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L'ascesa della borghesia nell'Italia comunale

a cura di Anna Maria Nada Patrone

© 1974 – Anna Maria Nada Patrone


Nota conclusiva

1. Significato del termine «borghese» nel Medioevo

Etimologicamente il termine «borghese indica semplicemente «colui che abita nella città», o meglio nel «borgo», dal tedesco burg (luogo fortificato), che a sua volta deriva dal latino burgus, vocabolo con cui venivano designati i castelli eretti a difesa dei confini militari dell'impero. Fra Salimbene da Parma nella sua Cronica scrisse appunto che «i nobili vivono in campagna e nei loro possedimenti, invece i borghesi abitano nella città».

In realtà tuttavia nel Medioevo questo termine non servì a designare tutti gli abitanti della città, ma assunse un preciso significato giuridico e con esso vennero designati soltanto coloro i quali, già nel secolo VII, facevano parte dei già menzionati conventus civium, cioè i negotiatores, i notai, gli scabini [1], i giudici, gli esattori delle imposte, uomini di provenienza diversa che si erano raccolti nella città, per lo più intorno alla curia vescovile, e qui avevano raggiunto un certo prestigio ed una certa possibilità economica, acquistando beni fondiari nell'area urbana e nella campagna circostante, commerciando, frequentando porti, mercati, fiere, luoghi di pellegrinaggio.

2. Formazione del ceto borghese

Questi diversi gruppi sociali e professionali erano così riusciti ad affermare il proprio prestigio nell'ambito della città, tanto da poter imporre la propria volontà nella conduzione della vita cittadina; infatti, come dice la Fasoli nella Città medievale italiana «nelle città si tenevano mercati settimanali, fiere annuali che bisognava regolare e controllare; c'era da provvedere ai lavori pubblici per la parte che era di competenza dei cittadini e che gravava sul bilancio della città, alimentato, a quanto risulta, dai redditi delle terre appartenenti alla città stessa e dalla riscossione di imposte dirette; c'era da regolare lo sfruttamento dei beni appartenenti alla città; c'era da concedere o negare il diritto di cittadinanza a estranei che ne facevano richiesta. Inoltre i capitolari [2] richiedevano l'esplicito consenso del popolo perché certe leggi avessero piena validità e prescrivevano che i funzionari minori fossero scelti dal conte e dal popolo congiuntamente».

Costoro nelle fonti narrative anteriori al Mille sono indicati con espressioni vaghe: coetus, consilium seniorum, domini civitatis, ordo illorum qui iura et leges civitatis asserebant, cioè non hanno ancora quella fisionomia giuridica ben definita che verrà loro assegnata dall'espressione cives et burgenses con cui vengono spesso indicati negli statuti comunali posteriori. Erano però coloro che avevano particolari doveri e godevano di particolari diritti, erano coloro che pagavano le imposte dirette, che provvedevano alle spese straordinarie della città, alla fabbricazione ed alla manutenzione degli edifici cittadini e delle opere di difesa urbana ecc. e che perciò – in quanto contribuivano in solido alla formazione delle entrate cittadine – erano chiamati ad esprimere il loro voto nelle deliberazioni di particolare importanza per la vita della città stessa.

Con l'andare del tempo, e soprattutto in conseguenza del generale risveglio economico che si verificò verso il Mille, questi ceti – ed in particolare quello degli uomini d'affari – andarono acquistando un potere finanziario sempre maggiore e sentirono quindi l'esigenza di far sentire in modo sempre più massiccio la loro presenza e la loro voce nella vita politica ed amministrativa della città. I contrasti che sorsero contemporaneamente tra il Papato e l'Impero, e che sfociarono nella lotta per le investiture, furono da essi abilmente sfruttati in tal senso. Mentre, da un lato, approfittando della decadenza economica delle antiche famiglie signorili, si sostituivano, almeno in parte, ad esse nel possesso delle terre del contado (e dei privilegi annessi a tali possessi), dall'altro costrinsero l'Impero ad accettare il loro programma politico-amministrativo nell'ambito cittadino, ottenendo per i rispettivi comuni quelle «regalie» che sino allora erano state di diritto imperiale o che, erano passate, più o meno legalmente, nelle mani delle autorità signorili o religiose.

