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La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV)

a cura di Renato Bordone

© 1984-2005 – Renato Bordone


Nota conclusiva

La società urbana dell'Italia comunale si presenta con una particolare fisionomia, distinta dalle esperienze cittadine extraitaliane e dagli altri modelli urbani di aree differenti della stessa Italia. Per quanto – come più volte è stato sottolineato – ciascuna città comunale manifesti delle peculiarità proprie e inconfondibili legate alla dislocazione geografica e alla composizione sociale, è infatti possibile ritrovare delle costanti comuni a tutti gli insediamenti urbani dell'Italia centro-settentrionale che nel Medioevo raggiunsero l'autonomia di governo. Sono queste analogie sostanziali (e non meramente occasionali), frutto di un comune sviluppo, che consentono in definitiva di proporre un modello di città comunale italianatale da poter essere assunto nella maggioranza dei casi.

La scelta dei documenti che qui viene presentata, rispondendo a questo criterio, può servire di avvio allo studio e alla comprensione del complesso e articolato momento che fu per la storia italiana la «civiltà comunale», fornendo al tempo stesso elementi di confronto e di comparazione alle situazioni particolari. Tale impostazione, articolata non in senso rigidamente cronologico ma tematico, si presta inoltre a un'informazione specifica sugli aspetti particolari della civiltà comunale, siano essi relativi al popolamento, all'urbanistica o alle strutture politico-sociali. Ciò consente una duplice chiave di lettura dei documenti, complessiva e analitica, rispetto all'insieme degli elementi che compongono il quadro cittadino, un quadro unitario nella sua realtà storica ma che esigenze di esposizione e di approfondimento hanno imposto di considerare a seconda dei suoi elementi compositivi.

Al fine di individuare questi elementi si è partiti da una definizione funzionale di città preindustriale, prendendo le mosse dalle indicazioni più recenti della sociologia urbana che avvertono di non considerare la città come unità di analisi indipendente ma di inserirla all'interno di un'area più vasta. Soltanto in relazione a essa, infatti, la città può assolvere una vera funzione «urbana», intesa come polarizzazione delle energie del territorio gravitante sul centro.

Nel caso italiano, in particolare, l'accentramento delle funzioni politiche, militari, commerciali e religiose risale alla tradizione cittadina romana, si conserva, nonostante la decadenza degli insediamenti, durante l'alto Medioevo, viene vigorosamente perseguito dal comune, volto al controllo del contado. Alla metà del XII secolo tutto il territorio dell'Italia settentrionale appariva a un osservatore straniero, Ottone di Frisinga, come un « sistema di città » senza eccezioni rilevanti, poiché ogni contado era dominato da un comune cittadino. Si trattava dunque di una situazione ben diversa da quella extraitaliana, familiare al vescovo tedesco, in cui le città non avevano ancora (o, a seconda dei casi non avrebbero mai) raggiunto la pienezza delle funzioni nei confronti del territorio circostante, in quanto erano elementi non autonomi di una signoria territoriale più vasta. Ben più forte era stata infatti in Italia la sopravvivenza dell'eredità di Roma: la «coscienza urbana» non si era spenta né durante il periodo travagliato delle invasioni né durante quello – non meno determinante – dello sviluppo dei poteri signorili locali. Dal III secolo i moenia civitatis racchiudevano e individuavano una comunità urbana al cui interno risiedeva il capo della chiesa locale, divenuto nei secoli successivi personaggio influente sulle funzioni civili spettanti all'ordinamento municipale romano, che andavano decadendo con l'indebolimento e infine con la scomparsa della curia cittadina. Furono proprio i segni distintivi di carattere anche fisico, quali le mura e la cattedrale, a conservare la coscienza urbana degli antichi insediamenti cittadini, oltre al fatto che non venne mai meno il legame con il territorio. Ciò spiega come durante il Medioevo non sia stato necessario per i contemporanei ricorrere a indicatori quali il numero degli abitanti o la loro densità per individuare l'agglomerato urbano.

Il numero, d'altro canto, appare in diretto rapporto con le possibilità di sostentamento di una popolazione di consumatori e ben sappiamo che la tecnologia preindustriale non era in grado di mettere a disposizione dei residenti un elevato surplus agricolo: le città medievali erano (o potevano essere) poco più estese di un villaggio, pur esercitando una funzione centrale per la vita del territorio. Sicché l'incremento demografico appare sempre in stretta relazione con l'aumento della produzione agricola: la popolazione della città cresce quasi esclusivamente in seguito all'inurbamento di campagne in corso di sviluppo, ma il fenomeno assume significati diversi a seconda dei momenti in cui si verifica.

