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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


3. Il mercante all'opera

3. Il mercante italiano

a) LE «ARTI». I:  FUNZIONE POLITICA. L'associazione corporativa, fenomeno generale nel tempo per la tutela sotto il profilo economico degli iscritti nella «matricola» di un mestiere o di una professione, in Italia aggiunse anche una finalità politica in quanto i mercanti se ne valsero per salire al governo del Comune: almeno della maggior parte di quelli che furono retti a regime impropriamente detto democratico (meglio dire oligarchico), mentre l'ascesa fu frenata nei Comuni retti a regime aristocratico.

Nei primi le Arti cominciarono a scalzare dal potere gli iniziali reggitori, i Consoli – detentori della proprietà fondiaria e i più appartenenti alla piccola nobiltà feudale che, insofferenti delle gerarchie superiori, se ne erano liberati unendosi con un «patto giurato» –, inserendo nella magistratura consolare qualche mercante (giustificato dal fatto che era anche proprietario di beni immobili) che ben presto dette l'avvio a contrasti; poi, lottando per far prevalere i propri interessi, le Arti a mano a mano salirono loro al governo.

Le vicende delle città a regime democratico si possono seguire sull'esempio lineare degli sviluppi costituzionali di Firenze. 1207: le prime associazioni artigiane affermatesi di fronte alla solidarietà dei Consoli, tanto da non essere trascurate, sollecitarono l'avvento del Podestà, prima forestiero a garanzia di maggiore imparzialità e poi cittadino. 1250: un altro passo con la creazione del Capitano del Popolo affiancato dal Podestà, che sanzionò l'ingresso nella vita politica di quello che Dino Compagni e Giovanni Villani chiamarono il «primo popolo». 1266: costituzione del «secondo popolo» con il quale le Arti, risollevatesi dopo l’effimero successo dei ghibellini – il partito dei vecchi Consoli e del Podestà vittoriosi sei anni prima a Montaperti –, rientrarono a bandiere spiegate nella vita politica. 1282: trionfo del «popolo grasso», oggi diremmo alta borghesia, e creazione della «Signoria dei Priori», suprema magistratura costituita appunto dai rappresentanti delle Arti «maggiori» e «mediane», dette da questo momento esse pure maggiori. 1293: al governo partecipano anche le Arti «minori», e così si forma il blocco di 21 Arti costituito «ad onore, difesa, esaltazione e tranquillità dei Signori Priori e del Gonfaloniere di Giustizia e di tutto il Popolo fiorentino». I Priori, eletti dalle «capitudini», i dirigenti delle Arti, nominavano i funzionari dello stato; presiedevano alle finanze e ai rapporti internazionali; formulavano, con la convocazione di assemblee, tutte le leggi, mentre il Gonfaloniere di Giustizia disponeva di uomini d'arme per fare eseguire gli ordini emanati. Se si tiene conto che ai sensi degli «ordinamenti di giustizia» del 1293 nessuna carica  pubblica poteva essere attribuita se non a chi fosse «buon guelfo» e iscritto a un'Arte, si può ben dire che da quel momento la compagine delle 21 Arti si identificò con lo stato. E giova insistere sulla portata della legge che segnò una svolta decisiva col porre a base dei pieni diritti civili il lavoro, manuale e intellettuale, esaltandone la dignità. Né induca a pensare che si trattasse soltanto di forma e non di sostanza il fatto che Pier Soderini fu iscritto fra i«lanaiuoli» e Niccolò Machiavelli fra i «vinattieri», senza che l'uno e l'altro abbiano esercitato quei mestieri, e neppure si ricordi l’esempio più clamoroso dell'Alighieri il cui nome si trova nella matricola dei «medici e speziali» e che pure non bollì mai una manciata di erbe per farne un decotto né praticò un salasso come cerusico. Nella mancanza di un'Arte di scrittori e di poeti, la firma posta da Dante a un mestiere segnò l'accettazione della qualifica di lavoratore, dura per un uomo , che per la fierezza della discendenza da Cacciaguida condannava i«villani d'Aguglione», ma condizione sine qua non per fare parte della Signoria. 1378: estensione del diritto al governo a tutti i lavoratori, anche i minori, già esclusi dall'associarsi tra loro, e da allora raccolti essi pure sotto propri gonfaloni. Il tumulto dei Ciompi concluse la evoluzione della costituzione repubblicana: l'oligarchia del popolo grasso, tornata dopo poco al potere debole e divisa, fece posto alla Signoria, prima di fatto e poi conclamata dei Medici.