Questa rivoluzione, che ebbe ovviamente fasi alterne e diverse da regione a regione, da città a città, si sviluppò raramente attraverso vicende tragiche o sanguinose, perché in realtà fu una rivoluzione pacifica, attuata entro limiti ben precisi e con un'infinita varietà di cautele, di compromessi e di apparenti contraddizioni.

Per capire la storia di quel periodo e l'azione politica svolta dalla nascente borghesia, per capire la molteplicità dei suoi atteggiamenti verso la classe signorile ed il clero da un lato e la plebe dall'altro, che spesso possono apparire ambigui e contradditori ad un osservatore superficiale, occorre tenere ben presente quella che fu l'aspirazione suprema e costante della borghesia italiana nel momento della sua nascita. Essa mirava a conquistare un potere sempre maggiore nel mondo degli affari, a dilatare e rendere sicure e poi ancora nuovamente a dilatare le sue ricchezze, a sviluppare le sue attività imprenditoriali ed a metterle al riparo da rischi e rovine, ad affermare insomma in modo sempre più vistoso e prepotente il suo dominio sulla vita economica della città, in tutti i suoi vari aspetti ed in tutte le sue possibilità.

Questo ci può facilmente indicare la ragione per cui la borghesia si impegnò a fondo nella lotta per la conquista del potere politico o almeno (quando non fu possibile una conquista completa) per una spartizione di tale potere con la classe signorile. Questo ci spiega perché, da un lato, la borghesia non esitò talvolta a sfruttare il malcontento della plebe cittadina contro le autorità preesistenti per abbatterne o condizionarne il potere; e dall'altro ci spiega pure perché la borghesia stessa fu sempre pronta a soffocare ed a reprimere le aspirazioni dei ceti sociali inferiori. Questo ci permette anche di comprendere perché in alcune occasioni i borghesi non si fecero scrupolo di accarezzare e fomentare i movimenti ereticali, al fine di smantellare il potere temporale del clero, e perché poi furono sempre pronti a smentire ed a condannare tali movimenti ed a proclamare la loro fede inconcussa verso la Chiesa , appena gli scopi a cui miravano erano stati raggiunti, e soprattutto quando la manifestazione di sentimenti religiosi particolarmente fervorosi poteva permettere loro l'onore, assai lucrativo, di essere prescelti quali banchieri e ufficiali della Curia romana. Ed ancora le aspirazioni, di cui sopra abbiamo detto, ci permettono di capire perché i borghesi, pur proclamandosi ostili in senso assoluto ai diritti ed ai privilegi della classe nobiliare, dimostrarono sempre una smodata aspirazione ai titoli cavallereschi e nobiliari. Il raggiungimento di tali titoli costituiva infatti un suggello ed una sicura garanzia per i loro successi economici. Ed ancora tali aspirazioni ci spiegano la ragione per cui la lotta contro la nobiltà non fu mai spinta alle estreme conseguenze rivoluzionarie, e perché anzi, quasi costantemente e ancor più accentuatamente nei momenti di gravi turbolenze e lotte intestine nell'ambito cittadino, i borghesi tornassero poi a rivolgersi ai rappresentanti della nobiltà e tornassero ad affidare a loro, in misura maggiore o minore a seconda dei casi, le redini del potere.

Tutto ciò infine può anche spiegarci la ragione della limitatezza e della fragilità insita nei regimi politici rappresentativi che vennero allora elaborati in Italia. In un primo tempo infatti la borghesia aveva voluto l'instaurazione di regimi rappresentativi per liberarsi dal predominio e dalle prepotenze del ceto signorile, che poneva un freno alle sue iniziative economiche. Quando però essa si accorse che i regimi rappresentativi si dimostravano poi incapaci di mantenere l'ordine nella città ed anzi costituivano uno stimolo all'esplodere di lotte intestine perturbatrici del buon andamento degli affari, non esitarono a rinunciare alle istituzioni rappresentative ed a porsi sotto l'usbergo di nuovi signori e di nuovi principi.