I documenti ci hanno infatti indicato come nel X secolo un primo afflusso all'interno del recinto fortificato urbano sia da mettere in relazione con la minaccia delle invasioni, ma tale pericolo sembra aver soltanto contribuito a un generale movimento le cui cause reali vanno ricercate piuttosto nella ripresa agraria e demografica delle campagne in fase di ridistribuzione sui centri a indice negativo. L'afflusso dei nuovi abitanti e il conseguente problema del loro mantenimento favorì la più cosciente formazione di un'area rurale di immediata fruizione urbana, proporzionale ai bisogni di sostentamento, sulla quale si proiettano gli interessi dei cittadini, presto seguiti dall'esigenza di una precisa individuazione in sede giuridica. Questo processo trova il suo riconoscimento formale nell'età degli Ottoni, nei diplomi che legittimavano l'autorità temporale esercitata di fatto dal vescovo nella crisi dell'ordinamento pubblico: città e territorio (districtus) diventano così base del potere cittadino del vescovo e anche elemento di individuazione specifica della comunità urbana. Il potere temporale del vescovo, infatti, non si esercita sui cives allo stesso modo che sui suoi dipendenti rurali: assume in città connotazioni più sfumate, rispettose di quella tradizionale libertas connessa con la residenza urbana, che sollecita l'autorità vescovile a funzionare al servizio degli interessi della collettività. Questa situazione favorisce lo sviluppo delle attitudini tipiche della città e l'autocoscienza di coloro che vi esercitano le più varie attività.

L'organizzazione militare, a cui spetta la tutela delle mura, anziché essere totalmente delegata alle clientele armate del signore, si mantiene fra le competenze della collettività, organizzata in esercito cittadino, inquadrato dai maiores e subordinato al vescovo. L'attività commerciale, che tradizionalmente caratterizza l'insediamento urbano, trova in genere nel vescovo, detentore dei diritti di mercato, la protezione e il collegamento con il regno, necessari per lo sviluppo del commercio al di là dei confini cittadini, benché non manchino fra vescovo e mercanti occasioni di attrito e di aperta conflittualità, come nel caso di Cremona. Si manifesta allora la centralità economica della città nei confronti del territorio con la ripresa e lo sviluppo – accanto alla fiera annuale – del mercato settimanale, sul quale affluiscono e circolano derrate e oggetti prodotti nella campagna circostante. Una terza funzione, infine, viene svolta dalla centralità cittadina e riguarda l'aspetto religioso-culturale, rappresentato dal prestigio della chiesa «madre» di tutta la diocesi e dal culto del santo patrono che si svilupperà come elemento di coesione e di autoidentificazione di tutti i cittadini, col contributo e la collaborazione dei quali verrà edificata o ingrandita la cattedrale.

Libertà interpersonale ed esercizio di attività differenziate favoriscono così lo sviluppo di un tipo di società articolata e multiforme, molto diversa da quella delle campagne. Al suo interno si va affermando un ceto eminente, dal quale il vescovo trae i collaboratori, formato da famiglie di grandi proprietari fondiari, di discendenti da funzionari pubblici che hanno patrimonializzato gli uffici originari, di ricchi mercanti o potenti armatori su cui poggia l'economia cittadina. Tutti, all'occorrenza, sono in grado di mobilitarsi per la difesa della città, inquadrando come comandanti militari la popolazione in armi o combattendo come vassalli della chiesa in seguito a particolari legami feudali stretti col vescovo. Li accomuna un analogo stile di vita, l'inserimento in potenti clan familiari e l'attitudine alla violenza e alla competizione reciproca, resa visibile dall'architettura stessa delle loro dimore cittadine, le torri.

Ciò nonostante, è proprio a questa turbolenta classe eminente che si deve, sul finire dell'XI secolo, il più importante mutamento istituzionale nella storia della città italiana: la nascita del comune. Cause e componenti appaiono differenziate a seconda dei singoli casi, tuttavia un medesimo orientamento è dato di cogliere nella pluralità degli esiti: la necessità di un provvedimento d'emergenza che, all'indebolirsi della funzione cittadina del vescovo, consenta alla civitas di presentarsi come comunità unanime in grado di superare i contrasti interni, nel solco di una tradizione pubblica connessa con la stessa natura di collettività di liberi.

