storia delle mentalità, storia delle donne, storia dell’ambiente, storia della medicina, storia della famiglia, storia della scuola, ecc. …Quello che è importante, in definitiva, è acquisire la consapevolezza della necessità di ridimensionare lo strapotere della grande storia e della storia generale … è necessario un sapiente equilibrio tra storia generale e storie speciali [19].

Va anche sottolineato che il mondo della scuola, nelle riflessioni dei docenti impegnati in un rinnovamento dell’insegnamento della storia, più o meno consapevolmente, ha accettato, tra le proposte storiografiche possibili, la storiografia delle Annales come punto di riferimento.

In un saggio dal titolo Un curricolo di storia. Esperienze di insegnamento nella scuola media, Wladiminiro Bendazzi, dopo una disanima delle proposte storiografiche più recenti, si schierava, in prospettiva didattica, decisamente a favore delle «Annales»: <La storiografia delle «Annales»> presenta molti elementi favorevoli per una traduzione didattica. Non è così politicamente determinata da generare rifiuti; non vincola ad una precisa scelta “senza ritorno”, e d’altra parte lascia intatte le possibilità di addivenire ad una tale scelta … La storiografia delle «Annales» è meno chiusa, meno vincolante, meno presupponente, più idonea di altre a considerare una molteplicità di fonti dell’azione umana… Le «Annales» ci insegnano a porre gli uomini al centro dell’attenzione, ad occuparci di tutte le realtà che li riguardano e con le quali hanno anche fare, e ad estendere la curiosità a tutti gli aspetti del sociale e a tutte le categorie sociali [20].

Sembra che queste certezze non siano sempre condivise neppure da coloro che hanno abbracciato a pieno titolo la nouvelle histoire. La parole di Le Goff in risposta alla domanda se fosse utile rendere partecipi i ragazzi delle novità storiografiche, e in particolare della “nuova storia”, sono a tale proposito significative.

L’esempio francese degli anni settanta e anche quelli di altri paesi sono tipici a riguardo, come nel Belgio, ad esempio, dove la burocrazia ministeriale, animata da buone intenzioni, ha voluto far passare senza riflettere e senza adattarli i metodi degli Annales e della “nuova storia” nei programmi della scuole secondarie e perfino in quelli delle scuole primarie, producendo effetti non di rado disastrosi. Per ricordarne alcuni, l’introduzione della nozione della molteplicità dei tempi e delle durate storiche e più particolarmente della “lunga durata” ha portato una rinuncia della cronologia che invece deve essere ripristinata, riavvicinandola ai grandi obiettivi e non accontentandosi dell’evenemenziale politico, militare, diplomatico [21].

A torto o a ragione, comunque, per molti esperti di didattica della storia la storiografia delle Annales sembra essere l’unico paradigma utile a sradicare i tradizionali schemi di insegnamento della storia generale, che viene spesso banalmente identificata con la storia degli avvenimenti di più consolidata tradizione.
In questo contesto vanno valutati, in relazione all’insegnamento della storia, almeno due momenti importanti dagli anni Novanta ad oggi, anche se più in generale si deve sottolineare come si sia trattato di un periodo nel quale, ad di là dei risultati legislativi concreti, il dibattito intorno alla storia e al suo insegnamento nelle scuole ha trovato un nuovo spazio:

  • i progetti di riforma Berlinguer – De Mauro, con le relative commissioni che operarono in quegli anni (con la realizzazione delle nuove scansioni dei programmi, in funzione dello spazio da riservare allo studio del Novecento nell’ultimo anno di ogni ciclo e della modifica dei programmi del triennio dei percorsi professionali) [22];
  • la cosiddetta riforma Moratti (Delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale), con l’emanazione, che più riguarda da vicino i nostri temi, delle Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati nella Scuola Secondaria di I grado [23].

Il dibattito in merito a quest’ultimo punto è stato assai vivace [24] e non è il caso di ritornarvi in questa sede. È però il caso di sottolineare che, pur nelle divergenze profonde che animano i diversi progetti, viene ormai dato per scontato che l’insegnamento della storia nelle scuole medie inferiori e superiori non può comunque essere identificato nella semplice trasmissione di contenuti disciplinari, riflesso di una convinzione che un cambiamento radicale ha investito il ruolo del docente che da trasmettitore di informazioni è passato ad essere facilitatore degli apprendimenti individuali, una guida capace – a partire dal suo sapere – di costruire percorsi e di sviluppare pratiche didattiche adatte ai bisogni formativi degli allievi [25].

Tra l’altro si può ricordare come nella redazione definitiva dei lavori della Commissione dei saggi (che operò tra 1997 e 1998), nei cosiddetti Contenuti essenziali per la formazione di base, relativamente alla storia si insisteva sulla necessità del superamento del modello trasmissivo e mnemonico a favore di un modello mirato allo sviluppo di competenze generali di inquadramento e di ricostruzione dei fatti storici [26].

Questa è una riflessione non lontana da alcune affermazioni delle cosiddette Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati, soprattutto nella parte che potremmo definire di più forte impianto didattico, che si dimostra attenta (anche nello spazio lasciato a tali aspetti) a sollecitare lo sviluppo di abilità e di competenze, che ben si inquadrano nelle convinzioni più prettamente didattico/pedagogiche dell’insegnamento della storia [27]. La riforma Moratti, in verità, si allontana dalle ipotesi Berlinguer, ad esempio ridimensionando l’attenzione per la storia del Novecento. D’altro canto, però, i cosiddetti obiettivi specifici di apprendimento della scuola secondaria inferiore nelle “Indicazioni” recitano, sia per il primo biennio, sia per la terza classe, la necessità di affrontare una serie di temi «in relazione al contesto fisico, sociale, economico, tecnologico, culturale e religioso»: espressione che lascia spazio ad impostazioni storiografiche diverse, ma che tende comunque a sottolineare le complessità dei processi storici [28].