È ovvio che avendo posto il successo mondano (economico, finanziario e politico) al vertice delle proprie aspirazioni, la borghesia, come è stato illustrato nelle varie sezioni di questa antologia, abbia finito con il piegare e modellare a tali sue aspirazioni non soltanto le proprie scelte politiche, ma anche quelle religiose e poi ancora quelle etiche e quelle culturali e abbia adottato una prassi esistenziale profondamente diversa da quella su cui si era modellata la società nei secoli precedenti, anche se molte delle strutture esteriori di quest'ultima vennero conservate ed anche gelosamente difese.

3. Problemi ed interpretazioni storiografiche dei secoli XIX e XX

Il fenomeno dell'ascesa economica e politica della borghesia europea nel Medioevo – di cui l'affermazione della borghesia italiana fu uno degli aspetti più rilevanti – è uno degli argomenti che maggiormente hanno appassionato gli storici da più di un secolo e mezzo ad oggi, da quando cioè con la rivoluzione francese la borghesia si è ripresentata con prepotenza alla ribalta della storia ed ha nuovamente rivendicato per sé il predominio economico e politico, soprattutto negli stati dell'Europa centro-occidentale.

È ovvio che gli studi compiuti in questo arco di tempo e le polemiche che ne sono sorte hanno risentito profondamente dell'atteggiamento politico dei singoli autori e del loro giudizio di fronte alle scelte politiche ed economiche operate dai gruppi dirigenti borghesi dei rispettivi paesi. Esaminare a fondo la storia di questa polemica significherebbe ripercorrere tutta la storia delle correnti più rappresentative della storiografia e del pensiero politico contemporaneo [3]. Ci limiteremo quindi a brevi cenni sommari su alcuni aspetti delle tesi storiografiche più significative che si sono rivolte esplicitamente all'esame delle origini e della funzione del ceto borghese in Italia.

Gli scrittori della scuola romantica videro nella borghesia la forza eversiva del vecchio ordine signorile ed insistettero soprattutto nell'esaltare le istituzioni rappresentative delle piccole repubbliche italiane e il contemporaneo affermarsi di un nuovo ceto di uomini liberi.

Gli storici romantici francesi in particolare contrapposero, al regime accentratore instaurato in Francia dalla rivoluzione e rafforzato da Napoleone, le istituzioni autonome dei comuni medievali.

Così il ginevrino Carlo de Sismondi (1773-1842), uno dei principali esponenti della scuola romantica francese, nella sua Histoire des républiques italiennes (Parigi, 1808) esaltò la forza del nuovo ceto, la «force sociale» che aveva avuto origine nelle città e che seppe e volle creare i liberi comuni italiani, promuovendo, accanto a forme autonome di conduzione politica, anche fervide e feconde attività economiche e dando origine ad un gruppo sociale dirigente capace di interpretare e soddisfare le esigenze politiche ed economiche della città [4].

opportuno qui ricordare anche l'interpretazione di Augustin Thierry (1795-1856), che pur non si occupò esplicitamente della borghesia italiana nel Medioevo: infatti nella sua produzione storiografica – si propose di esaminare le vicende del ceto medio in Francia [5]. Tuttavia risentì profondamente l'influenza delle tesi del Sismondi, anzi mise in ancor maggior rilievo l'aspetto rivoluzionario dell'ascesa della borghesia, in ogni tempo ed in ogni luogo, cioè il «terrible réveil de l'esprit de démocratie dans un temps d'ordre et d'obéissance volontaire», preparato da «ces artisans qui fondèrent les communes, qui imaginèrent la liberté moderne». La rivolta comunale è quindi interpretata dal Thierry come «la victoire bourgeoise sur la puissance féodale» [6].

