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Fonti

Antologia delle fonti altomedievali

a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto

© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


IX
L’età carolingia / 3
Società, istituzioni, economia

7. La crisi della libertà nelle campagne e il problema della giustizia
(A) Capitolare Olonese mondano, KK 1, cc. 1-3 (825).
(B) I placiti del “Regnum Italiae”, FSI 92, 1, 49 (845).
(C) Codice Diplomatico Amiatino, 165 (887).
(D) Capitolare di Pipino, KK 1, c. 10 (790 circa).
       Capitolare generale dei messi, KK 1, c. 26 (802).
       Capitolare italico di Pipino, KK 1, c. 12 (801 (806?) - 810).
       Capitoli diretti dai missi dominici ai conti, KK 1, c. 5 (801-813).
       Capitolare di Héristal, KK 1, c. 22 (779).
       Capitoli che devono essere conosciuti mediante i missi, KK 1, c. 1 (803-813).
       Capitolare italico di Pipino, KK 1, c. 16 ( 801 (806?) – 810).

(A) 1. Stabiliamo che gli uomini liberi che hanno proprietà a sufficienza per poter fare il servizio militare, e, comandati di farlo, si rifiutano, disponiamo che la prima volta siano sottoposti alla pena stabilita nella legge della loro nazione; se saranno trovati una seconda volta inadempienti, pagheranno a noi una multa di sessanta soldi; se poi qualcuno sarà incorso una terza volta nella stessa colpa, sappia che perderà tutte le sue sostanze oppure sarà mandato in esilio. Quanto ai liberi di mediocre condizione, che non sono in grado di svolgere il servizio militare personalmente, affidiamo ai conti la cura di scegliere, fra due o tre o quattro di loro, o anche fra più se sarà necessario, quello che sembra il più valido, che farà il nostro servizio con il contributo degli altri. Quanto poi a coloro che per troppa povertà non sono in grado né di fare il servizio militare di persona, né di contribuire al servizio di altri, siano mantenuti in attesa che riescano a risollevarsi.

2. Gli uomini liberi che, non a causa della povertà, ma per evitare i servizi dello Stato, cedono i propri beni alle chiese con la frode e con l’inganno, e subito se li fanno restituire in usufrutto, dietro pagamento di un censo, disponiamo che, finché mantengono la disponibilità di quei beni, continuino a fare il servizio militare e tutti gli altri doveri pubblici. E se, comandati di farlo, mancheranno al dovere, diamo licenza ai conti di costringerli mediante quegli stessi beni, a meno che non faccia impedimento l’immunità da noi concessa [su quei beni], così che la struttura e l’interesse del regno non risultino compromessi da infrazioni di tal fatta.

3. Vogliamo che analoghe misure si osservino, per fatti come questi, anche quando si tratta di laici; vale a dire, se uno compera o in qualsiasi modo viene a mettere le mani sulla proprietà di un altro che può fare il servizio militare, e gliela dà indietro in concessione, se costui mancherà ai suoi doveri militari sarà costretto dal conte mediante la minaccia di confisca di quegli stessi beni, affinché in nessun modo il pubblico interesse risulti menomato.

Capitolare Olonese mondano, KK 1, cc. 1-3 (825).

Testo originale


(B) Nel nome di Gesù Cristo, nostro signore e Salvatore. Audiberto, abate del monastero di S. Maria, situato non lontano dalla città di Verona, presso la porta detta dell’Organo, venne alla presenza del gloriosissimo re Ludovico, figlio dell’imperatore Lotario, dicendo: “Il monastero e il relativo ospizio di S. Maria, fondati dal fu Lupo, duca, e da sua moglie Ermelinda, possiedono alcuni servi nella contea di Trento che dovrebbero fare le opere e altri servizi in favore del monastero, ma adesso, non so perché, si sottraggono a dette opere e servizi, per cui in questo territorio noi non abbiamo quel che ci spetta”. Allora il predetto re, tra i messi disponibili, scelse il giudice di palazzo Garibaldo e lo inviò a risolvere la contesa e a rendere giustizia all’abate. Giunto alla corte ducale di Trento, il giudice inviato Garibaldo, insieme con Paulicione, messo del duca Liutfredo e [suo] rappresentante, per ascoltare e deliberare in merito alle contese dei singoli uomini, fece riunire gli scabini Corenziano di Marco, un Corenziano di Cloz, Agilo di Pressano, Aledeo di Meano, Aldo di Feltre, Launulfo di Baviera, Fritari di Appiano, gli sculdasci Adelaldo, Starcfrido, Regimpaldo, l’arcidiacono di Trento l’arcidiacono di Verona Audo, il vassallo del duca Liutfredo Autperto, Pietro di villa Lagarina, Iso di Marco, Blando di Avezzano, Todo, Avardo di Pergine, Corenziano dello stesso luogo, Ortari di Fornace, Andelberto, Giso di Pressano, Odo di Meano, Andelberto di villa Lagarina, Eriberto, Pietro di Marco ed altri vassi dominici, tanto tedeschi che longobardi. Venuto alla loro presenza l’abate Audiberto, assieme ad Anscauso, avvocato del soprascritto monastero, contro Lupo Suplainpunio, figlio del fu Lupardo di Tierno proclamò: “Tu Lupo, soprannominato Suplainpunio, tuo bisnonno, tuo nonno, tuo padre, già dal tempo dei Longobardi e poi sotto i Franchi, e tu stesso più recentemente, per trent’anni, in qualità di servi avete prestato le opere in favore del monastero di S. Maria; non so perché adesso ti sottrai [ai tuoi doveri] e non fai più le dette opere”. A ciò Lupo rispose: “Non è vero che io e i miei avi abbiamo fatto le opere in favore del monastero di S. Maria in base alla nostra condizione servile, ma solo perché ci siamo commendati all’abate Ariperto”. Allora noi soprascritti scabini abbiamo chiesto a Lupo se poteva provare quello che diceva ed egli rispose di sì.

