Logo di Reti Medievali 

Didattica

spaceleftMappaCalendarioDidatticaE-BookMemoriaOpen ArchiveRepertorioRivistaspaceright
Didattica> Fonti > Stato e società nell'ancien régime> Nota conclusiva

Fonti

Stato e società nell'ancien régime

a cura di Angelo Torre

© 1983-2006 – Angelo Torre


Nota conclusiva

Giunti al termine di questa panoramica sulle forme divergenti di integrazione territoriale e sociale operate dagli stati sviluppatisi in Europa tra il secolo XV e il primo XVIII, non è forse inutile accennare brevemente agli approcci più generali presupposti da talune delle tendenze interpretative fin qui esaminate. È un tentativo, questo, reso necessario dal fatto che, per via della estrema complessità del processo di formazione dello stato moderno, che sarebbe impossibile ridurre a formule unitarie, monoplanari e, soprattutto, lineari, il lavoro degli storici si è diretto principalmente verso lo studio di elementi e fattori specifici parziali, in qualche misura — e con diversa ragione — ritenuti esplicativi della genesi e della formazione dello stato. Le pagine che seguono, pur non avendo l'ingenua pretesa di esaurire un argomento sterminato, vogliono almeno presentare le interpretazioni più diffuse appunto sulla base degli elementi e delle facce dello stato privilegiate dal lavoro di ricerca. Per comodità, le linee interpretative sono state suddivise a seconda che presuppongano nella presenza dello stato una serie di rapporti e di manifestazioni tese a rafforzare e rendere operante l'autorità centrale, oppure vi intravedano la manifestazione di un sistema di dominio fondato sul rastrellamento di risorse materiali provenienti e prodotte dai settori soggetti della popolazione. Una terza linea interpretativa è invece rintracciabile in tutti quegli studi che si sono preoccupati soprattutto di definire l'incidenza dello stato sulla società, e hanno insistito perciò — sia pure con metodi e con risultati eterogenei — sulla capacità dell'apparato statale di influenzare i comportamenti e le attitudini di determinati gruppi sociali.


1. Una prima distinzione conduce a considerare tutti quei lavori che della presenza e della genesi dello stato hanno sottolineato l'elemento di centralizzazione e di monopolizzazione del potere da parte del sovrano e del personale della curia regis. Tale linea interpretativa, che senza dubbio ha attirato per prima l'attenzione degli studiosi, denota la sua stretta dipendenza dagli studi di matrice giuridica, o quantomeno dal linguaggio giuridico della documentazione che privilegia: essa infatti esalta in genere il ruolo del principe nella costruzione dello stato, e ne illustra l'opera nella duplice qualità di detentore da un lato della direzione della politica verso le potenze e autorità esterne all'area del dominio regio — che intende in questo senso come potenzialmente assoluto —, e dall'altro della responsabilità del governo nell'area interna del dominio [1]. Una simile impostazione del problema appare oggi come una conseguenza del paradigma della storiografia positivista. Questa, fondandosi principalmente sulla individuazione dei «fatti» quale piano dell'analisi che consente la maggior precisione filologica, finì, anche nei suoi esponenti più significativi, come L. von Ranke, con il privilegiare le matrici «esogene» della genesi dello stato: ad esempio, fattori esterni, quali la nascita tra Quattro e Cinquecento di un «sistema» europeo di stati, avrebbero determinato la crescita dell'apparato di potere necessario alla condotta della guerra e allo sviluppo della diplomazia. A tale accentuazione dei fenomeni e dei condizionamenti esterni al concreto rapporto tra i centri del potere sovrano e i territori su cui si esercitava l'imperium principesco, corrisponde curiosamente l'attribuzione delle competenze necessarie allo studio di quest'ultimo aspetto del problema a discipline settoriali in genere legate a una prospettiva giuridica. Questo paradigma, tipico di tanta parte della storiografia sullo stato del secondo Ottocento e della prima metà del nostro secolo, sottolineava dunque l'opera bisecolare di accentramento nelle mani del principe della capacità di presentarsi come «fonte» del diritto pubblico, e privilegiava con questo intento lo studio della diffusione e concreta reinterpretazione del diritto romano che caratterizza l'età umanistica: in realtà lo studio della formazione dello stato si esaurisce nella ricerca delle «costituzioni», vale a dire dei regimi giuridici e normativi nei quali l'autorità pubblica ha di volta in volta tradotto la propria superiorità politica [2].

L'accentuazione di questo piano dell'analisi conduceva — e conduce tuttora — a sensibili forzature interpretative e, da un altro punto di vista, lascia irrisolti problemi di estrema rilevanza. Le forzature vanno individuate nel costante sforzo di presentare l'assolutismo non solo come carattere «puro» del potere monarchico, ma più come realtà effettiva del governo che non come tendenziale propensione dell'autorità principesca. Un simile sforzo è largamente diffuso nella storiografia della prima metà di questo secolo, ed è rintracciabile ancora in opere di sintesi di vasta notorietà, come ad esempio quelle di Doucet e Zeller che, edite nel 1948, si presentavano come il bilancio di un secolo di studi giuridici sulla monarchia francese del secolo XVI [3]. Tipicamente, e sia pure con sfumature diverse, entrambe queste opere intendevano il quadro delle istituzioni monarchiche come ormai compiuto già all'inizio del secolo, ed erano perciò costrette a sottovalutare la gravità della crisi coincisa con le guerre di religione nel secondo Cinquecento, a farne una sorta di «parentesi» in un percorso già sicuramente tracciato.

In base a tale osservazione è possibile accennare ai problemi che il privilegiamento della tendenza all'accentramento lasciava irrisolti. Un primo, enorme problema è rappresentato dal rapporto tra l'organizzazione centrale del potere e il controllo concreto delle popolazioni, rurali e cittadine, che ne costituivano in qualche modo l'imprescindibile base fiscale. Nell'ambito interpretativo cui qui ci si riferisce, tale rapporto è stato risolto nel quadro della «monarchia per ceti», soprattutto da parte della storiografia tedesca. Da un lato, ad esempio in W. Näf, il rapporto viene irrigidito in un regime, cui si dà il valore di una vera e propria forma costituzionale di natura dualistica, alla quale si attribuisce il carattere di una prima configurazione dello stato moderno. In essa, accanto al sovrano, i ceti e le loro istituzioni rappresentative fungono da correlativi della monarchia, nel senso che questi ultimi vengono a rappresentare il paese, mentre insieme col principe giungono a formare lo stato. In altri casi, come Otto Brunner, si dà al problema una soluzione «illiberale», nel senso che si fa delle istituzioni cetuali non tanto la rappresentanza del paese, bensì la sua presenza diretta, stabilendo una sorta di identificazione tra «società» e «stato» per ceti. Dall'altro lato, come in F. Hartung, si risolve la questione in termini antitetici: è semplicemente la debolezza finanziaria del principe ad aver aperto ai ceti e alle loro istituzioni rappresentative uno spazio giuridico-politico mai autonomo ma prodotto dalle circostanze, e quindi non rilevante dal punto di vista costituzionale come un potere dello stato. Le formulazioni radicali di Hartung esasperano in ogni caso la precedente e più articolata impostazione del problema datane da Hintze, secondo cui alla base della formazione dello stato andrebbe individuato un «principio monarchico-cetuale», con il quale si riconosce l'apporto dei ceti territoriali alla costruzione del potere centrale, ma se ne accentuano al tempo stesso le possibilità manipolatorie da parte del principe. La posizione di Hintze è perciò importante per una duplice formulazione, che lascia aperti esiti interpretativi divergenti dalla linea qui seguita, incarnati dalle ricerche di G. Oestreich: nella prospettiva di quest'ultimo, il sistema per ceti non va compreso immediatamente all'interno del «Principato», come per Hintze, ma va colto insieme a un «processo di formazione dello stato» dalle implicazioni più vaste. Ciò implica l'individuazione, alla base, di un duplice processo di differenziazione: «Il piano su cui si compì nel modo più evidente la formazione dello stato fu quello superiore, costituito dalla corte principesca, dall'amministrazione territoriale centrale [...]. A questa concentrazione monarchica a livello centrale, alla riunione di tutte le funzioni e forze rappresentanti il complesso statuale del tempo, non corrispondeva affatto l'organizzazione locale. Sul piano inferiore [...] i ceti dei territori una volta autonomi divennero molto attivi come poteri "particolari" a livello provinciale».