Dopo la Restaurazione anche in Italia la scuola romantica nazionale, fortemente condizionata dall'opera del Sismondi, si appassionò al periodo storico contraddistinto dallo scontro aperto tra i piccoli comuni italiani, in difesa delle loro autonomie, e la forza dell'Impero, gelosa della propria giurisdizione. A differenza dei romantici d'oltralpe, quelli italiani però tesero a fermare la loro attenzione non tanto sulle libertà ottenute dai comuni medievali per merito e per opera del nascente ceto borghese, quanto sulla lotta contro il potere accentratore dell'Impero, voluta e condotta avanti dal popolo tutto – e non soltanto dal ceto medio – per raggiungere e mantenere queste libertà. La spiegazione di questo assunto ideologico si potrebbe forse trovare nell'atteggiamento politico caratteristico degli uomini del nostro Risorgimento, che sentirono l'intima esigenza di occuparsi della storia dell'Italia comunale, ed in particolare della Lega Lombarda: Cesare Balbo, Cesare Cantù, Giovanni Berchet, Massimo D'Azeglio, Carlo Cattaneo, Luigi Tosti, Niccolò Tommaseo auspicavano tutti, anche se con sfumature diverse, una guerra nazionale contro la dominazione austriaca [7].

L'affermarsi delle ideologie del movimento socialista nell'epoca della monarchia «borghese» di Luigi Filippo impressero una nuova svolta alle interpretazioni storiografiche del concetto di borghesia, che venne ora vista come forza di oppressione nei confronti delle masse popolari [8].

Questo concetto polemico verrà condotto avanti, sino alle sue estreme conseguenze, dalla scuola del materialismo storico, che evidentemente non si preoccupò di studiare la formazione della borghesia medievale, tantomeno di quella italiana, ma di ritrovare l'origine e la formazione del capitalismo [9].

Senza diffondersi sui contenuti ideologici, sarà qui sufficiente sottolineare che le affermazioni di Marx riguardo alle prime accumulazioni di capitale ed ai caratteri dell'economia feudale sono state oggetto di vivaci discussioni fra gli stessi esponenti della scuola marxista, tendendo di volta in volta ad attribuire al nascente ceto borghese ora una funzione decisamente eversiva, ora progressivamente disgregatrice delle preesistenti forze signorili. Tra i marxisti che si sono occupati più o meno direttamente di questo problema ricordiamo in modo particolare, per l'acutezza delle loro osservazioni, pur talvolta contrastanti, alcuni storici del XX secolo quali il Dobb [10], lo Sweezy [11] e lo Hilton [12].

Agli inizi di questo secolo un'altra corrente storiografica, la cosiddetta storiografia economico-giuridica, si soffermò sull'origine e sulla funzione della borghesia nella società europea dopo il Mille. Qui ricorderemo soltanto due esponenti stranieri di questa scuola, il Pirenne ed il Sombart, che più da vicino hanno toccato il nostro problema e le cui tesi, anche se discutibili, non possono rimanere ignote a chi si voglia interessare della formazione e dei caratteri distintivi della borghesia nel periodo comunale.

Ambedue questi studiosi si posero il problema non tanto della nascita del nuovo ceto, quanto piuttosto della sua funzione nell'ambito della società preesistente e di quella cittadina, in cui si trovò ad agire la borghesia.

Il belga Henry Pirenne (1862-1935) si occupò in particolare della borghesia nell'area fiamminga e fu uno dei primi storici a mettere in rilievo i nessi esistenti tra il sorgere del ceto medio e lo sviluppo dell'economia monetaria: infatti, secondo il Pirenne, proprio attraverso le ampie disponibilità di capitale mobile il nuovo ceto riuscì ad imporsi sui ceti dirigenti signorili ed a diventare il centro determinante di tutta la vita cittadina, riuscendo ad affermarsi politicamente ed economicamente secondo uno schema precapitalistico di organizzazione del lavoro [13].

Tale tesi del Pirenne venne implicitamente discussa e rifiutata dal prussiano Werner Sombart (1863-1942), che giunse a negare al ceto borghese, ed in particolare ai mercanti italiani del Medioevo, un qualsiasi peso nella società loro contemporanea in conseguenza della loro impreparazione tecnica e culturale e della modestia del loro giro d'affari [14].

