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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


4. La figura del mercante

2. Il mercante italiano della «crisi» del secolo XIV

a) DISINTERESSE PER LA MERCATURA. Il mercante, il quale ormai stanco reagì scarsamente all'insieme delle circostanze di fatto che abbiamo visto all'origine della crisi, non ebbe la possibilità di riprendersi nel clima politico e culturale – in una parola morale – dei regimi signorili disintegratori della fierezza degli animi dei cittadini ridottisi volentieri a sudditi, nel quale non a caso fiorì l'umanesimo: il cui spirito, per quanto riguarda il lavoro, non era stato di certo quello che aveva dettato gli «Ordinamenti di giustizia» e aveva animato i goliardi, e si avvicinava piuttosto a quello del mondo antico.

A chi voglia avere una visione completa e suggestiva, eppur non fantastica, dello Stato del Rinascimento – le Signorie e le monarchie del tempo – suggerisco la lettura di due saggi di H. R. Trevor-Rooper: Religione, riforma e trasformazione sociale e La crisi generale del XVII secolo, raccolti nel volume Protestantesimo e trasformazione sociale edito nella traduzione italiana da Laterza nel 1969. Un congegno accentratore, quello stato, che sacrifica le piccole e pur grandi città autonome del passato alla «dominante», la capitale in cui ha sede la corte: nell'ambito della quale si moltiplicano funzionari di tutti i gradi, che non vivono degli stipendi ricevuti dal principe ma con il profittamento degli uffici che ricoprono, ossia a spese dell'insieme della popolazione. Il  mercante, che può anche finire in miseria se lavora per propria iniziativa, può far fortuna, magari più che per l'addietro, se si inserisce nel giro di affari del sovrano: quel che è certo è che soltanto il cortigiano ha la sicurezza di poter condurre una vita a imitazione di quella del padrone. La stessa burocrazia si ha inoltre nella Chiesa, non per nulla d'accordo con lo stato al quale dà e dal quale riceve un valido sostegno. La miseria della massa si accentua, o quanto meno si fa più stridente il contrasto con la ricchezza ostentata dall'altra parte, e quella massa si tiene a bada con le feste durante le quali i poveri si contendono le elargizioni di pane e di vino e di qualche moneta. In una società così strutturata – grande merito del Trevor-Rooper è di tenere sempre in evidenza le strutture della società – è ovvio che l'ideale dell'alta e della media borghesia fosse il possedere in campagna una bella villa da raccogliervi le gioconde brigate degli amici tra i piaceri della mensa, della caccia, delle festose canzoni; e in città frequentare i cenacoli dei dotti, i cortigiani più cari al principe, e comprare, se sia possibile, un titolo di nobiltà. Questo era, e si diceva «decoro» ; che non ha niente a che vedere con l'antica «dignità».

Dal disinteresse al disprezzo per i«negozi» il cammino non sarebbe stato lungo e si sarebbe concluso fra il Quattrocento e il Cinquecento. Luigi Pulci, uomo del secolo XV, coinvolto nel dissesto di un'azienda, si ritirò, «disgustato», in villa al Palagio della Cavallina. Niccolò Martelli, uomo del secolo XVI, che lasciò egli pure gli affari, nel partire da Firenze disse di «volersi ricreare con i versi [ne scrisse tanti, e brutti, dedicati ai signori che lo ospitavano] dalle beghe della vile mercatura». Il ritratto che Giuliano de' Ricci, egli pure del Cinquecento, ha fatto di sé nella sua cronaca è quello di tanti altri giovani della sua generazione usciti da grandi famiglie mercantesche, e andati incontro «per amore delle lettere» ad amare delusioni.

A trent'anni accusava il padre di averlo costretto su una strada per lui sbagliata con l'avergli messo in mano un'azienda di battiloro, e si proponeva – rubando le ore alla bottega – di farsi grande con la penna come il nonno Niccolò Machiavelli e come Piero Vettori di cui aveva sposato una nipote: «…poiche la mia mala fortuna, la pusillanimità e la povertà di mio padre sono stati cagione che io, contro al genio mio et contro ogni mia inclinatione, sia applicatomi alla mercatura…». Alla vigilia della morte così dettava il breve e drammatico epitaffio che sarebbe stato appropriato sulla tomba: «non ho mai possuto né doverrò potere». In sostanza il negozio, trascurato, era andato avanti alla meno peggio; il proposito di scrivere «una vera storia» si ridusse alla raccolta di una enorme quantità di notizie – per la verità preziose per gli storici futuri – e così egli non superò il livello del priorista, del genealogista, del cronista; niente «decoro» a Corte durante la signoria di Francesco de' Medici, e qualche carica ottenuta da Ferdinando, uffici modesti del resto, ma di cui menò grande vanto nella cronaca che lasciò.