A prototipo delle città rette a regime aristocratico si può assumere Venezia, dove pur si ebbero le Arti, ripeto fenomeno generale del tempo; ma l'aristocrazia, forte al potere fin dall'inizio, impedì a esse ogni velleità di toglierglielo. Là i nobili, che stretti dalla solidarietà di classe non avevano bisogno di unirsi corporativamente (un’Arte degli armatori sarebbe stata di importanza pari a quelle della Lana, di Calimala e del Cambio a Firenze), controllarono le minori affidando al Doge il compito di dettare, per mezzo di apposite magistrature, i loro statuti. Così a Firenze le Arti erano padrone dello stato, e a Venezia erano strumenti dello stato e della sua politica. Il che non toglie però la validità dell'affermazione dell'importanza del mercante: l'aristocrazia veneziana, e lo stesso si dica per quella genovese anche se quest’ultima fu travagliata da lotte interne, era legata ai traffici marittimi, ai quali la Serenissima dové una fortuna non soltanto grande ma anche duratura, resistendo, al di là dei Comuni e delle Signorie, fino alle soglie del Risorgimento.


b) LE «ARTI». II: FUNZIONE ECONOMICA. Gli obbiettivi che risultano dagli statuti delle Arti, e che sono travasati, nelle grandi linee, in quelli del Comune dettati dai medesimi legislatori, erano: creare per gli iscritti il monopolio del lavoro in un mestiere; porli in condizioni di parità dovendo produrre a costi uguali e vendere a prezzi uguali, astenendosi dalla concorrenza con quella che oggi si dice reclame; regolare la produzione sulla richiesta e non stimolare la domanda con l'offerta; tutelare il consumatore da eventuali frodi. Il che, tutto sommato, ci sarebbe da credere che avrebbe frenato piuttosto che spinto l'economia; e proprio ponendo mente soltanto alla lettera della legge si è sostenuto, a priori, la impossibilità di grandi dimensioni delle manifatture, dei commerci, dei guadagni.

Per vero, tutte queste finalità non furono raggiunte, o non lo furono in pieno: altrimenti, per dirne una, tutte le aziende sarebbero state livellate, mentre se ne avevano di piccole e di medie, di grandi e di grandissime, e legate per modo che una crisi delle maggiori determinava sempre quella delle altre fino ai fallimenti. Per renderci conto di una realtà tanto diversa da quella che ci attenderemmo dalla lettura degli statuti, realtà che in sostanza non tanto si distacca da quelli del mondo attuale, dobbiamo partire dalla iniziativa di coloro che si recavano, fuori di casa, in località delle quali correvano rischi a cui in città non andavano incontro, e che intanto, si sottraevano alle pastoie corporative: per modo che il loro successo più o meno accentuato era dovuto alla diversa misura della intelligenza, del coraggio, della spregiudicatezza. E siccome continuavano a far capo alla loro città, centro del proprio lavoro, pure esteso a raggio internazionale, è evidente che non si poteva impedire che anche in città si collocassero su piani diversi, che raggiungessero diverse dimensioni delle loro aziende. Le Arti stesse, d’altronde, poste dinanzi a una realtà così creatasi, finivano per accentuare i distacchi favorendo le imprese più solide e scoraggiando, fino a sopprimerle d'autorità, le altre, dette del primo statuto dell'Arte di Calimala del 1301 «superflue». Il che aveva per risultato di concentrare il grande mercato in poche mani. Ancora: mentre in quegli statuti si vietavano, in obbedienza alla Chiesa, le «usure» – divieto anacronistico in una economia che sempre più si basava sul credito, ma che pur si manteneva –, si imponeva a fine anno ai mercanti che se le perdonassero l'un l'altro, e chi non lo facesse fosse punito. Infine, e questo risulta dall’esame dei libri di commercio, gli operatori economici più grossi fuggivano alle multe corrompendo i funzionari preposti ai controlli, e facevano, comunque, un calcolo di convenienza fra il guadagno da ricavare con l'infrazione della legge e le penalità da pagare. Per questo, dopo aver parlato di spregiudicatezza all'estero, aggiungo che di essa davano prova che nelle loro città.