Oggetto di continue riflessioni, il complesso rapporto tra ricerca e insegnamento, tra storiografia e didattica, ha trovato negli ultimi anni nuove occasioni di confronto, come in occasione del convegno internazionale dell’ottobre 2004, a Bologna, su Storiografia e insegnamento della storia: è possibile una nuova alleanza? [29]. Una riflessione di fondo interessante si snoda proprio intorno ai temi sui quali si sta riflettendo. Una sorta di distanza sembra esistere tra la storiografia scolastica, che continua a perpetuare il modello della storia generale, di impianto cronologico-narrativo, e la storiografia, che ha introdotto novità interpretative ampie. Si potrebbe ad esempio sottolineare che ormai sono stati sperimentati generi e modelli di testi storici non più legati alla linearità cronologica; ovvero che le spiegazioni di eventi storici sono date da fattori molteplici e non da un semplice rapporto di causa-effetto; ovvero che esistono diversi modi di lettura della storia del passato (e non un unico modo di interpretare).  

2. Il medioevo: storia generale e storia economica

Tra le storie “speciali” (o settoriali) la storia economica può sicuramente vantare una tradizione antica: da Quesnay a Smith, da Knies a Marx, da Weber e Sombart a Georg von Below una tradizione ininterrotta ha portato, tra Otto e Novecento, ad un’ulteriore crescita di interesse per la storia economica sia come oggetto di ricerca, sia come ricerca di nuove metodologie [30].

Il periodo compreso tra fine Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento è caratterizzato dall’aumento di importanza della storia economico-sociale che, talvolta giunge a “detronizzare la storia politica e la storia culturale” [31]. La fondazione di riviste specialistiche – la «Economic History Review» (Cambridge 1927) e la «Rivista di storia economica», fondata nel 1936 da Luigi Einaudi – veniva a coincidere con gli anni della nascita e dello sviluppo delle «Annales d’histoire économique et sociale» (1929) [32].

Ma anche se molti sono i cultori della storia economica, un po’in tutta Europa, la tradizione della storia politica o culturale continua ad avere la prevalenza. Solo dopo la seconda guerra mondiale la storia economico-sociale diventa «la disciplina reggente del sapere storico nel suo insieme»[33].

I temi di cui si discute sono le grandi trasformazioni dell’economia (dall’antichità al medioevo all’età contemporanea), delle crisi (Trecento e Seicento), la storia delle campagne, la demografia, la storia dei prezzi: il quantitativo dilaga, ed è applicato non solo all’economia, ma anche ai fenomeni politici e culturali.

Il processo di diffusione di un approccio economico-sociale alla storia va di pari passo con la necessaria definizione di rapporti con le scienze sociali (e in particolare con l’economia). L’importanza via via assunta dall’economia porta ad un necessario confronto con il marxismo, che aveva sottolineato in modo molto forte l’importanza dei fattori economici nello sviluppo della storia dell’umanità. In tale prospettiva si deve collocare il vivace dibattito che ha animato il rapporto tra marxismo e “nuova storia”.

Naturalmente queste due correnti non possono ignorarsi a vicenda. Alimentate l’una e l’altra dalla stessa ripulsa di una pratica storica desueta, esse scorrono parallele, talvolta mescolano le acque, ma spesso rivaleggiano e diffidano l’una dall’altra [34].

Rispetto agli aspetti più strettamente economici, le Annales finiscono per accusare la storiografia marxista di eccessivo determinismo [35], senza negare i propri debiti nei confronti di tale corrente di pensiero.

In Italia come altrove le ricerche di storia economica cominciano a diventare elemento indispensabile della conoscenza della storia di una società. Gabriella Airaldi, nel 1986, sottolineava la continua crescita della storia economica – entrata come insegnamento anche nella Facoltà di Lettere e Filosofia – riprendendo l’intervento di De Rosa, Vent’anni di storiografia economica italiana 1945-1965: Direi anzi che, se una differenza macroscopica è da rilevare tra l’inizio e la fine del periodo al quale ci riferiamo, questa è appunto rappresentata dalla accettazione da parte della storiografia generale, sia pure con qualche ancora isolata ma vivace riserva, dell’importanza fondamentale dell’indagine storico-economica. Oserei anche aggiungere … che alcuni dei migliori contributi storico-generali devono in gran parte la maggiore acutezza e corposità della loro indagine al fatto di non aver trascurato gli aspetti storico-economici del problema. La storia economica, considerata tutt’al più e dai benevoli ancilla historiae, è ora entrata per la porta principale nel Regno di Clio [36].

Ma le riflessioni di Gabriella Airaldi andavano oltre, nel tentativo di trovare una dignità, un proprio spazio alla storia economica, troppo spesso non considerata da un lato come degna di appartenere alla storia, dall’altro di appartenere all’economia. Una dignità era ancor più difficile da ottenere per gli studi sull’età medievale, dal momento che si aggiunge anche la difficoltà di affrontare da un’angolazione quantitativa la storia economica, in relazione alla mancanza di fonti specifiche.

Da qui nasce la necessità di una riflessione sulla storia economica medievale, che ha visto impegnati negli ultimi decenni gli storici delle nuove generazioni, in un costruttivo lavoro di analisi e di tentativi di sintesi di aspetti specifici dell’evoluzione della società medievale (dalla storia agraria, alla demografia, dal commercio alla protoindustria, dall’uso del denaro ai problemi del prestito, ecc.). Si tratta, infatti, di non farsi condizionare necessariamente dall’impianto di indagini e dai modelli di sviluppo della società moderna e contemporanea, ma di indagare i caratteri propri dell’economia medievale.

In tale prospettiva risultano illuminanti le parole di Georges Duby, al quale non si può certo negare un profondo interesse per la storia economico-sociale, soprattutto nei suoi primi lavori [37]. Ma proprio Duby, nel suo libro Il sogno della storia, così argomentava: Ritengo soprattutto che lo storico di queste epoche debba avere molta cura nel delimitare il campo dell’economia in funzione non delle proprie abitudini di pensiero, ma delle concezioni, del sistema di valori e delle rappresentazioni che si imponevano alle persone del tempo. Chiedersi ad esempio quale fosse la nozione di proprietà. È questo che mi sembra essenziale; non trasferire tale e quale un sistema esplicativo (il marxismo o qualsiasi altra forma di quella che una volta veniva chiamata economia politica) e tutto il vocabolario che essa impiega, elaborato nel secolo XIX, in base ad un suo modo di concepire ed esprimere le cose, che è quello del secolo XIX, in un universo mentale del tutto differente. Evitare l’anacronismo dell’interpretazione che è, beninteso, la cosa più grave. Si vede per esempio, che la nozione di proprietà si dissolve in quella di solidarietà, che il campo dell’economia è invaso dall’immateriale, dalla religione. Così, i doveri che si hanno verso i morti hanno conseguenze economiche, come diciamo noi, considerevoli. In ciò che noi chiamiamo economia, il movimento che più si manifesta alla fine del X o nell’XI secolo è un trasferimento di ricchezza il cui motore è religioso, è provocato da pie donazioni, dalle offerte fatte per la salvezza delle anime dei vivi e soprattutto di morti. Come introdurre, senza renderli più sottili, e direi senza modificarli completamente, nel tessuto della società feudale i nostri concetti di produzione, di vendita, di profitto, di consumo? Da qua l’importanza fondamentale dello studio di quanto viene chiamato, con un’espressione infelice, le “mentalità”[38].