Se il Ricci fu un fallito, non altrettanto può dirsi di Lorenzo il Magnifico; ma ai successi nel campo politico e nelle lettere non fecero riscontro di certo quelli del Banco impiantato dal trisnonno Averardo, potenziato dal nonno Cosimo, mantenuto dal padre Piero e che, distratto da altre cure, portò alla rovina alla vigilia della morte. Comunque, senza pensare a un vero abbandono della pratica del commercio e dell'industria – nei secoli XV e XVI l'incremento dei traffici fu fenomeno generale dell'Europa e soltanto avvenne che l'Italia, pur portandovi il suo contributo, non ebbe più il posto avanzato caratteristica del passato –, negli affari si dette la preferenza a quelli finanziari che si concludevano in minor tempo, non ci si «sporcava le mani» con il tingere i panni, e se le cose andavano bene (i fallimenti dei sovrani di questo periodo non avevano i riflessi disastrosi di quelli dei sovrani precedenti), i profitti erano più elevati. Inoltre nel lavoro ci si conduceva in modo diverso. Per dirne una, per l'addietro gli stessi direttori delle grandi compagnie erano sempre in moto per seguirne personalmente lo svolgimento, per sorvegliare i collaboratori, e per il gusto – si è detto e lo ripeto – di conoscere cose nuove, uomini diversi. Un esempio particolarmente significativo perché prova una diligenza spinta fino al rischio della vita: Tommaso Peruzzi, che all'inizio della seconda campagna di Edoardo III in Francia, per la quale la sua compagnia si era impegnata fortemente sperando dalla vittoria delle armi inglesi una fortuna spettacolare, e rischiando in caso di insuccesso il disastro, partì ammalato di «male della ghola» per Londra e là morì all'indomani del forzato armistizio di Esplechin del 25 settembre 1340, dopo il quale il re sbarcò, solo e senza un soldo, alla Torre di Londra, e i suoi «diletti mercanti» si avviarono al fallimento. «Dì 3 d'ottobre anno 1340 martedì a primo sonno passò di questa vita Tommaso di Bonifazio Peruzzi in cui dicea il nome della compangnia Morìo a Londra in Inghilterra essendovi per la detta compangnia, e dì 25 d'ottobre dett'anno n'avemo le novelle in Firenze, e dì 26 d'ottobre se ne fecie il mestiere». Via via i grandi mercanti presero a chiudersi nello «studiolo», a ricevere i«fattori», a leggere la corrispondenza e rivedere i conti, a rispondere mandando ordini.


b) LA PATRIA. Per cogliere il passaggio da uno a un altro atteggiamento quanto al sentimento civico e a quello religioso, allo storico soccorre la documentazione eccezionale per quantità, per quasi completezza, per qualità, dell'Archivio Datini di Prato della seconda metà del Trecento e dei primissimi del Quattrocento. Porto una serie di dati che ordinerò per modo che sia possibile istituire un parallelo con quelli esposti a proposito del mercante, diciamo così di primo tipo, e, senza bisogno di commenti, i fatti parlino da sé.

Francesco di Marco Datini, mentre le truppe del cardinale Albornoz minacciavano Firenze, si trovava ad Avignone dove era rimasto dopo l'esodo dell'intera colonia dei suoi concittadini composta di più che 600 mercanti dei quali monopolizzò le procure per la prosecuzione dei loro affari fino eventualmente alla liquidazione con la promessa che vi avrebbe atteso come se fossero fatti propri. Tempo e modo ne aveva perché, accettando di contribuire alla raccolta del danaro occorrente a Gregorio XI per la sua guerra, non era molestato. Delle somme date al pontefice abbiamo un accenno accidentale, ma sintomatico, in una lettera del 10 giugno 1377 in cui si lamentava per una imposizione ritenuta eccessiva: «a me è convenuto pagare, a questo dì, per lo presto o altro che sia, al papa, fiorini dugentosessanta: sono stato messo fra i ricchi, ed io non sono». In realtà aveva fatto un affare, se più tardi rimpiangeva quei tempi fortunati: «in quegli anni mi vedea guadagnare tutti i danari che io volevo» .