Quanto alla vastissima regolamentazione, fatta applicare rigorosamente, delle modalità del lavoro (fino ai controlli finali che portavano alla distruzione dei manufatti difettosi) alla misura, uniforme e minima, dei salari, non c'è dubbio che costituivano un impaccio, ma erano a un tempo la chiave di volta della vittoriosa concorrenza all'estero. Si spiega così come i mercanti dell' Arte della lana, che avevano acquistato la materia prima in Inghilterra; che avevano trasportato il carico dei trasporti attraverso a vie non brevi e difficili, e lungo le quali avevano pagato una quantità di balzelli; che arrivati nei loro fondachi avevano provveduto a tutte le fasi della lavorazione sino all'assetto finale delle pezze, quelle pezze potevano esportarle anche oltre la Manica e là venderle con profitto.

Anche quanto al mancato stimolo alla produzione non sollecitandola con la domanda – che si desume indirettamente dalla quantità dei giorni non lavorativi stabiliti per solennizzare santi e festività della Chiesa e dalla proibizione del lavoro notturno (pericoloso d'altronde dati i mezzi di illuminazione e non giovevole alla perfezione dell'opera) – non risulta che abbia raffrenato lo sviluppo delle grandi aziende che sapevano adeguarsi alla richiesta della clientela che a loro più premeva, dei signori laici ed ecclesiastici, producendo via via di più con l'aumentare la mano d'opera e le attrezzature; mentre gli acquirenti minori non avrebbero avuto la possibilità di comprare di più anche se a loro fosse stato presentato di più. Del resto, date le frequenti e imprevedibili possibilità di contrazione della domanda, forti giacenze in magazzino avrebbero avuto come conseguenza la disoccupazione temporanea, e peggio ancora sarebbe stato se la necessità di realizzare sotto costo avesse portato ai fallimenti e alla chiusura dei fondachi. Insomma: si raggiunse un equilibrio che, allora indispensabile, non sarebbe inutile neppure oggi che una offerta di beni, soprattutto di beni superflui, spinta oltre i limiti economici ragionevoli, è causa di disordini nei mercati con riflessi sulla stabilità delle monete. A ogni modo quanto si è detto nella prima parte di queste pagine non fa prova di certo che le Arti, nei secoli d'oro fino alla metà del Trecento, siano state di ostacolo all'avanzare dell'economia; lo sarebbero state più tardi quando i tempi maturarono per le iniziative singole; e fu allora appunto che presero a decadere.