Proprio nel fare il punto sulla storia economica medievale negli anni Ottanta, la Airaldi sottolineava come molte nuove ricerche avessero aperto conoscenze in settori prima ignoti (storia del commercio, della banca, storia agraria, ecc.), ma come sostanzialmente non si fosse ancora fatta chiarezza su una questione di fondo: ossia sulla sua identità, sulla legittimità di parlare di una «storia economica medievale»[39].

Passi avanti si sono certamente compiuti, ma rimane la specificità di una società che, se condivide alcuni caratteri con quelli dei secoli successivi, ne presenta di propri, non assimilabili a quelli di altri contesti (e spesso ancora da individuare).

3. Storia generale e storia economica nei manuali sull’età medievale

Come già detto, uno dei problemi di fondo, sottolineato già dagli anni Settanta, dell’insegnamento della storia riguarda la struttura e la funzione del manuale, il testo che, contestato, rivisto, modificato, ormai di seconda, di terza generazione, rimane nella maggior parte della formazione dei ragazzi l’unico testo di storia conosciuto.

Se l’analisi dei manuali richiederebbe ben altro spazio, non è però forse fuori di luogo ricordare che così come oggi, pur con la sua evoluzione, noi lo conosciamo, affonda le sue radici nella seconda metà dell’Ottocento.

Un’archeologia del manuale porterebbe alla luce due strati – ideologico il primo, epistemologico l’altro – risalenti alla seconda metà dell’Ottocento: da una parte l’uso del passato ai fini di glorificazione dell’unità nazionale e dello stato e di legittimazione del dominio della borghesia; dall’altro la storia positivista [40].

A questa immagine del passato, argomenta Mattozzi, ideologicamente funzionale ai gruppi dominanti, la storiografia positivista forniva gli strumenti di elaborazione concettuale ed un corpo sistematico di regole metodologiche, postulando la possibilità di accertare i fatti nel loro reale svolgimento e di ordinarli, attraverso un monotono ritmo narrativo, in una sequenza cronologica e contemporaneamente causale (sul modello post hoc propter hoc), metodo al quale l’analisi critica delle fonti forniva garanzia scientifica di oggettività.

L’idea di una storia generale e narrativa, “coincidente con lo stesso passato nella sua totalità” ha origine dunque per Mattozzi in tale contesto ideologico e culturale storicamente determinato e ha valore solo all’interno di esso [41]. Perché questo riferimento ad un passato così lontano? Perché nell’impostazione di fondo della manualistica molto poco è cambiato: l’impianto è sicuramente cronologico-narrativo, sorretto dall’evoluzione della storia politico-istituzionale. Nonostante questo, negli ultimi decenni i manuali si sono trasformati. Anzitutto i manuali – e mi riferisco soprattutto a quelli delle scuole secondarie – si sono ampliati, a dismisura: e vorrei indicare almeno due motivi che hanno agito in tale direzione.

Il primo motivo è sicuramente, dunque, di ordine storiografico: recependo i nuovi ampliamenti della disciplina, i manuali ne sono usciti arricchiti, ma spesso senza la capacità e la consapevolezza da parte degli autori di comprendere che, in un dato livello scolastico o universitario, non è possibile aggiungere conoscenze, senza selezionare.

Già molto prima della riforma Berlinguer dei programmi di storia (1997), quella che ha dato più spazio allo studio del Novecento, la storia-disciplina aveva subito un grande, contraddittorio processo di trasformazione. La progressiva specializzazione degli studi, la nascita di nuove tematizzazioni, l’esplosione, in una parola, della storiografia tardonovecentesca, avevano già provocato la crescita abnorme dei programmi ministeriali e dei libri di testo di storia. Negli uni e negli altri la disciplina si è gonfiata fino all’inverosimile e, senza rinunce alle tradizionali scansioni politico-istituzionali, ha accolto nel suo seno, sull’abbrivo delle feroci critiche al manuale degli anni ’70, la storia economica e sociale, l’antropologia, la sociologia, la cultura materiale, la storia della mentalità e dell’immaginario, la microstoria, la storia di genere, persino la storia della storiografia, nella forma di antologie storiografiche [42].

Il secondo motivo è di ordine didattico, dal momento che i manuali recepiscono le riflessioni – peraltro fatte proprie anche dalle indicazioni ministeriali – di una disciplina storica che sia significativamente attenta anche agli aspetti più prettamente storiografici e alla presentazione delle fonti: ossia i manuali devono fornire la strumentazione utile all’insegnante non solo in funzione di una trasmissione di nozioni, ma di una didattica laboratoriale. Ecco dunque che il manuale si arricchisce, talvolta anche a dismisura, di testi che si aggiungono al testo di base: apparati iconografici, fonti, brani storiografici, esercizi, ecc.

Se dunque il manuale rimane come impianto “quello che era” per altri aspetti diventa strumento totalmente nuovo e innovativo.

Parallelamente nella manualistica universitaria si avvertono mutamenti e contraddizioni, anche se non si è ancora arrivati ad individuare quali potrebbero essere nuovi strumenti adeguati per l’insegnamento, ad ogni livello. L’intervento volutamente provocatorio di Corrao dal titolo Il manuale è finito, viva il manuale! Considerazioni sulla manualistica a proposito di M. Montanari, Storia Medievale [43] ha messo a fuoco una serie di problemi, che rimangono tuttora irrisolti. Il punto d’avvio era un manuale [44] destinato agli studenti universitari del triennio, del quale viene dato del resto un giudizio positivo, pur nella sottolineatura dell’impianto tradizionale: adotta la scelta di mantenere la tradizionale struttura cronologica e tematica – arricchita da significativi riferimenti al dibattito storiografico – procedendo ad una operazione di sintesi quantitativa, in molti casi ben riuscita, senza alterare lo schema consolidato della manualistica, con le sue sottolineature tematiche della prospettiva italiana e il suo forte radicamento negli orientamenti propri della medievistica del nostro paese a partire dal suo consolidamento accademico [45].