In seguito, ormai ricchissimo e vecchio, ecco una frode al fisco in occasione della denuncia dei redditi: «fuori delle case ho poca o nulla possessione, e forse farebbe così i fatti miei chi me le tollesse come chi le difendesse… Io ho affari in Catalogna e a Vignone [due fra i centri dei suoi affari], oggi, ma i fatti miei vanno come possono: quando fia piacere di Dio, e io sia da tanto, ritrarrò quel ch'io potrò… tutte le mie possessioni, fuori delle case, non vagliono fiorini 2500... Francesco di Marco da Prato di mia propria mano, addì 12 di maggio 1401». Morendo, appena nove anni dopo, lasciò un patrimonio di fiorini 72.039 s. 9 d. 4, così composto: titoli del Monte (il debito pubblico di Firenze, ora i nostri Buoni del Tesoro), valore nominale fior. 21.425 s. 14 d.3, dai quali, venduti a una media del 47-49% si ricavarono fior. 10.712; presso la compagnia, fior. 16.634, 1 s.9, d. 6; terre e case, stimate fior. 11.243; crediti fior. 33.450.

Nel 1386, estratto a sorte per la più alta carica di governo della sua città, si nascose per non farsi trovare: «egl'è vero che fui tratto del mese di dicembre gonfaloniere di giustizia, e per non acetare l'uficio me ne andai a Firenze e steti serrato sei dì in uno bucho ».

Nel 1409 e nel 1410, passando Luigi II d'Angiò da Prato diretto a Napoli, lo ospitò nel suo palazzo, gli regalò 500 fiorini d'oro e il principe gli concesse di inserire nello stemma «un giglio d'oro della sua arma reale in campo azzurro».


c) LA FEDE. Sotto questo profilo è stato ricordato, a titolo di lode, il lascito di tutte le sostanze che il Datini fece a un'opera di beneficenza, il «Ceppo dei poveri»; ma va precisato che non aveva nessun parente né prossimo né lontano da istituire erede, né aveva fra i compagni delle aziende alcuno veramente caro da lasciargli una parte del suo avere. Fece tre testamenti. Da principio si orientò, sollecitato dagli interessati, a favore della Chiesa; ma alla fine Guido Del Palagio, suor Chiara Gambacorti e fra' Giovanni Dominici (più tardi esaltati alla dignità degli altari), che conoscevano il clero del loro tempo, lo dissuasero dal «disperdere i fiorini d'oro in prebende de' chierici», e a loro si aggiunse il suo notaio, Lapo Mazzei, il quale, pur religiosissimo, lo mise in guardia contro preti e frati «pappalardi», e«gente disutile», e contro gli stessi vescovi di Pistoia e di Firenze che, «se abbiano tutto l'avere vostro, consummarannolo e disfarannolo in debiti e in cavalli e in conviti». Non rimaneva, pertanto, che il Comune il quale offriva migliori garanzie di gestire il «Ceppo».

Altro atto di pietà, pure magnificato a sproposito, sarebbe la partecipazione al «pellegrinaggio dei Bianchi» del 1399 – pare 30.000 persone che, guidate dal vescovo di Fiesole, trascorsero per nove giorni il contado e il distretto di Firenze per «portare la pace alle famiglie che fussino in discordia fra loro» – pellegrini che si erano impegnati a camminare scalzi, a dormire all'aperto, digiunare il venerdì e gli altri giorni mangiare di magro e bere soltanto acqua. Come si svolse il viaggio «di penitenzia» e «di devozione» di Francesco di Marco lo racconta lui stesso in un quadernetto di «ricordanze» che sembra scritto dalla penna di un Boccaccio o di un Sacchetti: «In tutti huomini dodici, i quali tutti vennono meco in mia compangnia per avere il perdono del detto pellegrinaggio; e io feci a tutti le spese di mangiare e di bere e di ciò che bisognava loro. E per avere ciò checci bisognava da vivere, io menai meco due mie chavalle e lla muletta da cavalchare: in su le quali bestie mettemo un paio di forzeretti piccoli da soma in che ffurono più schatole di tutte ragioni, confetti, e gran quantità di ciera in torchietti e chandele e formagio d'ongni ragione e pane frescho e biscottato e berlinghozzi zucherati e non zucherati, e più altre cose che s'apartenghono alla vita dell'uomo, tanto che lle due chavalle furono pressoché chariche di vettuaglia; e oltre a questo portarono un gran saccho di grossi panni di dosso per avelli a' nostri bisongni dì e la notte. E lla muletta menai a ffine che, bisongnando per chasi che a quale si fosse di noi possono avenire bisongni di non andare a piede, quel tale la potesse chavalchare, e non manchare che, coll'aiuto di Dio, esseguisca il santo viaggio, con buono e divoto animo come si deì fare per chi va a servigio di Dio». Le spese, compreso il vino comprato a ogni osteria all'andata e al ritorno, furono di libr. 35 s. 1 d. 11 delle quali s. 1 d. 8 per elemosine «per dare per Dio».