Ciò avviene senza apparente soluzione di continuità col passato, poiché, almeno nel primo periodo comunale, formalmente al vescovo rimane il superiore coordinamento delle forze cittadine: di fatto, per ciò che riguarda le funzioni della città nei confronti del suo sistema territoriale, è il comune in prima persona che le sviluppa e le potenzia, dal punto di vista sia militare, sia commerciale, sia culturale. La novità maggiore, sotto questo aspetto, sta nell'ampliamento del «sistema» stesso, nella dilatazione cosciente – una coscienza che si afferma gradualmente – delle funzioni cittadine all'intero territorio della diocesi o, come viene più spesso teorizzato a partire dalla seconda metà del XII secolo, all'antico comitatus di tradizione franca. Una prospettiva di questo genere, naturalmente, implica disponibilità di risorse materiali e di apparati funzionanti, condizioni il cui raggiungimento sembrerebbe in contrasto con la perenne instabilità istituzionale delle città italiane, affette dalla cronica turbolenza della classe dirigente. Ma la precaria situazione civile favorisce la sperimentalità delle soluzioni e il comune si dimostra adattabile alle circostanze, riuscendo a realizzare in gran parte il suo disegno territoriale, forte di una robusta elaborazione giuridica, maturata all'interno della tradizione pubblica cittadina.

Nel difficile equilibrio fra aspirazione pubblica e concorrenze private – aggravato dalla comparsa nel Duecento di una nuova componente politica, il populus – prevalse, sia pure in maniera sempre precaria, l'interesse della collettività, garantendo il funzionamento delle strutture. Un esempio, all'apparenza secondario, del funzionamento ordinario dell'ente cittadino viene fornito proprio dalla documentazione qui considerata, relativa alla morfologia urbana: l'intervento comunale sull'urbanistica, sui servizi, sulla normativa edilizia appare molto precoce e si presenta come un controllo capillare delle esigenze della collettività, non senza risvolti, in età più tarda, di ordine non solo pratico ma estetico. Un intervento di questo genere implicava evidentemente un apparato complesso di cui gli ufficiali preposti al controllo urbanistico non rappresentavano che un livello inferiore e che rimanda a un funzionamento efficiente di tutte le magistrature comunali. L'eliminazione di residui di privilegi personali, la sottomissione all'unica giustizia comunale di tutti i cittadini furono le linee portanti di un programma che, insieme con l'elaborazione di una politica fiscale e finanziaria, garantirono continuità e sicurezza all'amministrazione cittadina.

Il risultato, sul piano dello sviluppo cittadino, ribadì la funzione centralizzatrice della città, favorendo il commercio e l'artigianato, attraendo persone e merci, mettendo in circolazione nuove idee e creando cultura urbana con la fondazione delle università e i progressi delle tecniche mercantili. L'attrazione che in questo periodo la città esercita nei confronti del contado risulta infinitamente superiore a quella esercitata in precedenza, durante il regime vescovile. L'autorità politica regolò l'accesso alla cittadinanza con precise norme giuridiche, già compiutamente elaborate a metà del XII secolo: il controllo dell'inurbamento dalle campagne, politicamente sottomesse o in via di sottomissione, fu selettivo, almeno per i cittadini di pieno diritto, e conforme alle reali esigenze della città, ma con il boom demografico delle campagne del Duecento ben presto le città si stiparono di habitatores, spesso manovalanza della nascente industria, che provocarono crescite repentine, testimoniate dai successivi incrementi della cerchia muraria, insufficiente a contenere l'aumentata popolazione.

Sul finire del Duecento i comuni italiani sembrano toccare l'apice dello sviluppo e denunciano l'imminente crisi: Milano e Firenze si aggirano sui centomila abitanti, decuplicando la superficie urbana originaria; la mobilità sociale consente ai produttori di ricchezze rapide scalate al potere; spregiudicati membri dell'antica aristocrazia, messa in ombra dall'avvento delle nuove componenti politiche popolari, cercano affermazioni personali mentre dappertutto si assiste a una recrudescenza della violenza civile fra clan vecchi e nuovi. La società cittadina, nel suo complesso, entra allora in crisi: sul piano politico per la prima volta si cerca (e ben presto si troverà) una separazione fra strutture sociali e istituzioni che consenta il ristabilimento della pace interna; sul piano economico il sovrappopolamento supera i limiti sopportabili dall'approvvigionamento, provocando larghe sacche di miseria, facili alle sommosse e al tumulto. È il tramonto del comune, la fine della libertà cittadina.