c) LA MONETA. Altro strumento col quale il grande mercante italiano dominò i mercati internazionali fu la moneta d'oro di cui avvertì la necessità che fosse stabile: lo sancì all'atto delle prime coniazioni e vi tenne fede per secoli. Quasi contemporaneamente nel 1251-1252 dalla zecca di Genova e da quella di Firenze uscirono il «genovino» e il «fiorino»; poi a Milano l'«ambrogino»; infine nel 1284 a Venezia il «ducato». Erano allineate col fiorino che pesava grammi 3,536 d'oro a 18 carati, e si possono dire intercambiabili, tenendo soltanto presente che il fiorino era più ricercato per la bellezza del conio. Per quella loro inalterabilità non è eccessivo dire che adempirono la funzione che in seguito sarebbe stata propria della sterlina e poi del dollaro. Le monete d' oro erano monete di classe, del commercio internazionale, mentre quelle per il piccolo commercio e per i salari erano d'argento. Per tutta l'età dei Comuni anche in Italia queste ultime subirono una svalutazione progressiva, senza sbalzi improvvisi, svalutazione non certo fermata dai mercanti, che d'altro lato non la forzarono, perché ne avevano un utile. Lo dice ingenuamente e con chiarezza il Villani riferendo un provvedimento dell'agosto 1348, a un anno di distanza dal fallimento della compagnia dei Bardi preceduto da poco da quello della società dei Peruzzi; e per di più in un momento in cui, verificatosi sul mercato dei metalli preziosi un mutamento nel rapporto fra oro e argento a favore dell'argento, di quest’ultimo si faceva incetta: «Essendo montato l'argento della lega di once 11 e mezzo di fine per libra in lire 12 e soldi 15 a fiorino, perocché i mercanti per guadagnare il ricoglievano e portavanlo oltremare ove era molto richiesto… onde i lanaiuoli, a cui tornava a interesso perché pagavano i loro ovraggi a piccoli e vendeano i loro panni a fiorini, essendo possenti in Comune, feciono ordinare al detto Comune che si dovesse fare nuova moneta d'argento e nuovi quattrini, peggiorando l'una e l'altra moneta per lo modo che diremo appresso, acciocché il fiorino d'oro montasse…».


d)LE FINANZE. Dal governo dello stato i mercanti manovrarono un'altra leva, quella delle finanze, impostando e mantenendo una politica tributaria che, se pur conosceva imposizione diretta, l'«estim », non era pesante per loro quanto la stima dei beni, globale e induttiva, si prestava ogni sorta di favoritismi: in sostanza giocavano soprattutto le imposte indirette. Scrive il Villani che il Comune si reggeva sulle gabelle (dazi soprattutto sui consumi, che davano il gettito maggiore, e sui «contratti», di minor peso per le denunce mascherate) e quando se ne presentava la necessità imponeva «prestanze» (prestiti obbligatori di solito per tutti i cittadini e che di solito non portavano interessi; e prestiti volontari, corrisposti dai più facoltosi, i quali ricevevano un interesse variabile a seconda del mercato del danaro). Il popolo, naturalmente, insisteva per una migliore giustizia distributiva chiedendo l'accertamento analitico delle sostanze, la ricchezza immobiliare e quella mobiliare, ossia i proventi delle professioni e dei traffici da essere tassati con aliquote elevate perché professioni e traffici erano più redditizi che non i terreni e le case. I catasti si ebbero soltanto col passaggio dal regime comunale a quello signorile. Se a Firenze il catasto fu introdotto nel 1427, non va dimenticato che la legge ebbe l'appoggio di Giovanni di Bicci della famiglia dei Medici, che preparava, a vantaggio della sua casata, il passaggio al Principato. Poi Cosimo il Vecchio aggiunse la «decima scalat », progressività della  tassazione in rapporto all'altezza dei redditi, che per colmo di ironia fu chiamata la «graziosa» perché favoriva i meno abbienti. Erano già lontani gli anni quando il mercante intraprendeva con entusiasmo gli affari; ora già se ne ritraeva, come vedremo avanti dove si dirà del mutamento della sua mentalità.


e) LE SOCIETÀ COMMERCIALI, «COMMENDA» E «COMPAGNIA » [v. LETTURA 5]. I capitali per il commercio internazionale si raccoglievano con due tipi di associazione: la «commenda» detta anche «colleganza», matrice della moderna società in accomandita, e la «compagnia», punto di partenza della società in nome collettivo.