d) IL MERCANTE E LA SOCIETÀ. A questo punto due chiarimenti. Uno: non si pensi il Datini carico di tutti i difetti e i grandi mercanti che lo avevano preceduto dotati di tutte le virtù. Anche i pionieri non erano stati esenti da pecche, e avevano peccato di fronte a Dio e avevano violato la legge terrena. Ma con grandezza. E nell'alternarsi in loro, e nel cozzare di opposti sentimenti – ognuno dei quali li impegnava senza riserve – si avverte la pienezza della vita: che si forgiava e si consumava in un grande fuoco di odio e di amore, di cupidigia e di generosità, di accortezza e di temerarietà. Nel Datini i difetti degradano a meschinità, e non stando più in primo piano ma essendo nascosti sotto il manto dell'ipocrisia, non hanno più fascino. La sete del guadagno diviene avarizia, la fede una commediola che recita senza provare l'interna rivolta al proprio peccato. Due: quale che sia la figura del Datini, non costituisce una eccezione (nel qual caso sarebbe arbitrario prenderlo a modello della classe mercantesca degli anni suoi). Per vero, al principio del Novecento Guido Biagi scrisse: «Quel Datini, diciamolo aperto, è il più esoso tipo di mercante che ci abbia dato quel secolo»; ma allo stato attuale delle conoscenze su tutto un ambiente, la situazione è cambiata, e si può concordare con quanto Cinzio Violante ha scritto in un meditato saggio su La società italiana nel basso Medioevo: «l'esempio tipico dell'uomo nuovo, tanto umanamente inferiore ai suoi predecessori, è Francesco di Marco Datini da Prato».

«Umanamente». Mi sono soffermato a lungo sul Datini (e ho proceduto in tutto questo racconto per «figure») perché ritengo con Lucien Febvre che a vedere più chiaro nei momenti di passaggio di una società la storia dei sentimenti, ricca di sfumature, può aprire qualche spiraglio di luce che può essere celato dalla cortina spessa dei fatti. D'altronde, il decadimento dei valori morali che si riscontra nel mercante di Prato si inserisce senza contraddizioni nel quadro della società che ho abbozzato in molti miei lavori, e che magistralmente hanno delineato il Jeannin e il Violante in scritti indicati nella bibliografia – esorto gli studenti a leggerli direttamente –, ai quali ho attinto con larghezza: ora riportando testualmente, ora riassumendo il loro pensiero. Il quadro, dicevo, di una società dominata dal Principe e dalla Chiesa alleati fra loro.

Una volta abdicato ai diritti del cittadino consegnandolo come suddito nelle mani del Principe, in parallelo ci si sottraeva – si intende non con la ribellione ma con la furberia – ai doveri. Perduta la piccola patria già difesa con passione consapevole (anche se non si avevano ancora sott'occhio i trattati del Machiavelli) «non ci si sarebbe preoccupati – dice il Violante – del crollo del sistema politico che mantiene in equilibrio instabile la pace e l'indipendenza di una patria più grande, di cui parlano – aulicamente – soltanto i letterati, o discorrono le cancellerie per celare interessi politici particolarissimi».

Più del Principe pesa la Chiesa la quale nel dettar norme alla vita economica, dopo aver lasciato la posizione dell'intransigenza degli inizi sotto la pressione della realtà creata dai mercanti, ora cerca di riguadagnare il terreno perduto approfittando del diminuire giorno per giorno della loro vitalità. San Tommaso aveva trovato sul punto cruciale dell'interesse del danaro una formula che aveva salvato la Chiesa dal perdere la società, o quanto meno dal dover procedere alla separazione del temporale dallo spirituale auspicata da Marsilio da Padova dopo il duello fra stato e Chiesa nel quale Filippo il Bello aveva riportato la vittoria su Bonifacio VIII. Ora Sant’Antonino e San Bernardino tornavano a tuonar contro l'usura [v. LETTURA 14] ravvisata (questione che ormai pareva superata) nella vendita a tempo e nei cambi, e contenuta nel monopolio. E si faceva di tutto per allontanare sempre di più il mercante dai suoi ideali, l'amore per la mercatura. Padre Castiglioni condannava «gli ingordi e cupidi che si espongono a molti pericoli di acqua e di fuoco, di terra e di mare, per guadagnare e acquistare… che tremano di paura che la nave non faccia naufragio, o che quel debitore non fallisca e non possa pagare» ; e preparava la predicazione di padre Segneri, il quale avrebbe domandato (anche se non ce n’era più bisogno perché nel Seicento la parabola aveva toccato la fine): «perché andare esuli dalle case paterne? perché trapassare tanti Appennini? perché travalicare tante Alpi? perché perdersi in tanti mari? rivoltate a terra le prore e non vi curate di affidare più la vita a un legno fragile».