Proprio sulla manualistica universitaria paiono essersi concentrati gli interessi prevalenti della produzione e della riflessione critica medievistica in campo didattico. Accanto alle riflessioni di Corrao sul testo di Massimo Montanari si possono ricordare le riflessione di Andrea Zorzi in merito al testo di Gabriella Piccinni.

Negli ultimi anni si assiste a una vera e propria proliferazione editoriale della manualistica di livello universitario, anche in ambito storico, e medievistico in particolare. Anticipando le profonde riforme dei percorsi didattici che, in un quadro non sempre chiaro e privo di incertezze, attendono ancora la loro attuazione, la pubblicazione sempre più intensa di guide, manuali, sintesi introduttive, antologie di fonti, è un segnale del crescente disagio in cui versa la didattica universitaria italiana, e di quella delle discipline umanistiche in particolare, stretta, come appare, tra la crisi scolastica della formazione secondaria superiore e le esigenze di periodico aggiornamento degli strumenti di base alle più recenti acquisizioni della ricerca…
I mille anni del Medioevo di Gabriella Piccinni è dunque una sintesi che ha il pregio della non neutralità interpretativa, esplicita nelle scelte e sicura nell’esposizione. Vi traspaiono gli interessi storiografici dell’A. per la storia demografica, economica e sociale, per quella delle campagne e delle città, per gli aspetti materiali della vita quotidiana, e per la storia della mentalità e delle donne …La materia, come si è cercato di illustrare, è organizzata con sistematicità e coerenza cronologica, la sua presentazione segue un’impostazione problematica [46].

Possiamo anche ricordare le riflessioni di Isabella Lazzarini su un volume che propriamente manuale non è ma che, giustamente, viene ricondotto alla manualistica universitaria sul medioevo proprio perché sempre più frequentemente la strategia editoriale prevede, accanto alla pubblicazione di manuali di base, quella di una guida di introduzione allo studio dei diversi periodi storici. Anche questa nuova tendenza deve portare a riflettere, soprattutto se, come ritiene la Lazzarini, la creazione di questi strumenti tende a sopperire ad una “riduzione” di quanto proposto dal manuale tout court, tenendo conto delle mutate condizioni culturali e della ricerca.

Questi tre diversi livelli – la pratica di una didattica di base che deve tener conto delle mutate competenze e delle diverse aspettative degli studenti, il modello di una didattica “alta” elaborata dagli storici, la proposta didattica delle case editrici – si intersecano in vario modo nella produzione manualistica corrente, generando prodotti di valore diverso e di diversi obiettivi: i risultati di questa operazione e la loro ricaduta sullo studio della storia medievale in Italia meriterebbero un’indagine più approfondita [47].

Indubbiamente, dunque, un problema a livello di produzione di manuali esiste: e meriterebbe qualche studio più ampio soprattutto sui manuali di scuola secondaria inferiore e superiore.

In relazione alla storia economica, ciò che risulta più evidente nello sfogliare – non parlo di analisi sistematiche – i manuali in uso è la asistematicità della trattazione degli aspetti economici (aggiungerei demografici e sociali). I manuali continuano ad avere come filo conduttore la storia politica, alla quale si sono aggiunti altri saperi, suggeriti dalla condivisione di un’idea di “storia totale”, nella quale tutti gli aspetti della società – e quindi anche l’economia – devono avere uno spazio. Ma gli aspetti più propriamente economici appaiono frammentariamente, solo laddove sembrano costituire un elemento necessario: in tutti i manuali si parlerà della cosiddetta “ruralizzazione” dell’economia tra tarda antichità e alto medioevo, in tutti i manuali si tratterà del sistema curtense (spesso trattandone sulla base di luoghi comuni) [48]. Al contrario quella che appare la “normalità” non viene trattata: ad esempio non si troveranno riferimenti all’economia delle campagne nel XII secolo e XIII secolo, perché per questo periodo l’attenzione si concentra in modo privilegiato sull’economia cittadina e/o sullo sviluppo del commercio.

Altra impressione che si ricava è una sorta di “imbarazzo metodologico” a rapportare il livello dello sviluppo economico allo sviluppo sociale, politico, ecc. Infatti da un lato sembra di percepire un nesso di causa/effetto tra sviluppo economico e mutamenti della società nel suo complesso, come se fosse l’economia il motore di ogni cambiamento. D’altro canto, il filo rosso della storia politica spezza di fatto questa lettura interpretativa: spesso è dai mutamenti politici che si fanno derivare direttamente le grande svolte della storia di una società, anche delle trasformazioni economiche e sociali. Certamente non si può chiedere a manuali di scuole medie inferiori e superiori di risolvere problemi di metodo di ampia portata: ma ancora una volta ne deriva una grande confusione e incertezza. È così che il feudalesimo si confonde con il sistema curtense; è così che lo sviluppo delle istituzioni comunali viene direttamente ricollegato (in rapporto di causa/effetto) allo sviluppo del commercio, e via dicendo …

L’impressione complessiva è che molta strada vi sia ancora da fare, per dare alla produzione manualistica una solidità disciplinare ed una leggibilità e comprensibilità consone ai diversi livelli di studi superiori e universitari.

Anche se con un breve accenno, vorrei sottolineare come negli ultimi anni, con la nascita delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore (SSIS) [49], il dibattito si sia fatto molto più ampio, dal momento in cui l’università ha concretamente ripreso il contatto (e il confronto) con il mondo della scuola [50].

3. È possibile definire i “saperi minimi” della storia economica medievale?

Tutte le osservazioni fatte sopra vogliono suggerire la difficoltà di chi si accinga a riflettere sui cosiddetti “saperi minimi” della storia economica medievale e, soprattutto, vogliono evidenziare come non sia possibile affrontare una riflessione di natura didattica [51] senza tenere ben presenti tutte le implicazioni proprie dello sviluppo della disciplina [52].