Quindi noi soprascritti scabini abbiamo stabilito di permettere a Lupo la ricerca dei testimoni ed egli stabilì come suoi garanti Dagiperto e Lubario. Si stabilì di riunire il processo nuovamente a Trento, presso la soprascritta corte ducale.

Anscauso, avvocato del soprascritto monastero, fece presente allora ai fratelli Martino e Gundaldo di Avio che anche essi, come i loro genitori, dovevano corrispondere le opere al monastero di S. Maria in qualità di servi. Ma essi replicarono: “Non è come dici tu, perché noi e i nostri genitori le opere per il monastero di S. Maria non le abbiamo fatte a titolo servile, ma come uomini liberi commendati”. Allora noi soprascritti scabini abbiamo chiesto loro se potevano provarlo ed essi risposero di sì. Abbiamo quindi dato loro il permesso di cercare le prove ed essi hanno stabilito come garanti per la successiva causa presso la corte ducale Isone ed Anscauso. Durante il medesimo processo il soprascritto Anscauso si rivolse a Vitale di Mori, a Maurontone di Castione [poco lontano da Mori] e ai fratelli Brunari, Bonaldo e Onorato di Tiemo, dicendo: “Anche voi e i vostri genitori avete fatto le opere per il monastero di S. Maria in qualità di servi e dovreste farle ancora; non so perché adesso avete smesso”. A ciò essi replicarono: “Non è vero che noi abbiamo fatto delle opere né come servi né per altro motivo, ma noi e i nostri genitori siamo sempre stati uomini liberi e tali dobbiamo restare”. Dopo aver udito ciò, noi soprascritti scabini abbiamo stabilito di dare loro il permesso di procurarsi i testimoni ed essi accettarono e scelsero come garante Launolfo, impegnandosi ad un secondo processo presso detta corte. Riunitisi di nuovo, come convenuto, a Trento, presso la corte ducale, il messo Garibaldo, il locoposito Paulicione, i soprascritti scabini e sculdasci e molte altre persone, vennero alla nostra presenza l’abate Audiberto con Anscauso, avvocato del soprascritto monastero, e dall’altra parte gli uomini con i quali il monastero era in lite. Per prima cosa, noi soprascritti scabini e astanti abbiamo chiesto a Lupo Suplainpunio se si era procurato i testimoni promessi ed egli rispose che li aveva e presentò come testimoni Launulfo e Giovanni di Baviera e Gisemperto di Lenzima. Appena i soprascritti testimoni vennero condotti alla nostra presenza, noi giudici li abbiamo fatti separare l’uno dall’altro e li abbiamo interrogati diligentemente e particolareggiatamente. Per primo parlò Launulfo e disse: “So di questa contesa che l’avvocato dell’ospizio di S. Maria Anscauso ha con Lupo Suplainpunio, il quale ha fatto le opere in favore dei monastero di S. Maria, come i suoi avi, per le terre sulle quali risiede, non però a titolo servile, ma solo per le terre tenute in locazione”. Giovanni e Gisemperto confermarono quello che aveva detto Launulfo. Resa la testimonianza, noi soprascritti scabini abbiamo detto all’avvocato Anscauso che, se aveva dei testimoni da contrapporre, li portasse pure alla nostra presenza. Anscauso rispose: “Sì, li ho, ma non ce n’è necessità, perché i testimoni che abbiamo ascoltato parlano più in favore del monastero cui appartiene l’ospizio di S. Maria che a vantaggio di Lupo Suplainpunio”.

Allora noi soprascritti scabini abbiamo stabilito che ognuno dei predetti testimoni, alla nostra presenza, ponesse la mano sul santo vangelo ed essi giurarono che quello che avevano detto in quel processo corrispondeva a verità e anche Lupo Suplainpunio confermò col giuramento che quanto i suoi testimoni avevano affermato in quella causa corrispondeva a verità. Fatto il giuramento e scoperta tutta la verità per mezzo di quei testimoni, a noi giudici fu chiaro come si doveva procedere e stabilimmo che il monastero di S. Maria aveva diritto) come è giusto, a ciò che i testimoni avevano affermato e la contesa fu terminata.