Si può accettare, sostanzialmente, la teoria di A. Sayous che le due associazioni corrisposero alle condizioni del traffici per mare e di quello per terra. I viaggi per mare comportavano troppi rischi e magari totali, la perdita della nave, perché si impegnassero capitali notevoli e si rispondesse con tutte le sostanze sulla base della responsabilità solidale e illimitata; mentre quelli per terra, pur sottoposti essi pure a pericoli, davano più affidamento. Ma c'era un'altra ragione, prevalente, per sollecitare la «compagnia»: la durata dell'impresa, la quale, imperniata sulle manifatture, richiedeva una attrezzatura che assicurasse una lunga vita e desse la possibilità di estenderla e di migliorarla.

In relazione a questo si ha la diversità delle figure dei soci. Nelle commende il legame che li univa era soltanto la partecipazione a una speculazione comune, che non seguivano di persona ma affidavano al negotiator responsabile della sua opera di fronte a loro: dopo che aveva effettuato il viaggio di andata e di ritorno e aveva reso i conti trattenendosi un utile stabilito, la società si scioglieva. I soci della compagnia, invece, non solo si conoscevano, ma, in principio, appartenevano a una stessa famiglia, e avevano fiducia l'uno nell'altro essendo a tutti caro l'«onore familiare»: che sarebbe stato macchiato così da una frode come dalla fuga di un membro dal campo di battaglia.

A mano a mano che i rapporti dei più stretti consanguinei non furono sufficienti a costituire un «corpo di compagni » (il capitale sociale) adeguato agli affari in aumento, si accolsero parenti più lontani e consorti, e alla fine anche estranei. Comunque, anche in quest’ultima fase, il nome sociale fu mantenuto perché era garanzia di fronte ai terzi, fra i quali depositanti in conto corrente nelle casse della società, che non partecipavano agli utili ma ricevevano un interesse fisso.

Considerando le somme raccolte da queste associazioni mercantesche si è osservato, ed è vero, che i corpi di compagnia non erano ingenti (gli Alberti del Giudice di Firenze, per esempio, di cui conosciamo i bilanci dal 1302 al 1329, non superarono i 17.241 fiorini d'oro); ma non si è posto mente alle accennate disponibilità a mezzo del credito a cui ricorreva in così alta misura che esso fu la causa comune di tutti i fallimenti delle compagnie, scarse e prive addirittura del liquido per far fronte ai ritiri richiesti in massa al primo cenno di una crisi. Per avere un'idea dell'imponenza del giro degli affari – non certo in rapporto con la somma dei «corpi» – basti dire che la società dei Bardi fra il 1310 e il 1345 stabilì succursali in più centri della Penisola da Venezia a Palermo, e all'estero a Avignone, Barcellona, Bruges, Cipro, Costantinopoli, Gerusalemme, Londra, Maiorca, Marsilia, Nizza, Parigi, Rodi, Siviglia, Tunisi, e inviò agenti speciali in tutti gli altri mercati del tempo; ebbe 346 stipendiati di cui oltre 100 con il grado di funzionari, personale con una media di permanenza di 11-12 anni; e un suo bilancio annuale, quello al primo luglio 1318, porta la somma di 873.638 fiorini d'oro.

Quanto alle commende, è vero che i singoli apporti erano modesti e taluni anche più che modesti, ma il loro insieme era tutt’altro che insignificante. Scrive Gino Luzzatto che la commenda per la sua diffusione in vasti strati della popolazione, anche fra persone estranee agli affari come donne e minori sotto tutela, esercitò sull’economia la funzione che gli acquirenti numerosissimi di piccoli gruppi di azioni esercitano sulla nostra economia industriale: in luogo di una grande azienda di carattere continuativo si creò una grande azienda sociale temporanea ma periodicamente rinnovatesi  e in condizione di potere esercitare un commercio vastissimo. Ancora per portare una cifra: il doge Ranieri Zen, morendo nel 1269, lasciò nella massa del patrimonio crediti per 22.935 lire veneziane derivanti da 132 conti di colleganza di importo ognuno oscillante fra le 100 e le 970 lire con una media di 174 per contratto.