Né la forza della Chiesa va sottovalutata. Se la sua intransigenza, almeno di principio perché moderata di fatto, si può dire che aveva protetto una società arretrata dalle conseguenze estreme di uno slancio economico rapido e addirittura tumultuoso, ora il tornare alla rigidità avrebbe arrecato danno a una società economicamente assestata in alto, e avviata, semmai, alla discesa. E tanto più in Italia che la barriera delle Alpi aveva posto al riparo dall'urto della Riforma. È vero che la casistica di accorti teologi come il cardinale De Vio e il gesuita Stefano Menochio apriva qua e là qualche breccia (ad ogni modo di ampiezza minore di quella aperta dall'Aquinate); ma il Concilio di Trento le avrebbe richiuse.

Comunque verso la fine del Cinquecento si è visto che l'economia italiana non era paralizzata, e, soprattutto nei grandi centri, si aveva una vita splendida. Il vero male, pertanto, fu l'inquietudine nel mondo degli affari, i cui operatori, i quali una volta avevano superato con la fierezza morale i drammi della coscienza, ora, impoveritisi moralmente, rimanevano invischiati nelle pastoie dell'incertezza. «Per concludere è proprio questa confusione – scrive P. Jeannin – che rispecchia nel modo più evidente lo spirito del secolo e la mentalità del mercante». Né chiarezza, del resto, c'era neppure nella Chiesa, che non affrontava la questione di  fondo, quella del profitto, ma girava attorno a quella dell'interesse, problema tecnico da risolvere con accorgimenti tecnici. Già nel Quattrocento Alessandra Macinghi Strozzi, nome affermato tra gli umanisti, e appartenente a una grossa famiglia mercantesca, era in dubbio se il gioco che faceva della compera al ribasso e della vendita al rialzo dei «luoghi di Monte» [v. LETTURA 15] (i titoli del debito pubblico di Firenze) era usura: i frati domenicani rispondevano sì, i francescani no – Matteo Villani dice che «la gente si stava intenebrata» – e lei, preferendo di essere ottimista, continuava le operazioni. Eugenio IV, del resto, non era nel 1432 uno dei principali creditori della Repubblica con i tanti titoli acquistati del Monte comune? Dopo che a me era occorso di darne una prova in base a elementi raccolti nell'Archivio di Firenze, recentissimamente una serie ben più ampia di documenti su «investimento e speculazione nel debito pubblico di Firenze», appunto di quel papa, l'ha tratta dagli Archivi vaticani Julius Kirshner, il quale ha aggiunto: «in modo simile, centinaia di ecclesiastici fiorentini possedevano quei titoli, e azionisti si trovano fra le alte gerarchie, per esempio l'arcivescovo Giovanni Vitelleschi, 1435, così come fra ecclesiastici più umili e monaci… la strada più sicura da scegliere per guadagnare» (più sicura perché seguita dallo stato capo della cristianità). Nel 1532 i mercanti spagnoli in Anversa sottoponevano un quesito analogo a quello della Macinghi ai teologi della Sorbona a proposito delle loro operazioni sui cambi; ed essi pure, nella non concordanza delle risposte, accettavano quella più comoda, e proseguivano. In sostanza, scrive il Jeannin, «tra la confusione che regna nelle idee si fa avanti tuttavia, dovunque, una tendenza più favorevole, a lungo andare, allo spirito del secolo, vale a dire alla realtà».