Dunque, le istituzioni cetuali costituiscono un elemento di formazione dello stato contrapposto a quello principesco (impostazione di carattere ideologicamente liberale che ne faceva i prodromi del moderno parlamentarismo), oppure rappresentano paternalisticamente lo stato, oppure ancora costituiscono semplicemente una «pausa» del potere principesco, o sono da intendere come l'esito di un processo formativo dello stato che relegava le autorità locali all'esercizio della preminenza provinciale. Nonostante l'esistenza di queste posizioni alternative, in ogni caso ai ceti e alle loro istituzioni non si attribuiscono, in sé, caratteri dinamici, capaci di incidere sugli ordinamenti costituzionali. Semmai si può più o meno nostalgicamente affermare la bontà primigenia dell'istituzione, ma in ogni caso se ne fa un elemento della «tradizione», tutt'al più capace di esprimere resistenze e contrasti in una prospettiva che D. Gerhardt ha chiamato «regionalistica», contrapponendola a quella più naturalmente «nazionale» del principe. In altri ambiti culturali, quali quello anglosassone, questa consapevolezza ha dato origine a contributi rilevanti che, pur con toni peculiari, paiono esasperare i rischi impliciti di una simile impostazione del problema in termini di «dinamicità intrinseca» dell'organizzazione principesca del potere. I rischi emergono con chiarezza nel lavoro di uno storico inglese, G. Elton, che nel secondo dopoguerra ha avanzato un'ipotesi sullo sviluppo dell'amministrazione inglese consistente nell'accentuazione della sua connotazione di apparato-macchina. Per Elton lo studio in termini non tanto costituzionali, quanto piuttosto «istituzionali» (centrati quindi sui metodi e i funzionamenti dell'amministrazione finanziaria e sulle trasformazioni dell'apparato burocratico) del periodo Tudor consentiva di individuare il passaggio dal controllo personale del re all'organizzazione burocratica dello stato, l'adozione tra 1530 e 1550 di metodi burocratici nazionali contrapposti ai metodi quasi informali del governo domestico medievale. Il modello di indagine di Elton spostava i temi di ricerca dalla «costituzione» (cioè da un regime) alle trasformazioni «strutturali» interne allo stato. Questo, dunque, viene inteso come mero «apparato» e sono perciò le sue articolazioni interne, intese nel senso di specializzazioni, definizioni e settorializzazioni progressive, a costituire le spie di un mutato assetto costituzionale, e in ultima analisi a proporsi come elementi di individuazione di mutamenti nei rapporti tra società e stato. La proposta di Elton, nonostante l'imponente mole di lavoro documentario, si adeguava tuttavia agli schemi sociologici alquanto rigidi elaborati da Talcott Parsons, e al momento della pubblicazione in gran voga nella cultura anglosassone: questi identificano la «società tradizionale» in una rigida sovrapposizione di ruoli e di funzioni — quali, ad esempio, giustizia e amministrazione — e in una dominante segmentazione territoriale dei rapporti, e indicano il passaggio alla «società moderna» nella mera settorializzazione e specializzazione delle espressioni collettive della vita sociale. In base a questi presupposti, solo implicitamente espressi da Elton, si stravolge l'interpretazione del sistema politico dei Tudor, che la storiografia costituzionale aveva qualificato come dittatoriale in contrapposizione all'autogoverno del secolo precedente, o come autocrazia in una struttura già parlamentare. Al di là dei contenuti, è tuttavia l'indicazione di metodo ad apparire rigida e vincolante: con lo studio funzionale dell'amministrazione si attribuiscono all'accentramento monarchico non solo innegabili attitudini dinamiche, ma le si connotano con caratteri cui si dà il valore di discriminanti della modernità ignorando gli elementi di potere insiti nelle trasformazioni accennate.

Ancora recentemente questa accentuazione è stata ripresa a proposito della genesi e dell'evoluzione della monarchia spagnola da J. Antonio Maravall in Estado moderno y mentalidad social. Qui il potere assoluto del principe non è solo assunto quale novità della società nell'epoca moderna, ma è colto in un'accezione esclusivamente razionalizzatrice, nel senso che determina attraverso la diffusione della burocrazia comportamenti omogenei e uniformi sul territorio, attraverso i quali si sviluppa uno «spirito pubblico» proto-nazionale che supera i particolarismi della costituzione monarchica medievale. Tale spirito pubblico proto-nazionale e la burocrazia che lo incarna sono ancora una volta intesi come immediati e univoci parametri di una «mentalità sociale» moderna, mentre le manifestazioni della vita sociale e degli ideali politici che la esprimono ne costituiscono le mere basi di supporto e sostegno: così la rivolta dei comuneros, anziché una reazione all'accentramento statale, può assumere i contorni di una «prima rivoluzione moderna» giacché è informata a istanze di rivendicazione di autonomia proto-nazionale diretta contro il personale fiammingo che circondava il nuovo sovrano spagnolo Carlo d'Asburgo.

Appare evidente quindi come il rischio delle interpretazioni unilateralmente fondate sulle strategie accentratrici del principe sia costituito da una concezione della modernità che sottovaluta gli elementi di potere connessi al processo accentratore. È significativo inoltre che tali interpretazioni finiscano col sottovalutare la portata dei contributi della storiografia economica e sociale. Nel caso di Maravall appare evidente la sottovalutazione di quei lavori che, a partire dalla monumentale opera di Ramon Carande sulla finanza di Carlo V, hanno sottolineato come nelle riforme e nelle «razionalizzazioni» dei sistemi di rastrellamento del surplus vadano individuate concrete strategie di monopolizzazione del potere da parte del sovrano, e dietro la sua azione vadano colti precisi gruppi sociali, i finanzieri tedeschi, genovesi e castigliani, che di tale accentramento temporaneamente traggono i vantaggi economici e sociali.

Queste osservazioni non implicano evidentemente la negazione dell'accentramento, o degli elementi di modernità contenuti in esso: soltanto, e alla luce delle esperienze storiografiche più recenti, la sua comprensione non può prescindere dalla valutazione del suo significato sociale. Così, l'esemplare ricerca di Stone sulla crisi dell'aristocrazia inglese — pur proponendosi quale lavoro di storia sociale ispirato a metodologie innovative, e riflettendo un profondo rinnovamento della storiografia anglosassone — possiede implicazioni che hanno permesso di riformulare il significato stesso dell'accentramento principesco. Questo si configura piuttosto come un processo di monopolizzazione della violenza e di assunzione diretta da parte dell'apparato statale degli strumenti di controllo dell'ordine sociale col quale si è operata una profonda trasformazione nella natura, nella funzione e nel peso politico ed economico di un preciso gruppo sociale, i pari della Corona inglese: una ricerca apparentemente esterna ai meccanismi propri del governo si rivela così capace di illustrare meccanismi di fondo insiti nella creazione di un potere centrale sufficientemente saldo e articolato.

La tendenza a identificare nell'accentramento principesco delle funzioni del governo più una tendenza alla monopolizzazione del potere e della violenza che non la nascita della moderna burocrazia funzionale è oggi largamente diffusa tra gli storici dello stato, e ha rappresentato una indicazione di ricerca piuttosto feconda. In questa direzione si sono rinnovati ad esempio gli studi sulla nascita degli eserciti moderni compiuti da Kiernan, da Roberts per lo stato svedese, da Parker per quello spagnolo, nonché da quelli, di impostazione più sociologica di Contamine e Corvisier per la Francia; tutti ne accentuano il significato di imposizione dell'ordine e della costruzione, nello sviluppo della potenzialità repressiva, del centro sovrano del potere. Non è quindi tanto la razionalità della costruzione quella che importa, quanto piuttosto il fatto che l'istituzione di un apparato delegato alla gestione della violenza non avvenga senza ripercussioni sociali di straordinaria portata. Problemi quali il vettovagliamento di enormi masse di uomini, oppure la gestione dell'ordine all'interno stesso della nuova istituzione, e soprattutto l'impossibile convivenza con le popolazioni contadine costrette a sobbarcarsi l'onere del suo mantenimento consentono oggi di verificare come esercito e guerra abbiano davvero rappresentato nel corso dell'ancien régime il flagello più grave per le popolazioni soggette.

E del resto la costante presenza di fenomeni di ammutinamento — basti pensare alle vicende dell'esercito spagnolo nelle Fiandre — suggerisce l'ipotesi che la presenza dello stato, da questo punto di vista, si configuri in sostanza come l'assunzione della sfera del disordine entro gli ambiti medesimi della giurisdizione regia. Si attuerebbe così una duplice spirale: mentre da un lato il monopolio della violenza attribuisce alla stessa sfera dell'amministrazione regia la responsabilità del disordine, dall'altro questo medesimo processo produrrebbe un incremento della centralizzazione: in questi termini la trasformazione della nobiltà feudale in aristocrazia appare doppiamente legata al rafforzarsi dell'apparato — anche repressivo — dello stato, mentre la repressione delle forme, a partire da questo momento illegali, della violenza nobiliare, quali il duello, rappresenta l'esito di un conflitto più politico che «culturale».

Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che la monopolizzazione della violenza abbia colpito e abbia determinato la semplice emarginazione di specifici gruppi sociali. Solo di recente si è tentato di valutare le implicazioni più vaste del processo di centralizzazione che il monopolio presuppone: è stata così suggerita una lettura della formazione dello stato nei termini della creazione di una serie di «colonie interne», periferiche, generate dal rafforzarsi di un nucleo centrale di dominio e caratterizzate dal persistere di forti e oggettive identità culturali: quelle che F. Braudel ha chiamato le «Americhe interne». Questo punto di vista è stato sviluppato da Michael Hechter [4] a proposito dell'espansione territoriale dello stato inglese e dell'imposizione della sua autorità sulle popolazioni delle aree di più tarda incorporazione a partire dal secolo XVI. Lungi dal generare integrazione culturale tra le popolazioni del nucleo centrale e quelle di recente conquista tale contatto avrebbe anzi determinato una strategia di allocazione delle risorse da parte del centro tesa a contenere il potere politico dei gruppi periferici relegandoli ai più bassi livelli della stratificazione sociale. La diseguale distribuzione delle risorse, che Hechter ha tentato di misurare, si sarebbe tradotta nella percezione di una ben precisa identità etnica da parte dei gruppi periferici e nella resistenza ai modelli politici ed economici di organizzazione sociale tipiche del nucleo centrale. La resistenza di lingue e culture che oggi tendiamo a classificare come «residuali» (aree celtiche in particolare) sarebbe così il prodotto di «piccole nazionalità» cui la formazione dello stato moderno impedì di svilupparsi, come quella bretone, basca, andalusa o irlandese, e che nondimeno i nuclei centrali dei rispettivi conquistatori non riuscirono a inghiottire totalmente. Inversamente, la formazione dello stato nazionale può essere intesa come il riuscito tentativo da parte dei gruppi dominanti del nucleo centrale di stabilizzare a proprio vantaggio una politica che mirava a istituzionalizzare e perpetuare un sistema di stratificazione, sociale e culturale.

2. La considerazione dei problemi di accentramento nei quali si incarna la formazione dello stato, soprattutto se espressa come monopolizzazione della violenza e dell'ordine da parte delle autorità sovrane, fa emergere con chiarezza come la forma politica dello stato moderno, e soprattutto nella sua fase assolutistica, possa esser considerata come un sistema di dominio. Al di là della violenza fisica, che può venir intesa come una sua manifestazione estrema, lo stato appare chiaramente come un sistema fondato sulla coercizione, da quella giuridica a quella fiscale.
Nello stesso tempo, però, si fa notare come la presenza dell'apparato statale accompagni quasi ovunque la transizione da una società rurale feudale a una società capitalistica. Questa premessa comune ha dato tuttavia luogo a esiti interpretativi divergenti a seconda delle categorie impiegate per analizzare l'estrazione di tali risorse dalle campagne e il possibile legame tra presenza dello stato e comparsa di strutture capitalistiche di produzione.
Da un lato infatti gli studiosi di formazione marxista hanno insistito — in particolare negli anni cinquanta [5] — sulla riconducibilità immediata di tali fenomeni entro la nozione marxiana di «modo di produzione», della quale hanno in genere fatto una categoria storica interpretativa dello stato moderno e della sua fase assolutistica: ciò pare consentire la traduzione diretta di un sistema economico in un sistema di dominio, e rende perciò possibile leggere la natura e la funzione dello stato in termini di classi o di fronti di classi. È chiaro in ogni modo che tali letture implicano in genere un rapporto univoco tra una dimensione «strutturale» della vita sociale — espressa dai concreti rapporti di produzione — e una dimensione politica di forme istituzionali, regimi e modi di governo che si è costretti a comprendere in una categoria invece «sovrastrutturale». Ciò è vero per le posizioni più importanti emerse dalle discussioni sul ruolo dello stato nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. Se in genere tutte partono dall'assunzione dell'esistenza di un «modo di produzione» feudale nel periodo di formazione dello stato moderno, esse si differenziano per il diverso ruolo e peso attribuito ai settori mercantili presenti nella società. Una prima posizione, rappresentata dallo storico inglese Christopher Hill [6], pur sostenendo che lo stato assoluto rappresenta un elemento essenziale per analizzare la transizione dal feudalesimo al capitalismo, afferma che esso si è sviluppato in presenza di una continuità della classe dominante, che resta sostanzialmente la stessa per tutto il periodo moderno, e va identificata con l'aristocrazia feudale. Le differenze tra le formazioni politiche feudali e lo stato monarchico non eliminano affatto la continuità del dominio di classe e possono esser considerate come differenze di forma, allo stesso modo delle differenze tra repubblica, monarchia costituzionale e dittatura fascista, che non ne inficiano la comune compatibilità con il dominio di una sola classe, la borghesia. Pur nella sua rigidità, tale schema interpretativo ha dato luogo a ricerche di grande rilievo, come quelle dello storico sovietico B. Porsnev sui cicli di rivolte contadine e popolari nella Francia del Seicento, dove i comportamenti politici dei movimenti di ribellione vengono ricondotti all'esistenza di un «fronte di classi» dominato dalla nobiltà, che costituiva la base sociale dell'assolutismo, e dal dominio della rendita feudale, gestita o meno dall'autorità statale [7].

Più di recente una simile identificazione diretta tra stato assoluto e modo di produzione feudale è stata esposta da Perry Anderson [8], con maggiore articolazione e in un tentativo di lettura globale della formazione degli stati europei tanto orientali quanto occidentali. La costruzione dello stato costituirebbe il riuscito tentativo dell'aristocrazia — dopo la crisi conosciuta in seguito alla dissoluzione della servitù nelle campagne — di ripristinare e reimpiegare l'apparato di dominio feudale allo scopo di respingere le masse contadine nella loro posizione sociale tradizionale: in altri termini lo stato non rappresenterebbe che la «nuova crosta politica di una nobiltà minacciata». Nonostante la continuità di fondo, il processo di formazione dello stato impone secondo Anderson cambiamenti rilevanti alla forma del domino politico: in sostanza, questi si traducono in uno slittamento verso l'alto dell'oppressione giuridico-politica — prima detenuta localmente dall'aristocrazia —, in direzione cioè di un vertice accentrato e militarizzato. Tale processo, comune a tutto il continente, dà luogo a esiti divergenti a seconda del ruolo e del peso delle città e dei loro gruppi dirigenti. Ciò non impedisce tuttavia allo stato — almeno nella parte occidentale del continente — di svolgere talune funzioni parziali nel processo di accumulazione capitalistica: Anderson afferma infatti che vi fu sempre un «margine di compatibilità» potenziale tra la natura e il programma dello stato assoluto e le attività del capitale mercantile e manifatturiero.

Le asserzioni di Anderson cercano di fatto di risolvere in modo reciso un dilemma interno alla storiografia marxista, originato da un'affermazione di Engels secondo la quale, in periodi «eccezionali», come l'ancien régime, le classi in lotta hanno forze pressoché uguali, e il potere statale può presentarsi come mediatore relativamente autonomo rispetto a esse. Questa concezione dello stato assoluto ha avuto il merito di attribuire un ruolo specifico alla presenza dello stato, e di fatto consente una maggior applicazione nella ricerca, che si rivolge così ai rapporti tra borghesia e nobiltà, e alla loro influenza sulla genesi del modo di produzione capitalistico.

Al di là della discussione sui contenuti, occorre in ogni caso sottolineare come negli anni cinquanta e sessanta la storiografia marxista abbia dato un contributo fondamentale alla conoscenza dello stato moderno. Questo soprattutto dal punto di vista dell'ampliamento dei temi: in primo luogo le rivolte popolari, che anzi hanno assunto da quel momento la funzione di un «classico» della storiografia sullo stato, e anche in studiosi di formazione non marxista come Mousnier o Elliott, oppure con ricerche meno dipendenti dalla concezione dogmatica del rapporto struttura-sovrastruttura, come nel caso di Rosario Villari, che ha inserito la genesi della rivolta antispagnola a Napoli nel quadro più vasto, anche se ancora orientato teleologicamente, della crisi generale del Seicento; in secondo luogo i contributi della Lublinskaja hanno condotto a un ripensamento della funzione della politica mercantilistica.

Accanto a ciò vanno tuttavia segnalati alcuni limiti di questo filone di ricerche, ancora troppo preoccupato di riportare in modo diretto i risultati della ricerca nell'ambito della storia politica: non solo nel senso che si privilegiano accadimenti e processi sviluppatisi negli immediati dintorni del sovrano e dei suoi consiglieri diretti, ma soprattutto nel senso che scopo fondamentale della ricerca resta quello di ricondurre i processi sociali dell'Europa di ancien régime allo scontro politico che ne rappresenta il momento culminante e allo stesso tempo la premessa del superamento, la rivoluzione francese.