Quando si è detto che la teoria del Sayous è sostanzialmente accettabile ci si riferiva al fattore rischio, che l'A. ha posto alla base dei due tipi di associazioni mercantili. Il che non significa, però, che nelle città marittime si avesse soltanto la commenda e nelle città dell'entroterra soltanto la compagnia. In realtà le compagnie si trovano di buon'ora anche nelle città costiere, sebbene con caratteri non identici a quelli tipici della Toscana (per esempio la responsabilità dei compagni era soltanto solidale ma non illimitata, e i capitali manovrati erano unicamente quelli del corpo di compagnia e non anche quelli dei depositi). Il Luzzatto ne porta qualche esempio a Venezia fin dal secolo XII e più nel secolo XII e notevoli come la compagnia dei fratelli Cornaro il cui capitale sociale di 83.275 ducati d'oro era di poco inferiore ai 102.758 fiorini d'oro della società fiorentina dei Peruzzi del 1310.

In parallelo accomandite si ebbero anche nelle città dell'inteno. Più tardi, però, pur senza che si debba scendere, come si è creduto, al secolo XV, allorché furono riconosciute giuridicamente. La legge istitutiva del 1408 a Firenze (si noti peraltro che Firenze aveva preso Pisa due anni prima e c'era la speranza di divenire una città marinara) [v. LETTURA 6] non creò infatti un istituto nuovo, ma piuttosto sanzionò una pratica precedente, se nel preambolo si trova che i mercanti, nel caso che la loro richiesta non fosse accolta, sarebbero costretti a violare gli statuti i quali contemplavano soltanto la compagnia. Modo più o meno elegante per dire che, legge o no, avrebbero continuato su una via già presa dopo che i primi fallimenti della metà del secolo precedente avevano dimostrato che tutto il commercio internazionale, e non solo quello per mare, correva rischi gravissimi.

Intanto si modificarono le strutture tradizionali delle compagnie originali. Mentre per l'addietro si erano imperniate sulla costituzione di succursali non autonome, ma dipendenti dalla casa madre sotto la direzione collegiale di tutti i soci – che posti sul medesimo piano dividevano utili e perdite in proporzione alle somme conferite nel capitale sociale – prima che finisse il secolo XIV Francesco di Marco Datini, il famoso mercante di Prato, creò accanto alla casa centrale un complesso di aziende con capitali propri, di ciascuna delle quali era socio e in ciascuna metteva una somma superiore a quella degli altri compagni: i quali dividevano utili e perdite in misura stabilita dal contratto sociale o a volontà di Francesco, il «maggior ». Con il che si faceva posto a un'unica volontà, e l'eventuale crollo di una azienda non coinvolgeva necessariamente le altre e tanto meno l'intera impresa. Dopo il Datini ecco i Medici, la cui organizzazione più perfezionata richiama quella della holding compan. Ancora: mentre continuò l'attività multipla, commerciale, industriale e bancaria delle grandi società precedenti, Datini nel 1398 impostò una banca autonoma che concorresse, con l'elemento finanziario, a serrare vieppiù le file della compagnia. A questo punto non resta altro che combinare – è l'ultima fase – le due società, compagnia e accomandita, non fondendole, ossia snaturandole giuridicamente, ma servendosi dell'una e dell'altra cumulativamente a seconda degli interessi degli operatori economici e della qualità delle operazioni. Accade così di trovare le più varie combinazioni. La ormai possibile appartenenza di una persona a più compagnie finiva per dare unità alla politica di quelle compagnie, che avrebbero potuto sostituire alla concorrenza la solidarietà e magari la divisione del lavoro. Non solo, ma attraverso al filo personale il collegamento poteva attuarsi anche fra imprese organizzate in compagnia e imprese organizzate in accomandita.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06