Anzitutto perché vi è una difficoltà nel definire cosa si debba intendere per “sapere minimo” in ambito storico. Penso al Documento dei saggi (1997), elaborato dalla commissione voluta dal ministro Berlinguer, e a I contenuti essenziali per la formazione di base (1998), che avevano aperto un ampio e vivace dibattito sulla creazione di un ambito disciplinare storico-geografico-sociale, del curricolo verticale di storia, culminato nel febbraio 2002 con la presa di posizione di un gruppo di storici (il “Manifesto dei trentatré”) [53]. Anni fecondi di discussioni [54] e prese di posizioni assai diverse [55], sino alle novità introdotte dalla riforma Moratti [56] e dalle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati, fortemente criticati in prospettive diverse [57]. L’uso della storia, la funzione della storia nella scuola e nella società, la didattica della storia, non appaiono più temi marginali dei quali lo storico non ha il compito di occuparsi [58].

Non volendomi del tutto sottrarre ad un compito che mi appare sempre più complesso e di non semplice soluzione, credo che questo intervento si debba chiudere con molte domande e poche certezze. Per l’insegnamento della storia, al pari e più di altre discipline, risulta assai difficile operare una selezione [59], anche se ormai da tutti essa è ritenuta necessaria. Non sempre ne sono chiari i criteri, nel momento in cui la disciplina è progressivamente cresciuta, nei suoi saperi, anche grazie all’apporto di altre discipline (e tra di esse la storia economica [60]); d’altro canto anche il dibattito sulla didattica della storia ha trovato nuovi spazi.

L’individuazione dei “saperi minimi” non è quindi solo un’operazione di definizione dei livelli diversi di conoscenza nei diversi gradi del curriculum, ossia non si tratta di elaborare, partendo da una conoscenza elementare, quali temi debbano via via essere aggiunti e quali approfondimenti devono essere individuati. Di fatto, ciò presuppone anche l’acquisizione di un metodo, che avvicini sempre più lo studente alla metodologia della ricerca, all’acquisizione di conoscenze e abilità in merito alla storiografia e alle fonti storiche. I “saperi minimi”, dunque, non possono essere semplicemente definiti come nozioni di base – fatti, avvenimenti, problemi – consone ad un certo grado di scuola (scuola primaria; scuola secondaria inferiore; scuola secondaria superiore; laurea di primo livello; laurea di secondo livello; scuola di specializzazione per l’insegnamento). Ad essi si deve coniugare l’acquisizione di conoscenze e competenze in progressione [61].

Talvolta costruiti più sulla base delle conoscenze degli autori che in funzione del grado di scuola al quale sono destinati, i manuali presentano comuni elementi negativi: un eccesso di semplificazione, che spesso è solo eccesso di sinteticità, che non rinuncia ad esprimere concetti complessi; un lessico poco preciso, con l’uso di termini il cui significato talvolta sfugge agli stessi autori, che non lo padroneggiano con sufficiente abilità; una mancanza di chiarezza nella spiegazione di fenomeni complessi, con evidenti salti logici nella trattazione dei problemi; ecc.

Tutte queste osservazioni portano dunque alla consapevolezza che non vi è una semplice soluzione al tema proposto; questo intervento si vuole proporre come apertura di un dibattito.

A quanto detto aggiungiamo che qui si dà per scontato il problema della periodizzazione, accettando come limiti cronologici il cosiddetto medioevo. Si tratta, ovviamente, non di mancanza di consapevolezza di quanto complesso sia il problema di definizione di “età della storia” [62]; né significa d’altro canto non essere consapevoli che, nel momento in cui ci si pone dal punto di vista della storia economica, la periodizzazione presenta ancor di più i suoi limiti. Richiamo soltanto, nella complessa querelle sul problema, tutte le discussioni – ormai datate – sul passaggio dal feudalesimo al capitalismo [63], l’importanza assunta dalla cosiddetta “crisi del Trecento” come momento di cesura [64], e ancora le proposte di periodizzazioni diverse, come quella di individuare un’età che, sulla base delle strutture economiche, può essere definita preindustriale[65].

Propongo dunque un’ipotesi di livelli di conoscenze minime che dovrebbero essere possedute alla fine del ciclo delle scuole secondarie superiori. Della cosiddetta “grammatica di base” delle conoscenze storiche, dovrebbero far parte conoscenze e modalità di approccio critico, non solo nozioni di avvenimenti e di fatti politici, ma anche conoscenze sulle strutture economiche della società medievale.

Una conoscenza di lungo periodo, sistematica e non frammentaria delle strutture economiche

Una periodizzazione potrebbe suddividere il medioevo in quattro “macroperiodi” (tardo antico, alto medioevo, pieno medioevo, tardo medioevo), in base ai quali dovrebbero essere date indicazioni sintetiche ma complete sui seguenti aspetti:

  • rapporto uomo/ambiente
  • trends demografici
  • strutture produttive (agricoltura e allevamento, artigianato e/o industria, commercio)
  • uso del denaro e del sistema creditizio
  • distribuzione della ricchezza tra gruppi sociali
  • modalità di organizzazione del lavoro (schiavitù, servitù, salariato, corporazioni, ecc.)
  • conoscenze tecniche e loro diffusione nel mondo della produzione.

Tale trattazione di lungo periodo dovrebbe essere costruita in modo tale da aiutare ad acquisire la capacità di:

  • riflettere sui tempi della storia[66]
  • affrontare in modo problematico la periodizzazione [67]
  • individuare le fluttuazioni, i trends, i cicli [68]
  • evitare una lettura schematica e deterministica dei processi economici
Una conoscenza delle specificità dell’economia medievale, con l’individuazione di alcuni nodi tematici caratterizzanti il medioevo

I temi qui indicati non sono che esemplificazioni di argomenti che si potrebbero trattare, tenendo presente che dovrebbero essere ampi e fondanti rispetto ad un dato contesto economico:

  • processo di ruralizzazione nel tardo antico
  • la curtis
  • l’economia delle campagne
  • l’economia cittadina
  • la “rivoluzione commerciale”
  • le corporazioni
  • schiavitù e servitù
  • la “protoindustria”
  • il tempo e lo spazio
  • l’etica economica medievale
Proposte di lettura di testi storiografici e/o di fonti

Le proposte dovrebbero essere particolarmente significative e pregnanti al fine di introdurre in modo adeguato lo studente a tematiche specifiche.