A partire dalla metà degli anni sessanta, invece, l'attenzione della storiografia marxista, soprattutto occidentale, pare essersi — non senza fatica — allontanata dal privilegiamento nella ricerca storica della nozione di «modo di produzione» nei termini sopra definiti, e pare aver preso a considerare come centrali i processi di mutamento sociale di cui le campagne sono state teatro nell'epoca di transizione. Così, ad esempio, si è preferito spostare il centro dell'analisi ai rapporti sociali nelle campagne — cruciale è stato qui l'accento posto con la nozione di «rifeudalizzazione» sui rapporti tra contadini e le varie specie di signori fondiari presenti nelle campagne europee — oppure dirigere la ricerca ai rapporti tra campagne e città, tra campagne e stato (quest'ultimo tema meno frequentemente). Ciò non è avvenuto in modo automatico; anzi, sarebbe stato impensabile senza una serie di apporti di studiosi provenienti da scuole solo parzialmente legate al marxismo, e, piuttosto, legati alle esperienze delle scienze sociali «liberali» contemporanee, dalla sociologia alla scienza politica, dalla storia alla teoria economica.

La stessa storiografia marxista ha elaborato, soprattutto per merito dei suoi esponenti statunitensi, più aperti a un confronto con le scienze sociali «liberali», strumenti di analisi più agili per cogliere i nessi tra formazione dello stato e i processi di modernizzazione dell'economia. In B. Moore jr. [9], ad esempio, lo stesso concetto di rivoluzione borghese viene usato in modo comparativo, e non più inserito in un approccio lineare, dipendente dal passaggio o meno da un modo di produzione all'altro. Infatti lo sviluppo della democrazia borghese non costituirebbe l'esito necessitante dei processi di mercantilizzazione dell'agricoltura, ma andrebbe costantemente collegato ad altri fattori, quali l'istituzione di un equilibrio tra le classi che impedisca l'affermazione di una monarchia troppo forte — qui intesa come un ostacolo alla modernizzazione — o un'aristocrazia terriera troppo indipendente, oppure infine la forza e la capacità di attrazione di una borghesia mercantile. Gli esiti divergenti dell'evoluzione storica di grandi paesi europei come Inghilterra, Francia e Prussia, se posti a confronto con lo sviluppo politico di alcuni paesi asiatici, secondo Moore, rivelano semmai come una categoria interpretativa sostanziale e un oggetto di analisi prioritario siano costituiti non tanto da astratti «modi di produzione», quanto piuttosto dai concreti orientamenti economici delle «classi rurali dominanti», e dall'insieme dei loro legami con l'apparato statale, con le classi mercantili urbane e con l'insieme della popolazione contadina. L'approccio di Moore invita a un rilevante allargamento dell'oggetto di analisi, e a una decisa critica dei legami di causalità tra struttura economica e sovrastruttura politica; il problema dello sviluppo economico non è suscettibile di soluzioni in chiave di storia politica o settoriale; non si tratta neppure di parlare di astratte linee di tendenza, ma di accettare l'importanza del contesto sociale e politico al cui interno taluni mutamenti si manifestarono, e di prepararsi a studiarli empiricamente.

Di fatto l'invito di Moore è stato raccolto solo parzialmente, e ha dato vita, più che a ricerche sul campo, a importanti tentativi di messa a punto storiografica nei quali lo stato viene inteso come apparato estrattore di surplus dalle campagne ed esaminato come una variabile del processo di sviluppo dell'agricoltura capitalistica. Un esempio è senza dubbio costituito dal saggio di R. Brenner sulla struttura di classe nelle campagne europee tra Quattro e Seicento, che ripropone in modo comparativo un modello di analisi tripolare, in base al quale lo sviluppo di agricolture capitalistiche rappresenta l'esito composito di un processo che a partire dalla crisi del sistema feudale vede contadini, signori e autorità statale comportarsi come variabili indipendenti.

Un secondo esempio è poi costituito da un ambizioso tentativo di I. Wallerstein riferito al periodo 1450-1640 nel quale, se il problema centrale è rappresentato, come per Brenner, dalla genesi dell'economia moderna, questa viene tuttavia colta non tanto nei rapporti sociali nelle campagne, o comunque nelle sue radici endogene, ma piuttosto nella formazione, distribuzione e funzione di un mercato internazionale all'indomani della crisi del feudalesimo. Per Wallerstein infatti, l'uscita da tale crisi consiste nello sviluppo di un'economia capitalistica, cioè di una forma di appropriazione del surplus fondata su una produttività maggiore e più estesa attraverso un meccanismo di mercato mondiale e con l'aiuto «artificiale» di organizzazioni statali, nessuna delle quali controlla interamente, almeno fino al 1650 circa, il mercato mondiale. In questa chiave, la creazione di organizzazioni statali relativamente forti costituisce una componente essenziale nello sviluppo del capitalismo moderno: un piccolo mutevole gruppo di stati perviene a egemonizzare le transazioni commerciali, organizzare la produzione artigianale e industriale e sospinge aree periferiche verso un'organizzazione dei rapporti di produzione funzionale alla monocoltura. L'apparato statale viene così inteso come un'organizzazione del tutto funzionale all'estrazione generalizzata del surplus da periferie eterogenee, ma non costituisce in verità l'asse intorno al quale si consolida il sistema di dominio di una classe su un'altra: le classi infatti vengono definite più giustamente a partire dai trasferimenti di surplus dalle periferie al centro del sistema economico mondiale. Questa impostazione non è però esente da limiti. Si sottovaluta infatti il peso dei fattori endogeni, che vengono intesi in senso del tutto tradizionale, e si esamina, a fatti compiuti, la funzionalità di una unità politica al grado occupato nella gerarchia espressa dai processi di formazione dell'economia-mondo. Al massimo, lo stato svolge la duplice funzione di estrattore di surplus dalle campagne e di «moltiplicatore economico» attraverso istituzioni, quali l'esercito, che stimolano la domanda di moneta e di vettovaglie, oppure ancora quella di trasformare le popolazioni soggette in gruppi culturalmente omogenei. In tal modo lo stato assume un segno tutto positivo, poiché per definizione si trova in un'area la cui posizione gerarchica è già ricavata dai flussi di beni che caratterizzano il sistema nella sua totalità. In definitiva la spiegazione viene demandata interamente alla categoria del «mercato», e si abbandonano, per quanto riguarda lo stato, le indagini sui fattori endogeni, che invece caratterizzano tentativi di sintesi in chiave storico-economica, quali quella di North-Thomas, secondo cui il ruolo degli apparati statali tra Cinque e Settecento consisterebbe nella capacità di limitare il peso delle «diseconomie» che ostacolano la formazione del mercato (protezione dei commerci, tutela dei diritti di proprietà, ecc.) [10].

Una lettura comparativa della genesi dello stato moderno in Europa attenta insieme ai fattori endogeni e alla presenza di un «sistema» di unità politiche operanti nel continente è stata invece tentata da un gruppo di storici e sociologi coordinati da Charles Tilly, in sintonia con quella voga delle grandi sintesi che ha contraddistinto la storiografia degli anni a cavallo tra sessanta e settanta (B. Moore, North-Thomas, Brenner, Tilly per la cultura americana, Durand, Goubert, Richet, Salmon, Poggi e Anderson per quella europea) [11]. Nel caso della formazione degli stati nazionali, l'estrazione di risorse da parte del potere centrale viene assunta come meccanismo di fondo che consente lo sviluppo di un apparato amministrativo, i cui singoli campi di attività vengono esaminati in termini di funzioni correlate e in un periodo di tempo piuttosto lungo (1500-1800), ma con particolare riguardo per quella che viene identificata come la «fase cruciale» della genesi dello stato, che si afferma a partire dalla metà del secolo XVII. Gli elementi centrali del discorso — complesso e articolato — del libro sono essenzialmente tre. A partire da una definizione di stato largamente influenzata dalle scienze sociali contemporanee (esso viene inteso come l'organizzazione di personale specializzato volta a controllare un territorio determinato, dotata di autonomia, centralizzata e sempre più strutturata in settori reciprocamente coordinati), si esaminano l'alto costo della costruzione dell'apparato, il ruolo dell'esercito e della guerra in un «sistema» di forme statali diversificate, alla luce delle teorie dello «sviluppo politico». In questo contesto analitico è di particolare peso il momento dell'estrazione delle risorse dalla periferia. Infatti, si sostiene, l'operazione fondamentale che ha consentito, pur nella sostanziale diversità degli esiti, l'emergere di forme politiche statuali, è consistita nel superamento delle precedenti strutture decentrate del potere attraverso l'estrazione diretta e sistematica di risorse dalle comunità rurali; si intende cioè che il potere dello stato si sia sviluppato a partire dalla distruzione delle popolazioni contadine europee, e dal soffocamento delle resistenze da ciò innescate. Si sottolinea in sostanza come la presenza estensiva dello stato fosse incompatibile con la tradizionale organizzazione politica delle campagne europee. Essa è potuta emergere solo al prezzo dell'introduzione di forme di commercializzazione del prodotto agricolo capaci di facilitare il flusso di risorse verso i centri del governo. In tal senso (distruzione della popolazione contadina e commercializzazione) la costruzione dello stato va intesa come una delle conseguenze della nascita di rapporti di produzione capitalistici, in particolare nelle campagne. Esiste dunque una connessione tra la nascita di stati nazionali e l'espansione del capitalismo agrario, ma si tratta di una connessione non immediata e ineluttabile, nel senso che le zone urbane e commerciali dell'Europa non vedono la formazione di apparati statali e taluni di essi, quali Francia e Spagna, si sviluppano in regioni rurali non capitalistiche. Piuttosto, tale connessione investe due aspetti di fondo: da un lato l'espansione del capitalismo agrario libera risorse sfruttabili da parte dei responsabili del governo, mentre dall'altro la nascita di poli industriali dà luogo a mercati agricoli che possono esser sfruttati dai grandi proprietari fondiari, in congiunzione di interessi con l'apparato statale, al fine di mantenere l'ordine sociale sulle popolazioni rurali.