I limiti estremi della parabola comunale – dallo sviluppo dell'aut governo alla perdita della libertà – non esauriscono tuttavia la «civiltà comunale», né il ruolo svolto dalla città nella storia italiana: come nel periodo precomunale la presenza del vescovo e la persistenza della condizione giuridica di libertà aveva caratterizzato la città nei confronti della campagna, sviluppando la vocazione centralizzante della città nell'espletamento delle funzioni primitive, così la città non perse la sua fisionomia con l'avvento del regime signorile. L'affermazione del principe e il conseguente inserimento della città in uno «stato» di cui essa appariva come parte e non più come capo non riuscirono infatti in Italia a dissolvere – come ha indicato Marino Berengo nel suo importante saggio su La città di antico regime (in «Quaderni storici», 27, 1974, pp. 661-92) – «nell'animo dei contemporanei la forza del legame tra libertà e città». Sul piano politico questa sostanziale differenza in età moderna fra l'esperienza comunale italiana e il movimento cittadino del resto d'Europa non deve d'altra parte stupire, quando si ponga mente alla natura profondamente diversa dell'affermazione dei ceti urbani in Italia rispetto al difficoltoso processo, per giungere a una parziale autonomia, seguito dalle altre città europee. Il comune italiano si pone infatti fin dalle origini come erede della res publica, come momento locale di essa: ciò caratterizza la sua «cultura» e la sua classe di governo, socialmente articolata ma unanime nel connotarsi come «cittadina», anche quando si autoproclami «nobile». Fuori d'Italia è in prevalenza il ceto borghese, nettamente distinto da quello nobiliare, che riesce a imporre all'interno della dipendenza signorile una distinzione giuridica fra la città e il resto del territorio e a far progressivamente assumere significato pubblico al proprio controllo sulla città: ciò provoca una caratterizzazione e distinzione dei ceti che ascendono al patriziato più netta che non in Italia, dove nell'ultimo Medioevo non perdureranno differenze fra gli antichi ceppi nobiliari e i nuovi casati mercantili nella partecipazione alle cariche cittadine, in quanto, come ancora sottolinea Berengo, «la città difende la sua autonomia di fronte al contado, al principe o al signore rafforzando la sua classe dirigente con l'assorbimento delle energie reali di cui dispone». Solo nell'Italia centro-settentrionale il patriziato cittadino si impone in questo modo come «unica possibile classe dirigente», in grado di assorbire la vecchia nobiltà e di perpetuare il suo dominio «per tutta l'età dell'antico regime».

Questo era il frutto di una radicata tradizione urbana che nessuna aggressione dall'esterno riuscì a scalzare, poiché fondava la sua energia sulla sottomissione del contado che nel corso della sua esistenza il libero comune si era sforzato di svuotare di autonomi poteri decisionali, ponendosi come unico «centro», secondo una vocazione secolare. In questa direzione – con tutte le conseguenze di tipo economico e amministrativo che comportava – continuò a battersi con alterne fortune la classe dirigente, cittadina, che pure aveva perso la «libertà», cioè l'autogoverno, spesso ottenendo dal detentore del potere centrale ormai consolidato il diritto di avere propri rappresentanti nelle giurisdizioni in cui ora si articolava il contado. Potere limitato, frammisto al potere di feudatari o di rappresentanti del governo che con i rappresentanti cittadini si spartiscono il contado, ma da non sottovalutare, in quanto sopravvivenza del passato ma anche modello del presente. Per il controllo del contado vennero infatti in gran parte accolti dagli statuti riformati dal principe gli strumenti burocratico-amministrativi (in origine politici) che aveva in precedenza elaborato la normativa del libero comune: in questo modo la società comunale consegnava all'età moderna stabili assetti territoriali di ambito municipale, fondati sulla centralità cittadina.

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UpUltimo aggiornamento: 01/03/2005