  • Un brano di Vito Fumagalli [69] potrebbe aiutare a comprendere come la proprietà della terra e il suo sfruttamento acquisiscano significati diversi rispetto agli attuali se il contesto del rapporto uomo/natura [70] è totalmente diverso: La stessa mancanza di una concezione e pratica di piena proprietà delle terre incolte rappresentava, nell’accavallarsi dei diritti e nella difficoltà di chiaramente definirli, un fattore di grande confusione, anche se proprio la mentalità dell’uso comune di boschi e paludi propiziava l’abitudine a non delimitare con rigore le competenze. La sostanziale comproprietà delle aree non coltivate, sulle quali, con sfumature e gradazioni, un po’ tutti avevano diritti, si trattasse anche di boschi, brughiere e paludi di appartenenza privata, non ne permetteva la recinzione, perché fosse libero attraverso di essi il transito di uomini, carri e animali. Ma bastava l’impennata impulsiva del proprietario di rango più elevato o l’esigenza di definire i reciproci obblighi e doveri in particolari circostanze o lo scoppio di faide familiari o la diffidenza di colui che deteneva la somma più elevata di diritti d’uso, che la lite divampava colorita ed esasperata dalla tensione di caratteri impulsivi e violenti. Allora proprio l’intreccio complicato di diritti e doveri dava facile adito a mille contestazioni, allineandosi, nell’ingarbugliare la matassa, al rudimentale sistema di confinazione.
    A mano a mano che da un tipo di organizzazione tribale la popolazione di origine longobarda, o comunque barbarica, anche per influenza dei conviventi romani, passava a forme più ristrette di coesione parentale, allora il senso della piena proprietà, della proprietà privata, cozzava sempre più violentemente, con il passare del tempo, contro la forma del possesso comune degli spazi incolti [71].
  • Un brano di Georges Duby potrebbe essere particolarmente significativo della necessità di definire meglio alcuni parametri di riferimento, inserendo concetti, quali ad esempio il dono, che oggi non appartengono allo studio della storia economica in senso stretto: Leggendo gli etnologi, e più particolarmente gli africanisti – Meillassoux, Augé o Althabe – fui, ancora una volta, meno sensibile alle proposte teoriche che alla descrizione dei fatti, all’analisi di quei casi particolari che pongono in evidenza rapporti inosservati, a molte notazioni concrete che attinsi dai loro lavori e che, mostrandomi l’interesse di utilizzare concetti che non ero solito maneggiare, come quelli di reciprocità e di ridistribuzione, mi costrinsero a considerare in un’ottica completamente diversa la società feudale, a riconoscere segnatamente che l’economia non vi occupava il campo e non vi rivestiva il ruolo che io le attribuivo sulla scia di Pirenne e anche di Marc Bloch. Ciò che scrissi di più nuovo in Guerriers et paysans oltre al riferimento alla storia del clima di cui Emmanuel Le Roy Ladurie era allora in Francia il promotore, deriva da tali letture. Mauss, Polanyi, Veblen m’insegnavano a concedere un largo spazio alla gratuità nei circuiti di scambi. Scoprii così la funzione eminente che aveva assunto nell’XI e XII secolo in seno a comunità di cui credevo di conoscere bene il comportamento, la larghezza, cioè l’obbligo e il piacere di dare a piene mani, quella cui avevano ottemperato il gioco, la festa, il dovere di distruggere, di sacrificare solennemente, di quando in quando, delle ricchezze. Mi vedevo costretto ad annoverare tra i consumatori e i distributori personaggi che avevo omesso di prendere in considerazione, invisibili ma numerosi, esigenti, generosi talvolta, vendicativi: i santi protettori e i morti. Dovetti arrendermi all’evidenza: per gli uomini che, ai tempi delle crociate, coltivavano la terra europea, proprio come per gli agricoltori del Mali o del Madagascr di oggi, il rendimento della semina dipendeva sia dalla pace e dai favori del cielo sia dalla qualità del grano o dal lavoro dei buoi da aratura. Si preoccupavano dunque di ottenere tale pace, tali favori. Era perciò che portavano, senza recalcitrare come fino ad allora ero stato propenso a supporre, verso il monastero, fonte di grazie, o verso il castello, garante dell’ordine pubblico e della giustizia, una porzione importante del prodotto della loro fatica. Non dovevo dunque considerare più quei canoni come “un affitto della terra”, come un elemento della “rendita fondiaria”. Essi rappresentavano una ricompensa per una grazia ricevuta o da ricevere, costituivano effettivamente per i contadini che li versavano e per il signore che li riceveva, “regali”, come del resto li designava il latino degli inventari. Regali simbolici, dato che i gesti che li facevano passare da una mano a un’altra contavano molto di più del loro valore reale. Tale scoperta m’imponeva ovviamente di rettificare giudizi che credevo indubitabili quanto agli effetti supposti sui rapporti sociali di fenomeni quali, per esempio, il deprezzamento delle specie monetarie del XII secolo[72].
  • O ancora, a segnare la specificità di un millennio proprio nell’ambito dell’economia, e più in particolare del pensiero economico medievale, un recente saggio di Giacomo Todeschini: Bisogna subito capire che, nel lungo tratto di secoli che costituì il Medioevo, la riflessione sull’economia cominciò dall’interno più profondo del pensiero religioso, o, per meglio dire, teologico. Con questo si intende dire che, fin dall’epoca patristica, dunque a partire dal IV secolo, le riflessioni prodotte dal mondo cristiano sull’economia sono da rintracciare non in trattati di scienza economica, inesistenti e anacronistici, ma in scritti conciliari, in commenti alle Sacre Scritture e – generalmente – in riflessioni sulla morale sociale. Questo aspetto formale, ma, come si vedrà, sostanziale, comincerà a cambiare dal XIII secolo, quando – accanto alle tipologie suddette – cominceranno ad apparire scritti direttamente dedicati all’organizzazione del mercato cittadino. Ma anche in quest’ultimo caso non bisogna perdere di vista il fatto che queste trattazioni hanno comunque la loro radice più profonda nelle elaborazioni teologiche e morali, tardoantiche e altomedievali, che avevano introdotto, in Occidente, la riflessione economica come sezioni specializzata del pensiero religioso[73].

E non sono che alcuni degli esempi possibili, con un comune denominatore: far comprendere agli studenti come nei meccanismi che regolano la vita economica entrino componenti non deterministiche e meccanicistiche, ma scelte e valori di riferimento che costruiscono il substrato su cui si inserisce un determinato tipo di economia.