Vi è quindi il tentativo di utilizzare le categorie fin qui esaminate nel senso della determinazione delle condizioni dello sviluppo politico, in un percorso che va dallo «stato» alla «nazione», cioè alla partecipazione dei sudditi alla struttura formale del potere. La riflessione del gruppo di Princeton ha il merito di muoversi in campo comparativo, anche se non pare immune da certe tentazioni causalistiche; di fatto individua problemi — quali il peso della dimensione degli eserciti, la relazione tra struttura dell'imposta e sviluppo economico, o istituzioni cruciali quali l'annona e il vettovagliamento — che sollecitano ricerche attente alla interrelazione funzionale tra istituzioni e società. Tuttavia l'ottica è indubbiamente viziata da un'eccessiva astrazione delle categorie di analisi, e risente in modo negativo di una marcata rigidità della concezione dello stato fondata sulla sua intrinseca incompatibilità con la società rurale. Come tutti i lavori tesi a sottolineare l'attività di prelievo e di rastrellamento di risorse che sta alla base della formazione dello stato, e che abbiamo qui cercato di raggruppare, esso ha il pregio di individuare meccanismi economici e sociali profondi alla radice del «fenomeno stato», sia pur diversamente interrelati. Tale approccio ha tuttavia il limite di arrestarsi ad analisi condotte per «grandi aggregati»: classi, sistemi, ecc.; ma soprattutto considera gli apparati statali, per via della loro incompatibilità con l'economia rurale tradizionale, come immediatamente funzionali a processi di lungo periodo che tutto sommato li trascendono e finiscono per agire come forze immanenti.

I tentativi di esaminare la funzione estrattiva dell'apparato statale come una variabile indipendente, priva tuttavia di implicazioni teleologiche, paiono contraddistinguere la sporadica attenzione dedicata dalla storiografia economica e sociale delle «Annales» alla genesi delle forme statuali dell'Europa moderna. Tali interventi sono in ogni caso eterogenei, anche se condividono la propensione a «situare» la presenza delle istituzioni centrali nel tempo lungo e in contesti regionali, nel tentativo di misurarne l'incidenza sulla struttura sociale locale. Questa tendenza smentisce le indicazioni della grande ricerca di Fernand Braudel sul Mediterraneo nell'epoca di Filippo II, nella quale si propone invece una contrapposizione tra gli «stati mediani» — la Francia di Enrico IV, l'Inghilterra di Elisabetta, l'Olanda, la Toscana, i principati tedeschi — e i grandi imperi dominatori del secolo XVI. Una simile contrapposizione si fonda sulla diversa capacità della prima forma di struttura statale di organizzare le proprie finanze rispetto alla rapacità dissanguatrice dei secondi. Ma qui la funzione estrattiva viene individuata in relazione al reperimento delle finanze, e l'elemento cruciale è costituito dalla destinazione del metallo prezioso proveniente dalle Americhe, nonché dal rapporto tra stato e capitalismo commerciale. Al di là di questa tipologia la ricerca di Braudel insiste su un processo fondamentale alla base della formazione dello stato, che ha ormai assunto il valore di una vera e propria categoria interpretativa, e che si può condensare nella formula del «tradimento» della borghesia cinquecentesca, del venir meno cioè degli uomini d'affari alle premesse e alle promesse sociali e culturali del proprio gruppo sociale a causa dell'attrazione su di essi esercitata dall'entità dei profitti consentiti dal finanziare la nuova impresa statale: sono gli stati, dice Braudel, i veri «imprenditori» del secolo XVI.

L'accezione quantitativa e monetarista del peso dello stato è stata di recente ripresa ed esasperata da P. Chaunu, nella sezione dedicata allo stato della Histoire économique et sociale de la France, come parametro di una storia «seriale» dello stato: momento cruciale diventa il raggiungimento da parte dell'apparato statale di una dimensione — un volume — tale da consentire a esso un'evoluzione autonoma dalla congiuntura economica. L'autore cerca non senza forzate approssimazioni di valutare tale dimensione attraverso il volume d'argento richiesto dal mantenimento del personale effettivo, in una parola il suo costo metallico; essa corrisponde ai passaggio dall'esile struttura dell'apparato della giustizia alla massa ingombrante e costosa dei suoi apparati amministrativi e fiscali. Con la svolta degli anni trenta del Seicento, durante la quale lo stato avrebbe quintuplicato secondo Chaunu il drenaggio di risorse e uomini, si sarebbe costretto un «meccanismo mediocremente produttivo» quale l'economia rurale francese, a funzionare al limite delle proprie possibilità produttive.

Accanto alle impostazioni quantitativiste, vanno segnalati i tentativi di leggere le implicazioni sociali della presenza statale a partire dai movimenti congiunturali della popolazione, dei prezzi o delle finanze regie. Sul primo caso, che contraddistingue i lavori di P. Goubert, torneremo più avanti; la misurazione delle finanze regie — delle entrate come delle direzioni di spesa — è stata invece tentata di recente da un gruppo di ricerca coordinato da J. Bouvier. Sulla base dei dati forniti dalla storia dei prezzi e in particolare dei prezzi dei cereali, J. Meuvret ha invece sviluppato interessanti linee di ricerca sul ruolo della regolamentazione statale del commercio dei grani nella formazione del mercato nazionale e sulle preoccupazioni annonarie che contraddistinguono il regno di Luigi XIV.

In conclusione di questo discorso, dunque, si può osservare come la linea interpretativa che privilegia l'attività di prelievo del surplus operata dallo stato e dagli uomini che lo rappresentavano si stemperi in una serie di letture scarsamente omogenee. Da un lato infatti lo stato viene inserito in una continuità diretta e immediata con il modo di produzione dominante e la sua lettura avviene sulla base della riduzione delle forme di estrazione delle risorse entro la categoria della rendita. Da un altro lato si tende invece ad accentuare l'incompatibilità di fondo tra la struttura economica e sociale delle campagne europee e la costruzione di costosi apparati statali. Altrove se ne può invece sottolineare la compatibilità all'organizzazione di determinati sistemi di dominio, ma in tal modo si deve far ricorso a nozioni «esterne» quali il mercato internazionale, i flussi di surplus tra unità politiche periferiche e centrali, ecc. Infine i tentativi di valutare il «peso» dello stato sulla società in modo non anacronistico hanno messo in luce un rapporto non diretto e causale tra costruzione dell'apparato statale e congiunture economiche e demografiche. Quel che resta aperto, tuttavia, è un problema di fondo: se sia possibile considerare lo stato nella sua concreta e autonoma interazione con la società complessiva nella quale si genera ed evolve.