Si dirà che l'obbiettivo del mercante rimaneva lo stesso: fare il suo tornaconto durante la vita, e assicurarsi la felicità nell'aldilà. Ma prima, ribatto il chiodo, il pentimento era un atto fondamentale che doveva essere sincero – nulla esclude che lo fosse e qualche caso dei testamenti lo conferma –, mentre dopo bastava seguire, si intende a regola d'arte, le modalità del gioco, e poi, a meno che si avesse una coscienza e un'anima estremamente sensibili, il gioco era fatto senza bisogno di rimorsi e di atti di contrizione. È così che dopo che nel 1571 Pio V aveva proibito formalmente il deposito e i cambi da fiera a fiera, in una lettera da Lione dei mercanti lucchesi Buonvisi si legge (cito dal Jeannin perche non ho trovato il testo originale) «si è fatto servigio agli amici con grande fatica e non poco si è dovuto dissimulare». Nel testamento del genovese Lazzero Doria, del 1575, non si trova l'obbligo di rito agli eredi di accertare le eventuali usure del de cuius e restituirle, «perché i capitali da lui investiti in affari senza dubbio tutt'altro che cattolici, non erano suoi, ma li aveva presi a cambio». Ci mancava che per l'inferno designasse quegli altri, e il suo pensiero non potrebbe essere più chiaro. Cinismo o ipocrisia, si domanda il Jeannin? E risponde che «affermarlo significherebbe portare nella morale la nostra logica che è del tutto diversa da quella del secolo XVI». Proprio a questo volevo arrivare: non si tratta di un'eccezione, come non è una eccezione il Datini; si tratta della morale di tutta una società.

Quali erano le tante difficoltà di cui dicevano i Buonvisi? In sostanza la paura che i mercanti avevano dei membri della Chiesa, di tutti i gradi, i quali tenevano gli occhi aperti: «nella vigilanza sulle deviazioni dalla ortodossia ci si faceva sempre più diffidenti, esercitando i controlli soprattutto sugli uomini che viaggiavano e avevano relazioni con l'estero: il che ce lo dice con tutta evidenza un attestato di cattolicità rilasciato nel 1577 dal curato di una parrocchia di Rouen a un mercante della città che senza dubbio era nei guai con l'Inquisizione spagnola». E l'A. continua: forse proprio per quella paura, nelle famiglie dei mercanti si aveva, a titolo di osservatore o di parafulmine, qualche membro ecclesiastico o comunque uomo di curia, più o meno elevato di posizione a seconda della maggiore o minore importanza della famiglia stessa e dei suoi affari: «conoscere più a fondo in quale misura i figli dei mercanti erano membri dei capitoli e si trovavano nelle abbazie avrebbe un notevole interesse per la storia della Chiesa, della società e delle idee».

Nel concludere rinvio, chi lo voglia, al mio studio Cambiamento di mentalità del grande operatore economico tra la seconda metà del Trecento e i primi del Quattrocento, e preferisco continuare a riportare dal Violante e dal Jeannin, il cui pensiero collima col mio. Il Violante: «Tramonta dalla metà del secolo XIV la prima generazione di mercanti fatta di uomini arditi e avventurosi, costruttori della propria ricchezza con il lavoro e con il rischio... l'età eroica, comunale, dei mercanti italiani è finita». Il Jeannin: «Nel mondo dei mercanti, a tutti i livelli, la stessa ambizione sollecita gli uomini a uscire dalla situazione alla quale debbono la loro ascesa. I più ricchi si insinuano fra la più alta aristocrazia e gli altri, secondo le loro possibilità, comprano, magari un po' per volta, una nobiltà di grado inferiore. Nella maggior parte dei casi la proprietà fondiaria o l'acquisto di un ufficio, e spesso le due cose insieme, portano al passaggio da una posizione all'altra… Il ‘tradimento’ della borghesia si spiega appunto con la sua debolezza. Nell'atto di soddisfare la aspirazione ad ascendere alla nobiltà, la borghesia rinnega se stessa. È chiaro che non si tratta di una ‘rivoluzione’ dovuta al fatto inatteso della scoperta del nuovo continente che avrebbe d'un tratto sovvertito il vecchio mondo: il mercante del Cinquecento agogna troppo a tenere un posto nell'ordine stabilito per pensare a rovesciarlo e perfino che possa essere rovesciato».

Con espressione più cruda: finisce il tempo della prima sana borghesia e si fa avanti una di secondo tipo, clerico-conservatrice. Tutte e due hanno il vanto di avere dato il tono a una società: la prima a quella fino alla metà del Trecento, la seconda da mezzo Trecento in poi. Sotto questo profilo, piuttosto che sotto quello della maggiore o minore dimensione della produzione e dei traffici nelle due età, io colgo il senso vero della crisi del secolo XIV.

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06