[1] Nell’ampio dibattito in merito basti per ora citare P. Bevilacqua, Sull’utilità della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Roma 1977.

[2] P. Prodi, La storia moderna, Bologna 2005 (estratto da Id., Introduzione allo studio della storia moderna, Bologna 1999), p. 26.

[3] J. Le Goff, La nuova storia, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano 1980, p. 14.

[4] Op. cit., p. 12.

[5] L. Febvre, Vivere la storia, in F. Braudel, Problemi di metodo storico, Torino 1976, p. 141.

[6] S. Pizzetti, Per una storia della storiografia del Novecento, in La storia nella scuola. Ricerca storica ed esperienze didattiche, a cura di S. Carmo (presentazione di G. Vitolo), Genova-Milano 2002, p. 168.

[7] M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino 1969, p. 41.

[8] Cfr. G. Lefevbre, La storiografia moderna, Milano 1973, capitoli dedicati alla storiografia ottocentesca.

[9] Cfr. P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle “Annales”, 1929-1989, Roma-Bari 1993.

[10] Prodi, La storia moderna cit., p. 25.

[11] E. Lastrucci, La formazione del pensiero storico, Torino 2000, in particolare Fra tradizionalismo e rinnovamento: il dibattito sulla storia insegnata e la sperimentazione didattica in Italia dagli anni Sessanta ad oggi, alle pp. 237-242.

[12] G. Ricuperati, Tra didattica e politica: appunti sull’insegnamento della storia, in «Rivista di storia contemporanea», 4 (1972), pp. 496-516. Il volume dello stesso autore, Clio e il centauro Chirone, Milano 1989 raccoglie altri interventi in materia tra gli anni 1978 e 1987.

[13] G. Ricuperati, Storiografia e insegnamento della storia, in «Passato e presente», 2 (1982), poi in Id., Clio e il centauro Chirone cit., p. 43.

[14] Editoria e insegnamento della storia, in «Italia contemporanea», 128 (1977), p. 78.

[15] I. Mattozzi, Contro il manuale per la storia come ricerca. L’insegnamento della storia nella scuola secondaria, in «Italia contemporanea», fasc. 131 (1978), pp. 63-79.

[16] Lastrucci, Fra tradizionalismo e rinnovamento cit., p. 251.

[17] Op. cit., p. 253.

[18] Op. cit., pp. 279 sgg.

[19] G. Deiana, Il paradigma e il “decalogo”. Nodi e indicatori del nuovo paradigma didattico: undici tesi per ripensare l’insegnamento della storia, in Id., Io penso che la storia ti piace. Proposte per la didattica della storia nella scuola che si rinnova, n.e., Milano 1997, p. 39.

[20] W. Bendazzi, Un curricolo di storia: Esperienza d’insegnamento nella Scuola Media, Milano 1982, pp. 40-41.

[21] J. Le Goff, Ricerca e insegnamento della storia, a cura di A. Santoni Rugiu, Firenze 1991, pp. 19-21.

[22] D.M. 4 novembre 1996, «Nuove suddivisioni cronologiche dei programmi di storia» e D.M. 31 gennaio 1997, con i «Programmi di storia per il triennio di qualifica professionale»: cfr. B. De Gerloni, Tra passato e presente: tradizione e innovazione nell’insegnamento della storia, in La storia fra ricerca e didattica, a cura di B. De Gerloni, IPRASE Trentino, Milano 2003, pp. 57 sgg.

[23] Legge 28 marzo 2003 n. 53 e successivo D.L. 19 febbraio 2004, n. 59.

[24] Ricordo l’intervento, anche se più interessato alla riforma dell’Università, di G.Vitolo, Una riforma da riformare o da migliorare, in «Reti Medievali», 3 (2002), 1 (gennaio-giugno), ‹../rivista/forum/Vitolo.htm›.

[25] S. A. Bianchi, Insegnare a imparare la storia nella scuola secondaria di primo grado. Proposte per un “insegnante allenatore, Bologna 2005, p. 46.

[26] De Gerloni, Tra passato e presente cit., p. 65.

[27] Op. cit., pp. 104 sgg.

[28] D.L. 19 febbraio 2004, n. 59, Allegato C.

[29] Il convegno è stato organizzato dal Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università degli Studi di Bologna.

[30] G. Lefebvre, La storiografia moderna, Milano 1973, in particolare il capitolo XVII, «La storia economica», alle pp. 296-305.

[31] K. Pomian, Che cos’è la storia, Milano 2001, p. 251.

[32] Pizzetti, Per una storia della storiografia del Novecento cit., p. 164.

[33] Pomian, Che cos’è la storia cit., p. 252.

[34] G. Bois, Marxismo e nuova storia, in La nuova storia cit., p. 257.

[35] Le Goff, La nuova storia cit., p. 40: «il grossolano primato assegnato all’economia nella spiegazione storica… la credenza nella storia lineare svolgentesi secondo un unico modello evolutivo».

[36] G. Airaldi, La storia economica del mondo medievale, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni. I. Antichità e medioevo, Atti del convegno della Società degli Storici Italiani (Arezzo, 2-6 giugno 1986), a cura di L. De Rosa, Bari 1989, pp. 355-361; il brano di De Rosa è citato a p. 358.

[37] G. Duby, L’economia rurale nell’Europa medievale, Bari 1972; Id., Le origini dell’economia europea, Roma-Bari 2004 .

[38] Cito da Airaldi, La storia economica del mondo medievale cit., p. 360.

[39] Op. cit., p. 361.

[40] Lastrucci, Fra tradizionalismo e rinnovamento cit., p. 256.

[41] Mattozzi, Contro il manuale cit., pp. 63-79.

[42] F. Senatore, La formazione degli insegnanti di storia. Difficoltà e ambiguità nel rapporto tra università e scuola, Atti del convegno Le Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) e la didattica della storia, in «Reti Medievali» (Rivista), III/2 (2002), ‹../rivista/atti/ssis.htm›.

[43] P. Corrao, Il manuale è finito, viva il manuale! Considerazioni sulla manualistica a proposito di M. Montanari, “Storia Medievale”, in «Reti Medievali» (Didattica, Strumenti), 2002, ‹../didattica/strumenti/montanari-corrao.htm›.