3. L'immagine dello stato come sistema di dominio è infatti destinata a mutare se non si sottovalutano i concreti comportamenti dei protagonisti, e soprattutto delle vittime generate dal suo sviluppo. Sia che si tratti delle rivolte politiche contro la monarchia spagnola e la sua strategia di castiglianizzazione delle unità politiche periferiche, studiate da Elliott, Dominguez Ortiz e Jago; sia che si considerino i movimenti antifiscali dei contadini e degli strati popolari urbani nel «lungo» Seicento francese, come hanno fatto Porsnev, Mousnier e altri sulla loro scia [12]; sia che si abbiano in mente i gruppi di popolani inglesi alle prese con gli accaparratori di grano e gli accorpatori di terre protetti dalla regolamentazione statale o dal patronaggio di corte, studiati da E. P. Thompson [13]; una costante emerge con chiarezza: le forme alle quali tutti paiono reagire costituiscono ai loro occhi modi «distorti» di appropriazione e di redistribuzione della ricchezza sociale, ai quali si cerca di imporre pragmaticamente un corso più consono alla moralità politica diffusa a livello popolare. Fulcro invocato di queste «riforme» è senza dubbio il sovrano, che viene immaginato all'oscuro delle «distorsioni», e per il quale le gesta dei ribelli vogliono costituire un avvertimento e una richiesta di benevolo appoggio. Ciò che si sollecita sembrerebbe dunque non tanto una cessazione dell'estrazione di risorse, quanto piuttosto — e paradossalmente con maggior concretezza — l'istituzione di un loro più equo flusso dalla periferia al centro, ma anche, di converso, dal centro verso la periferia.

Queste considerazioni non vogliono suonare come un invito a cogliere le immagini popolari dello stato separatamente dal concreto apparato del potere sovrano. Al contrario, vogliono rendere esplicita un'insoddisfazione di fondo. Se è vero che la costruzione dello stato comporta aspetti di coercizione, che hanno colpito in modo differenziato sia la grande massa delle popolazioni rurali europee, è altrettanto vero che l'apparato statale, nelle sue diverse forme storiche, ha saputo generare crescenti consensi. Tale considerazione chiama in causa una sua funzione precisa, che può essere meglio compresa come funzione redistributiva, nel senso che esso, accanto alle forme di prelievo cui si è accennato, riesce a operare un ricambio delle gerarchie sociali attraverso un movimento di risorse che dal centro, in modi svariati e selettivi, torna verso le unità sociali periferiche [14].

Tale funzione redistributiva è stata finora intesa soprattutto — secondo un'ottica liberale e costituzionale — nel senso dell'offerta di servizi, e ha consentito di indagare su particolari soggetti dell'amministrazione sovrana, quali gli intendenti francesi o i corregidores spagnoli, oppure, in un'ottica istituzionale, la genesi di forme positive della gestione del patrimonio sociale, quali i canali, le poste, la manutenzione delle strade, ecc. Questa storiografia — amministrativa in senso stretto — si è tuttavia profondamente arricchita nel secondo dopoguerra in direzione dello studio del consenso in termini di mobilità sociale, in parte legato allo studio esemplare di Mousnier sulla venalità degli uffici nella Normandia di fine Cinquecento e di inizio Seicento, che conduceva a individuare nell'estensione dell'amministrazione centrale un canale essenziale capace di assorbire le spinte all'ascesa sociale provenienti dal vertice del terzo stato; in tal modo rendeva concreta e articolata la nota affermazione del maestro G. Pagès secondo cui la venalità aveva costituito una cruciale base di consenso sociale dell'assolutismo regio. Parte rilevante in tale opera di rinnovamento ebbero le indicazioni di Federico Chabod, riferite essenzialmente al ducato di Milano nell'epoca di Carlo V e Filippo II; queste toccavano il problema del ruolo della burocrazia nella nascita dello stato moderno, di cui anzi potevano essere considerate il «carattere originale»: se studiata non solo attraverso le sue regole normative ma nel suo concreto, quotidiano operare, la pubblica amministrazione offriva la possibilità di costruire un quadro persuasivo della psicologia dei burocrati intesi come gruppo sociale. L'esame degli abusi dei funzionari nel ducato di Milano nel secolo XVI faceva emergere infatti come nella burocrazia dello stato rinascimentale esistessero germi di novità ed elementi di arretratezza amministrativa che si ricomponevano in un originale intreccio di privato e pubblico nella dimensione dell'ufficio, e consentivano di indagare in termini sociali e politici il «costo» dell'amministrazione. Non diversamente, Trevor Roper indicava in tale costo, e nei suoi legami con la struttura sociale coeva uno degli elementi della «crisi» dello stato del Rinascimento: tema, questo, che si è affermato come uno dei più vivaci della storiografia politica inglese.

Se il sommario quadro tracciato del rinnovamento metodologico degli anni cinquanta lascia appena intravedere lo sconvolgimento di tematiche precedentemente circoscritte dall'ottica istituzionale e giuridica, non meno evidente è stato il loro apporto all'apertura di ampi spazi di ricerca. Essi hanno finora investito, con l'analisi dei meccanismi di cooptazione del personale burocratico, del funzionamento reale dell'amministrazione, dei suoi apporti alla crisi di un preciso nesso tra stato e società, un intero arco di problematiche atte a illustrare concretamente i meccanismi di mobilità sociale presupposti dalla costruzione di stati accentrati. Tali lavori sono in genere stati condotti sugli apparati centrali del potere (a parte miscellanee come quelle dedicate alla fine degli anni cinquanta ai serviteurs du roi dalla rivista «XVIIe siècle»), ma nel decennio successivo si sono allargati allo studio delle élites politiche e di qui ai principi medesimi della stratificazione sociale nell'ancien régime. In tal modo le élites politiche si sono sempre più proposte come oggetto di una storia sociale del potere dalle molte sfaccettature. Nella storiografia francese le tendenze appaiono oggi assai articolate. La scuola di Mousnier tende da un lato ad approfondire un discorso sul potere piuttosto rigidamente ancorato alla sede istituzionale: ne è un esempio la sintesi di G. Durand [15], che vede nelle istituzioni il vero complesso fisiologico nel quale si esplica l'autorità dello stato, e trova nel rapporto tra personale politico e sovrano mutamenti che giustificano una periodizzazione dei metodi di governo. Altri lavori (Bluche tra tutti) sembrano invece risolvere la natura delle istituzioni nell'estrazione sociale dei loro membri, e restano ancorati alla priorità della distinzione tra nobiltà di spada e di toga. Da altre parti si insiste invece sulla necessità di uno studio dei comportamenti demografici del personale politico, a tutti i livelli dell'amministrazione, per giungere a una definizione «dall'interno» del gruppo di detentori delle funzioni di governo. Tali lavori possono essere rintracciati nella sintesi di P. Goubert sull'ancien régime [16], nella quale il personale politico è inteso come un insieme di famiglie e di lignaggi dagli innumerevoli e cangianti intrecci, colti attraverso alleanze e strategie matrimoniali, di investimento, ecc. Il lavoro di Goubert si preoccupa inoltre di reinterpretare l'opera dello stato in un quadro economico e sociale, commisurandone l'incidenza agli andamenti ciclici delle nascite e delle morti, dei prezzi e della rendita. Ciò consente di leggere il regno di Luigi XIV nei suoi sforzi di ristrutturazione dell'apparato all'interno di un lungo periodo di crisi, di coglierlo nei termini dei suoi costi umani ed economici: in particolare si può ricavare l'impressione che il maggior radicamento dell'apparato statale nella società francese sia coinciso con una straordinaria accentuazione della stratificazione sociale, a tutto favore delle città e di ristretti gruppi di mercanti urbani e di borghesi avviati alla conquista dello status nobiliare, nelle mani dei quali si va concentrando la proprietà della terra. Accanto a questa impostazione demografica dello studio delle élites tesa a una periodizzazione «interna» della politica, altri approcci, come quello di D. Richet, hanno invece indagato le élites politiche individuandole sulla base della partecipazione al potere pubblico attraverso quell'insieme di ordini, territori, gruppi professionali che costituiscono i «corpi» del regno. Il merito di questo approccio è stato quello di insistere sull'atomizzazione di tali élites, sottolineandone i molteplici e costanti elementi di divisione, e di fatto stemperando il sistema di potere dell'assolutismo nel dominio di «notabili» definiti non solo in base all'estrazione sociale, ma anche e soprattutto alla formazione culturale e al grado di coscienza politica.

Si possono tuttavia nutrire perplessità sulla fecondità di una simile quérelle terminologica intorno alla definizione dei caratteri delle élites e delle sedi istituzionali nelle quali le si possono individuare: si avverte infatti l'esigenza di approcci diretti a coglierne in termini più dinamici e analitici il ruolo nella società e, di qui, la natura di un sistema di potere che esse paiono tanto in grado di sfruttare. Alcune indicazioni provengono dalla storiografia politica inglese, che dietro i fondamentali lavori di Aylmer e di Stone ne propone uno studio prosopografico che ha in particolare investito l'istituto parlamentare, ma con fatica è giunto all'amministrazione delle contee; è lo stesso Stone inoltre ad aver indicato nel conseguimento di possibilità redistributive da parte della corte un indicatore del successo della politica regia, della sua capacità di offrire impieghi agli strati superiori e inferiori dell'aristocrazia. In sostanza si individua dietro il potere sovrano un sistema di patronaggio diffusamente operante a livello aristocratico, ma del quale resta tuttavia necessario approfondire l'effettiva portata sociale.