La tesi sombartiana suscitò un'ondata di polemiche; a noi interessano quelle miranti a rivalutare la figura del mercante italiano e la sua influenza nella società contemporanea. Fra gli italiani che intervennero in questa discussione si distinse Armando Sapori e per la sua critica precisa alle affermazioni del Sombart [15] e per l'ampiezza delle sue ricerche di storia economica [16].

In Italia tuttavia gli ultimi settant'anni della storiografia comunale sono stati dominati dalle acute interpretazioni, che costituiscono ormai un punto di partenza obbligatorio, sulle origini dei comuni italiani, di due studiosi: il Salvemini (1873-1957) ed il Volpe (1876-1971), legato il primo, negli anni di questa sua produzione, alla scuola marxista [17], di formazione economica-giuridica il secondo, ma profondamente sensibile alle esigenze sociali, sentimentali, etiche della società comunale, che costituirono il fondamento dei fatti economici e politici su cui egli fermò in particolare la sua attenzione.

Il Salvemini applicò alla storia comunale italiana – e in particolare a quella fiorentina [18] – il canone della lotta di classe; egli esaltò la funzione storica della borghesia: il «ceto medio nell'Italia settentrionale e centrale creò i comuni e si coprì di gloria nella politica, nelle arti e nell'economia». Con perspicacia politica ed umana egli colse le due componenti essenziali di questo nuovo ceto: i popolari, cioè la media e la piccola borghesia ed «i magnati per accidente, o alta borghesia», in continua lotta su un duplice fronte: fra di loro per la conquista del dominio politico e contro gli «operai nullatenenti» per mantenerli emarginati da ogni forma di potere e di gestione cittadina. La disgregazione di questo ceto, connessa con la trasformazione del commercio internazionale, fu per il Salvemini il motivo primo delle origini delle signorie.

In posizione apparentemente antitetica, anche se in realtà anch'egli si rifece al concetto di lotta di classe, si trova il Volpe [19]: «il segnale della marcia avanti» fu dato, secondo il Volpe, non dalla borghesia ma dalla «minore aristocrazia feudale in lotta con la maggiore. Quando si dice che il rinnovamento della società medievale ed il comune sono opera della borghesia, si dice una cosa che solo per metà è vera. La borghesia vien dopo: essa è l'esercito grande che segue l'avanguardia degli zappatori, guastatori e costruttori».

Sulla scia di questi due storici negli ultimi decenni si sono moltiplicati ricerche e studi sull'origine del comune italiano, sulla situazione cittadina, sui ceti che vollero e prepararono le libertà comunali, lavori che già sono stati citati nelle note bibliografiche che corredano le varie sezioni di questa antologia: si tratta in genere di ricerche volte soprattutto ad esaminare i problemi e le strutture istituzionali delle città italiane nel periodo comunale.

[1] Gli scabini erano esperti delle consuetudini e del diritto locale, a differenza dei giudici che erano esperti di diritto, appreso nelle scuole superiori.

[2] I capitolari erano disposizioni legislative emanate dai sovrani carolingi, destinati ad integrare le varie legislazioni dei popoli soggetti all'Impero (capitularia legibus addenda).

[3] Per informazioni più ampie riguardo alla storiografia del XIX e del XX secolo oltre alle classiche opere di FUETER (Storia della storiografia moderna, Milano-Napoli, Ricciardi, II ed., 1971) e di FR. MEINECKE (Le origini dello storicismo, Firenze, Sansoni, 1967), si veda G. LEFEBVRE, La storiografia moderna, Milano, Mondadori, 1973. Per la storiografia italiana cfr. B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1947.

[4] Del Sismondi cfr. anche la recente edizione delle Recherches sur les constitutions des peuples libres, a cura di M. MINERBI, Ginevra, Droz, 1965.

[5] A. THIERRY, Dix ans d'études historiques, Parigi, 1865; ID., Lettres sur l'histoire de France, Parigi, 1866; ID., Essai sur l'histoire de la formation et des progrès du Tiers Etat, Parigi, 1871.