[44] M. Montanari, Storia medievale, Roma-Bari 2002.

[45] Corrao, Il manuale è finito, viva il manuale cit.

[46] G. Piccinni, I mille anni del Medioevo, Milano 1999; recensione di A. Zorzi, in «Reti Medievali» (Didattica, Strumenti), 2002, ‹../didattica/strumenti/Zorzi_Piccinni.htm›.

[47] I. Lazzarini, Intorno a “Guida allo studio della storia medievale” di P. Cammarosano: i diversi livelli della manualistica, in «Reti Medievali» (Didattica, Strumenti), 2005, ‹../didattica/strumenti/lazzarini.htm›.

[48] Cfr. G. Sergi, L’idea di medioevo. Tra senso comune e pratica storica, Roma 1998 e successive edizioni, capitolo intitolato I secoli della presunta economia ‘chiusa’e ‘naturale’.

[49] G. Luzzatto, Insegnare ad insegnare. I nuovi corsi universitari per la formazione dei docenti, Roma 1999; Università e formazione degli insegnanti: non si parte da zero, Udine 2002; La SSIS a Ferrara tra didattica e ricerca, Atti del seminario di studi (Ferrara 8 novembre 2004), a cura di L. Bellatalla, Pisa 2005; L’insegnante di qualità. La formazione iniziale professionale tra Scuola e Università, a cura di C. Bertacchini - M. R. Fontana, Bologna 2005.

[50] Cfr. il convegno tenutosi all’Università Cattolica di Milano, nel giugno 2001, dal titolo Le Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS) e la didattica della storia. Gli atti sono pubblicati in «Reti Medievali» (Rivista), III/2 (2002), ‹../rivista/atti/ssis.htm›. Cfr. in particolare i saggi di E. Artifoni, Didattica universitaria, didattica per insegnanti: appunti su un biennio; F. Senatore, La formazione degli insegnanti di storia cit.; G. Albini, L’organizzazione della didattica della storia nelle SSIS.

[51] La storia fra ricerca e didattica cit.

[52] Cfr. S. A. Bianchi – C. Crivellari, Nessun tempo è mai passato. La mediazione didattica tra storia esperta e storia insegnata, Roma 2003.

[53] A. Brusa, La didattica sotto accusa, in «I viaggi di Erodoto», 35 (1998), pp. 40-49.

[54] Cfr. F. Fiore, Rincorrere o resistere? Sulla crisi della scuola e gli usi della storia, in «Passato e presente», 19 (2001), fasc. 52, pp. 97-115; D. Notarbartolo, Conoscenze, saperi e nuovi curricoli. A margine della pubblicazione dei nuovi curricoli per la scuola di base, e in attesa di quelli per le superiori, in «Lineatempo. Itinerari di ricerca storica e letteraria», 5 (2001), fasc. 1, pp. 130-137.

[55] L’insegnamento della storia nei nuovi cicli primario e secondario, Faenza 2001.

[56] Legge 28 marzo 2003, n. 53.

[57] Cfr. ad esempio il documento elaborato a Bologna in occasione dell’incontro tenutosi nel 2004 presso il Dipartimento di Discipline Storiche su I nuovi programmi di storia: una minaccia per la formazione storica e critica dei cittadini sul sito ‹http://www.storiairreer.it/Materiali/Materiali/DocDipStoBO.pdf›, oppure cfr. la nota inviata nel maggio 2004 al Ministero da Clio ’92, l’Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia sul sito ‹http://www.clio92.it›.

[58] Bevilacqua, Sull’utilità della storia cit.; P. Corrao – P. Viola, Introduzione agli studi di storia, Roma 2002.

[59] Sulla difficoltà ad individuare criteri di selezione didatticamente valide cfr. le riflessioni di A. Brusa, Il nuovo curricolo di storia, in «Ricerche storiche», fasc. 81 (1997), ora in …“non è più la stessa storia!”…, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Istruzione Professionale, Roma 1999, pp. 65-78.

[60] In particolare sulle questioni relative alla storia economica cfr. W. Kula, Problemi e metodi di storia economica, Milano 1972.

[61] Per un’analisi di alcuni manuali di storia medievale, fino agli anni ’80, cfr. C. Crivellari, La storia medievale nei manuali scolastici italiani dal dopoguerra agli anni ’80, Quaderno n° 6 della SSIS del Veneto, ‹http://www.univirtual.it/ssis/editoriale.htm›.

[62] S. Guarracino, Le età della Storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo, Milano 2001.

[63] La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di G. Bolaffi, Roma 1975.

[64] Cfr. R. Romano, L’Europa tra due crisi, Torino 1970.

[65] C. M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, Bologna 1974; P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Milano 1995.

[66] F. Braudel, Scritti sulla storia, Milano 2003 (con introduzione di A. Tenenti), in particolare il capitolo Per una economia storica, pp. 105-114, già pubblicato in «Revue économique», 85 (1950), fasc. I, pp. 37-44.

[67] Guarracino, Le età della Storia cit.

[68] L. De Rosa, Congiuntura, sviluppo e cicli economici, in Nuovi metodi della ricerca storica, Atti del II congresso nazionale di scienze storiche, organizzato dalla Società degli Storici Italiani (Salerno, 23-27 aprile 1972), Milano 1977, pp. 145-166.

[69] Cfr. ora Uno storico e un territorio: Vito Fumagalli e l’Emilia occidentale nel Medioevo, a cura di R. Greci e D. Romagnoli, Bologna 2005 e, in particolare, per il rapporto uomo/natura, G. Albini, Il rapporto uomo/natura nelle opere di Vito Fumagalli, alle pp. 61-84.

[70] Cfr. G. Deiana, Le radici storiche del rapporto tra uomo e natura. Un percorso di storia ambientale, in Il laboratorio di storia. Problemi e strategie per l’insegnamento nella prospettiva dei nuovi curricoli e dell’autonomia didattica, Milano 2001, pp. 181-192.

[71] V. Fumagalli, Il regno italico, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, vol. II, Torino 1978, pp. 86-87.

[72] G. Duby, La storia continua, Milano 1991, p. 80.

[73] G. Todeschini, La riflessione etica sulle attività economiche, in Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale, a cura di R. Greci, Roma-Bari 2005, p. 153.

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UpUltimo aggiornamento: 10/07/06