È un ambito d'indagine, questo, che se adeguatamente sfruttato pare in grado di rinnovare profondamente la nostra immagine del significato redistributivo della presenza dello stato nelle società di ancien régime. Alcune indicazioni provengono dagli studi sul clientelismo nobiliare nel Cinque e Seicento, legati alla tradizione sociologica anglosassone: inizialmente sottolineati da uno studioso affatto ignorato e disprezzato nel nostro paese, R. Major, il tema dei legami clientelari tra le famiglie aristocratiche francesi sembrava smentire in modo provocatorio un'immagine stereotipata della «forza» del monarca francese del Rinascimento. Tali indicazioni sono state negli anni settanta riprese sia da M. R. James per l'ambito inglese sia da R. Harding per quello francese per descrivere l'attività politica della nobiltà tradizionale all'ombra della dispotica monarchia Tudor o della «assoluta» monarchia Valois. Ne è emersa la capacità dei nobili di usare il proprio ruolo di patroni sia in favore sia contro il sovrano, a seconda della congiuntura politica ma con una costante preoccupazione di mantenimento dell'ordine locale. Dal punto di vista locale il complesso delle cariche a disposizione di un territorio, di una provincia, si configura come un insieme di risorse sfruttabili per l'affermazione del potere e dell'influenza di una famiglia o di un gruppo di famiglie. Un modello, questo, suscettibile di svariati campi di applicazione: dalle élites provinciali studiate da De Wald, a quelle cittadine esaminate dalla Kettering, a quelle indicate dagli Schneider e da Hansen alla base dei processi di «modernizzazione» politica ed economica operata dallo stato a livello regionale nell'area mediterranea [17].

In sostanza, le ricerche sulla funzione redistributiva svolta dall'apparato statale conducono a una rilevante dilatazione dell'oggetto di analisi, a una sua complicazione in senso interdisciplinare, a una ridefinizione dei processi-chiave della storia europea (ma non solo di quest'area: si vedano, ad esempio, i lavori dedicati alla struttura politica indiana) [18] sulla base di concetti empiricamente elaborati da discipline quali l'antropologia e la sociologia per interpretare il conflitto politico nelle società complesse. Una simile complicazione si rivela indispensabile per attenuare il senso di disagio che si prova di fronte a questa massa di studi, di cui appare evidente la tendenza alla settorializzazione disciplinare di un tema, come quello dello stato, che sembrerebbe invece vietarla.

Al termine di questo excursus, intendo perciò indicare alcune direzioni di ricerca suggerite da paradigmi vicini a quello della storia sociale: un primo paradigma si fonda sull'interpretazione del conflitto politico alla luce del nesso patrono-cliente [19]. Sempre più la letteratura antropologica sottolinea l'importanza dei legami clientelari gestiti da patroni in competizione per le risorse generate dall'espansione dell'apparato statale, e come l'esercizio del patronaggio sia inscindibile dalla funzione di mediazione tra ambiti sociali distinti (periferia-centro; comunità locali-potere sovrano/burocrazia). Una funzione, quest'ultima, che può assumere caratteri autenticamente imprenditoriali, e sia pure in senso conservativo: si tratta infatti di «imprenditori», nella accezione antropologica di individui che mettono in comunicazione sfere diverse della vita sociale: in questo caso le diverse comunità locali con la società più ampia [20]. Essi infatti agiscono come innovatori che obbediscono a una logica di profitto, sia pure localmente traducibile in un ulteriore aumento del prestigio e della preminenza. Nei loro rapporti con il potere centrale essi costituiscono invece i garanti dell'ordine locale, non solo nel senso che possono venir formalmente investiti della responsabilità di uno svolgimento della vita sociale locale non difforme dalle norme legali proprie dell'ordinamento statale, ma soprattutto nel senso che di tale ordinamento essi sono i custodi interessati. Infatti soltanto la conservazione dell'ordine sociale esistente permette loro di proporsi quali mediatori locali del potere. La loro azione, da questo punto di vista, possiede perciò caratteri conservativi che rendono possibile — attraverso una sua paradossale limitazione — la riproduzione e il radicamento locale del potere centrale [21]. È questa la condizione che caratterizza le «strutture politiche incapsulate», nelle quali, come avverte F. G. Bailey, l'esercizio del potere da parte dell'autorità centrale avviene secondo la formula del «governo indiretto» [22]: una condizione che verosimilmente distinse la strategia di poteri centrali, quali quelli dell'ancien régime, sprovvisti della forza e della volontà necessaria per mutare radicalmente le regole della competizione politica locale. È un approccio allo studio delle élites politiche e sociali, questo, che consente la ridefinizione del mutamento sociale in base alle sue radici endogene: alla luce cioè dei comportamenti reali e non solo di quelli normativi dei singoli detentori locali del potere.

Una seconda indicazione di ricerca proviene infine dalle ipotesi formulate da Norbert Elias alla fine degli anni trenta (e delle quali così tardivamente appare una traduzione italiana [23]) sul rapporto tra la formazione degli apparati statali dell'epoca moderna e il processo globale di civilizzazione della società europea. Tale processo va definito, secondo Elias, a partire dallo stesso meccanismo di genesi dello stato, nel quale egli distingue una duplice tendenza alla monopolizzazione, militare e fiscale, del potere; in base ad essa si generano élites sociali nelle quali vengono incorporati i concorrenti potenziali di quell'unità di dominio che finisce coll'esercitare l'egemonia politica. In particolare il monopolio del potere presupposto dall'assolutismo si fonda su uno stato di equilibrio tra i diversi gruppi di élites generati dalla crescita del sistema statale del dominio: uno stato di equilibrio che rafforza le interdipendenze reciproche tra i singoli gruppi, e tra ciascuno di essi e il centro fisico del potere, il sovrano. Due sono le conseguenze del discorso di Elias che qui appare necessario mettere in rilievo. La prima è che lo stato di equilibrio tra gruppi rivali di élites, nella quale si esplica la presenza dello stato, non rinvia all'azione volontaria e cosciente dei soggetti sociali, ma a una trasformazione della società che determina una crescente interdipendenza dei gruppi sociali, una compresenza quindi di elementi di solidarietà e rivalità nelle loro relazioni reciproche. Ma soprattutto sono le conseguenze del processo di monopolizzazione della violenza da parte dello stato ad assumere una portata straordinaria. Secondo Elias la relativa pacificazione dello spazio sociale che coincide con la formazione dell'assolutismo costringe infatti gli individui a intensificare il controllo sulle proprie pulsioni. Di più, la chiusura del campo potenziale delle relazioni interpersonali, indotto dall'esistenza di un siffatto sistema di dominio, conduce a un rafforzamento necessario delle costrizioni interiori: il processo di civilizzazione consiste dunque nella trasformazione della costrizione sociale in autocostrizione.

Lo sforzo maggiore di Elias è senza dubbio rappresentato dal tentativo di pensare in modo non settoriale le relazioni che intercorrono tra differenti catene processuali al centro delle quali si pone la formazione del sistema statale di dominio: in altri termini, la differenziazione del tessuto sociale, la stessa costruzione dello stato moderno, la trasformazione dei comportamenti e delle struttture psicologiche costituiscono aspetti di un processo più vasto, ed è quest'ultimo a divenire il vero oggetto di studio. In una simile impostazione del problema, va aggiunto, diventa centrale e imprescindibile la nozione stessa di processo, giacché è un processo a permettere di considerare sia le forme sociali, sia le strutture psichiche come configurazioni mobili e non come categorie universali, a consentire di pensare lo stato non come una totalità strutturata, o a intendere l'economia psichica come un dato originario e universale.

Al di là della loro formulazione astratta (che va del resto ricondotta al periodo storico nel quale esse vennero elaborate, e cioè al periodo compreso tra le due guerre mondiali) le ipotesi di Elias aprono un immenso e inesplorato terreno di ricerca, e suggeriscono possibilità di verifica anche in situazioni e tempi diversi da quelli analizzati da questo volume. Ne è un esempio stimolante la ricerca che Anton Blok ha condotto sul rapporto tra élites locali e potere centrale in una comunità siciliana di fine Ottocento [24]. Il concetto di configurazione viene utilizzato per comprendere un insieme di rapporti — tra vari tipi di persone: funzionari governativi, rappresentanti, locatori di terre, agenti di questi ultimi (gabelloti), professionisti e contadini — che permette a Blok di collegare l'oppressione dei contadini siciliani alla misura in cui il governo centrale è riuscito ad assicurarsi il monopolio della violenza. In tal modo emergono in senso rovesciato l'importanza e la centralità di quella fascia sociale costituita dai concreti mediatori di autorità anche lontane dal ristretto ambito della comunità studiata. Se nel caso esaminato da Blok essi assumono il carattere di imprenditori violenti, che sopperiscono a un'assenza di forme giuridiche di controllo sociale, non è difficile immaginare come le mobili e dinamiche configurazioni individuate dall'antropologo olandese costituiscano la vera, seppur paradossale, ossatura dell'apparato statale, la dimensione sociale del suo operare.