[6] Sul Thierry cfr. R. N. SMITHSON, The Evolution of the Historical Method of Augustin Thierry. A Study in Social and Political Consciousness, Ginevra, Droz, 1973.

[7] Per la corrente storiografica romantica italiana cfr. E. PASSERIN D'ENTRÈVES, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana, vol. VII, L'Ottocento, Garzanti, Milano, 1969, pp. 200-415 e M. FUBINI, La Lega Lombarda nella letteratura dell'Ottocento, in Popolo e Stato nell'età di Federico. Barbarossa. Alessandria e la Lega Lombarda, Torino, Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1970, pp. 399-420.

[8] Si ricordi ad esempio, il socialista militante Louis Blanc (1811-1882).

[9] Per questo problema si rimanda alla chiara esposizione di A. CAVALLI, Le origini del capitalismo, Loescher, Torino, 1973.

[10] M. DOBB, Economia politica e capitalismo, Torino, Boringhieri, 1972.

[11] P. SWEEZY, La teoria dello sviluppo del capitalismo, Torino, Boringhieri, 1970.

[12] R. H. HILTON, Capitalism. What's in a Name?, in «Past and Present», I (1952).

[13] H. PIRENNE, «Le fasi della storia sociale del capitalismo», in Teorie sulla struttura di classe, a cura di R. BENDIX e S. M. LIPSET, Padova, Marsilio Editore, 1969, pp. 131-133 (I ed. 1914); Storia economica e sociale del Medio Evo, Milano, Garzanti, 1967 (I ed. 1933).

[14] W. SOMBART, Il borghese. Contributo alla storia dello spirito dell'uomo economico moderno, Milano, Longanesi, 1950; Il capitalismo moderno, trad. it. parziale, Firenze, Vallecchi, 1925; Torino, UTET, 1967.

[15] A. SAPORI, Werner Sombart, in Studi di Storia economica. Secoli XIII-XVI, III edizione accresciuta, voll. 2, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 1083-1111.

[16] A. SAPORI, Le marchand italien au Moyen Age, Parigi, Colin, 1952; Studi di storia economica cit.; La mercatura italiana cit.

[17] Sul Salvemini cfr. E. RAGIONIERI, Gaetano Salvemini storico e politico, in «Belfagor», V (1950) e E. SESTAN, Salvemini storico e maestro, in «Rivista Storica Italiana», 70 (1958), pp. 5-43, riprodotta come introduzione a G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Torino, Einaudi, 1960, pp. XI-LIX e Milano, Feltrinelli, 1966, pp. IX-XL.

[18] G. SALVEMINI, Gli statuti fiorentini del Capitano e del Potestà degli anni 1322-25, in «Archivio Storico italiano», serie V, XVIII (1896); La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, Firenze, Ricci, 1896 (ed ora in Magnati e popolani, ed. citata, pp. 339-478); Le consulte della Repubblica fiorentina del secolo XIII, in «Archivio Storico Italiano», serie V, XXIII (1899); Studi Storici, Firenze, Galileiano, 1901; Magnati e popolani cit. (I ed., Firenze, Carnesecchi, 1899).

[19] G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (I ed. 1933), Firenze, Sansoni, 1961; Momenti di Storia italiana (I ed. 1925).

Nota bibliografica

Per la prima parte si cfr. le note bibliografiche precedenti e AA.VV., The Transition from Feudalism to Capitalism. A Symposium, New York, Science and Society, 1954.

Per il II paragrafo cfr. B. CROCE, La borghesia, Bari, Laterza, 1945; E. SESTAN, La storiografa italiana fra tradizione e innovazione, in «Arte e Cultura Contemporanea», a cura di P. NARDI, Firenze, Sansoni, 1964, pp. 85-108; A. GAROSCI, Sul concetto di «borghese». Verifica storica di un saggio crociano, in «Miscellanea in onore di W. Maturi», Torino, Giappichelli, 1966, pp. 437-475; AA.VV., Teorie sulla struttura di classe, a cura di R. BENDIX e S. M. LIPSET, Padova, Marsilio ed., 1969; A. CAVALLI, Le origini del capitalismo, Torino, Loescher, 1973.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05