[1] Un esempio recente in J. H. SHENNAN, Government and Society in France: 1461-1661, Allen & Unwin, London, 1969, e Le origini dello stato moderno in Europa (1450-1725), Bologna, Il Mulino, 1976. Cfr. J. ELLUL, Storia delle istituzioni, vol. III: L'età moderna e contemporanea, Milano, Mursia, 1976.

[2] Si segnala per originalità il tentativo di G. POGGI, La vicenda dello stato moderno. Profilo sociologico, Bologna, Il Mulino, 1978, fondato soprattutto su documentazione istituzionale e giuridica.

[3] R. DOUCET, Les institutions de la France au XVIe siècle, Paris, Picard, 1948, 2 voll.; G. ZELLER, Les institutions de la France au XVIe siècle, Paris, Puf, 1948. Resta fondamentale, a questo proposito, P. VIOLLET, Histoire des institutions politiques et administratives de la France, Paris, Larose et Forcel, 1890-1903, 3 voll.

[4] M. HECHTER, Il colonialismo interno, Torino, Rosenberg, 1979; ma si veda anche F. BARTH, Introduction, in F. BARTH (a cura di), Ethnic Groups and Boundaries, Boston, Little, Brown & Co., 1969. Su questi temi cfr. anche v. G. KIERNAN, State and Nation in Western Europe, in «Past and Present», XXXI, 1965, pp. 20-38 e il più recente State and Society in Europe. 1550-1650, Oxford, Blackwell, 1981.

[5] Cfr. soprattutto gli interventi pubblicati in The Transition from Feudalism to Capitalism, New York, «Science and Society», 1954 (trad. it. La transizione dal feudalesimo al capitalismo, a cura di G. Bolaffi, Roma, Savelli, 1973).

[6] C. HILL, Un breve commento, in La transizione cit., pp. 118-19.

[7] B. PORSNEV, Les soulèvements populaires en France au XVIIe siècle, Paris, Sevpen, 1963 (trad. it. Milano, Jaca Book, 1977). La rigidità dello schema interpretativo dello storico sovietico emerge con tutta chiarezza nel suo intervento al III Congresso degli storici italiani e sovietici: Mosca, aprile 1968, in «Rassegna sovietica», Quaderno III, 1969, pp. 95-101. Cfr. ivi la bella relazione di C. VIVANTI, Note per una discussione sull'assolutismo (1550-1630), pp. 9-26.

[8] P. ANDERSON, Lo stato assoluto. Origini e evoluzione dell'assolutismo occidentale e orientale, Milano, Mondadori, 1980 (1ª ed. London, NLB, 1974). Di Anderson cfr. anche Dall'antichità al feudalesimo, Milano, Mondadori, 1978).

[9] B. Moore jr., Social Origins of Dictatorship and Democracy. Lord and Peasant in the Modern World, Boston, Beacon Press, 1966 (trad. it. Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1969).

[10] D. C. NORTH - R. P. THOMAS, An Economic Theory of the Growth of the Western World, in «Economic History Review», serie II, XXIII, 1970, pp. 1-17; L'evoluzione economica del mondo occidentale, Milano, Mondadori, 1976.

[11] Per altri tentativi di comparazione che si avvalgono dell'apporto di categorie sociologiche cfr. S. ROKKAN, Models and Methods in the Comparative Study of Nation-Building, in «Acta Sociologica», XII, 1969, pp. 53-73; M. RAEFF, The Well Ordered Police State and the Development in the Seventeenth and Eighteenth Century Europe: An Attempt at a Comparative Approach, in «The American Historical Review», LXXX, 1975, pp. 1221-45.

[12] Cfr. la bibliografia contenuta in S. LOMBARDINI, Rivolte contadine in Europa durante l'età moderna, Torino, Loescher, di prossima pubblicazione.

[13] E. P. THOMPSON, The Moral Economy of the English Crowd in the Eighteenth Century, in «Past and Present», 1971, pp. 76-136 (ora in E. P. THOMPSON, Società patrizia, cultura plebea, Torino, Einaudi, 1981, pp. 57-136; Whigs and Hunters. The Origins of the Black Act, London, Allen Lane, 1975 (trad. it. Firenze, La Nuova Italia, di prossima pubblicazione).

[14] Trade and Market in the Early Empires. Economies in History and Theory, a cura di K. Polanyi, con la collaborazione di C. M. Arensberg e W. Pearson, New York, Free Press, 1957 (trad. it. Traffici e mercati negli antichi imperi. Le economie nella storia e nella teoria, Torino, Einaudi, 1978); di Polanyi cfr. anche, per il concetto di redistribuzione, The Great Transformation: the Political and Economic Origins of Our Time, New York, Holt, Rinehart & Winston, 1944 (trad. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974).

[15] G. DURAND, États et institutions. XVIe-XVIIIe siècles, Paris, Colin 1969.

[16] P. GOUBERT, L'ancien régime, vol. I: La società; vol. II: I poteri, Milano, Jaca Book, 1974 (1ª ed. Paris, Colin, 1969 e 1973).

[17] P. SCHNEIDER - J. SCHNEIDER - E. HANSEN, Modernisation and development: The role of regional élites and non corporate groups in the european mediterranean, in «Comparative Studies in Society and History», XIV, 1972, pp. 328-50.

[18] Cfr. F. G. BAILEY, Caste and the Economic Frontier, Manchester, Manchester University Press, 1957; Tribe, Caste and Nation, Manchester, Manchester University Press, 1960; A. MAYER, Some Political Implications of Community Development in India, in «European Journal of Sociology», IV, 1963, pp. 86-100; The Significance of Quasi-Groups in the Study of Complex Societies, in M. BANTON (a cura di), The Social Anthropology of Complex Societies, London, Tavistock Publications, 1965; Patrons and Brokers: Rural Leadership in Four Overseas Indian Communities, in M. FREEDMAN (a cura di), Social Organization: Essays Presented to Raymond Firth, London, Cass, 1967. Cfr. anche R. NICHOLAS, Factions: A Comparative Analysis, in BANTON (a cura di), The Social Anthropology of Complex Societies cit., pp. 21-61 e soprattutto F. BARTH, Political Leadership among Swat Pathans, London, Athlone Press, 1959.

[19] Cfr. le rassegne di R. R. KAUFMAN, The Patron-Client Concept and Macro-Politics: Prospects and Problems, in «Comparative Studies in Society and History», XVI, 1974, pp. 284-308; S. N. EISENSTADT - L. RONIGER, Patron-Client Relations as a Model of Structuring Social Exchange, in «Comparative Studies in Society and History», XXII, 1980, pp. 42-77.

[20] F. BARTH (a cura di), The Role of the Entrepreneur in Social Change in Northern Norway, Bergen, Universitets-forlaget, 1963; ora in Process and Form in Social Life, London, Routledge & Kegan Paul, 1981, di prossima pubblicazione in Italia presso Rosenberg.

[21] G. LEVI, Strutture familiari e rapporti sociali in una comunità piemontese fra Sette e Ottocento, in Annali, I: Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 617-60.

[22] F. BAILEY, Stratagems and Spoils: A Social Anthropology of Politics, Oxford, Blackwell, 1969 (trad. it. Per forza o per frode. L'antropologia sociale e le regole della competizione politica, Roma, Officina, 1975). Su questi temi cfr. J. DAVIS, People of the Mediterranean, London, Routledge & Kegan Paul, 1977 (trad. it. Antropologia delle società mediterranee. Un'analisi comparata, Torino, Rosenberg, 1980, pp. 86-173).

[23] N. ELIAS, Über den Prozess der Zivilisation: Soziogenetische und psychogenetische Untersuchungen, Bern-München, Francke Verlag, 1969 (lª ed. 1938) (trad. it. del vol. I, Wandlungen des Verhaltnes in den Weltlichen Oberschichten des Abendlandes col titolo La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982. Su di lui cfr. E. GRENDI, Norbert Elias: storiografia e teoria sociale, in «Quaderni storici», 50, agosto 1982, pp. 728-39).

[24] A. BLOK, The Mafia of a Sicilian Village, 1860-1960. A Study of Violent Peasant Entrepreneurs, Oxford, Blackwell, 1974.

© 2000
Reti Medievali
UpUltimo aggiornamento: 01/04/2006