Nello stesso processo l’avvocato del soprascritto monastero Anscauso interpellò anche Martino, Gundaldo, vitale, Maurontone, Brunari, Bonaldo e Onorato: “Giustificate le vostre ragioni in merito alle opere, come ci avevate promesso”. E noi soprascritti scabini e astanti abbiamo chiesto se avevano dei testimoni, come avevano garantito. Ed essi risposero: “vorremmo averne, ma non possiamo”. Abbiamo chiesto allora perché non potevano avere dei testimoni ed essi dissero: “Non possiamo, perché effettivamente noi facevamo opere di trasporto con la zattera e portavamo a Verona derrate e dispacci secondo l’incarico che ci veniva dato dal monastero di S. Maria”.

Noi soprascritti scabini abbiamo chiesto allora se tali opere e ambascerie le facevano in qualità di servi o invece per le terre sulle quali risiedevano, ed essi risposero che tali opere e ambascerie le dovevano prestare per le terre sulle quali risiedevano. Udito ciò noi soprascritti scabini e astanti abbiamo deciso che il monastero di S. Maria avesse ciò che gli spettava. E la causa fu finita. Abbiamo quindi ordinato al notaio Grimoaldo di stendere l’atto di come si è svolta la causa e di quanto vi si è deliberato, affinché in futuro non sorga più altra contesa sull’argomento. Dietro comando dei soprascritti scabini, io, Grimoaldo, notaio e cittadino di Trento, ho scritto questo verbale del processo, nell’anno ventesimoquinto di regno del nostro invitto imperatore Lotario e nel quinto anno di regno del gloriosissimo re Ludovico, suo figlio, il ventisei di febbraio, indizione ottava, felicemente.

I placiti del “Regnum Italiae”, FSI 92, 1, 49 (845).

Testo originale


(C) Nel nome del signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Carlo serenissimo imperatore augusto, settimo anno del suo impero, mese novembre, giorno settimo, indizione sesta.

Io Pietro abate, vir venerabilis, rettore del monastero di S. Salvatore al Monte Amiata, ho stabilito – per nostro accordo e mediante questo livello – di confermare te, Waliprando, figlio del fu Liudifredo, nella casa e nei beni che sono situati nel casale Iusterna (tutto quello che tu oggi hai già nelle mani), e che sono di proprietà di S. Salvatore; e ho aggiunto a questa porzione un altro pezzo di terra nel medesimo casale, di cui ora definisco i confini […].

All’interno di questi confini confermo integralmente a te Waliprando e ai tuoi figli ed eredi tanto la casa con il suo piano superiore, la corte, gli orti, le terre e le vigne, i prati, le selve, i rivi e i pascoli, i beni mobili e quelli immobili, tutto ciò che nel suddetto casale e nelle sue dipendenze appartiene per legge a quella porzione e a quella che ho aggiunto; la confermo integralmente a te Waliprando a titolo di livellario; a queste condizioni, che tanto tu che i tuoi figli ed eredi per la suddetta casa e i suoi beni dovete fare delle corvées, e cioè lavorare manualmente una settimana su tre per il monastero (o per una sua dipendenza), e inoltre vi impegnate a migliorare le condizioni della casa e a non peggiorarle; e dovrete anche venire ai nostri comandi nel comitato di Chiusi per l’amministrazione della giustizia – sempre che noi vi giudicheremo secondo la legge – e niente altro. E se voi farete tutte queste cose, e io Pietro o i miei successori vi imporremo con la violenza qualcosa in più, allora io con i miei successori prometto di pagare a te Waliprando o ai tuoi figli ed eredi una multa di cento solidi; e voi potrete uscire da questa casa con tutti i beni mobili, perché così si è stabilito fra noi. Ugualmente prometto io Waliprando, con i miei figli ed eredi, a te Pietro e ai tuoi successori di rispettare in tutto queste norme che avete stabilito […]. Se non le rispetteremo in tutto, o lasceremo la casa e i suoi beni, allora prometto […] di pagare una pena simile di cento solidi; e usciremo dalla suddetta casa e dai suoi beni senza nulla, perché così è stato stabilito tra di noi.

Perciò abbiamo chiesto al notaio Pietro di scrivere due livelli contenenti il nostro accordo. Redatto a Chiusi.

Codice Diplomatico Amiatino, 165 (887).

Testo originale


(D) Vogliamo aggiungere che dove c’è la legge, essa prevalga sulla consuetudine e nessuna consuetudine abbia il sopravvento sulla legge.

Capitolare di Pipino, KK 1, c. 10 (790 circa).


Che i giudici giudichino con correttezza secondo la legge scritta e non secondo il loro arbitrio.

Capitolare generale dei messi, KK 1, c. 26 (802).


Vogliamo anche e comandiamo che i conti e i loro giudici non permettano di testimoniare a testi di cattiva reputazione, ma siano scelti uomini che abbiano buona fama tra i loro compaesani.

Capitolare italico di Pipino, KK 1, c. 12 (801 (806?) - 810).


Fate anche bene attenzione a che non si sorprenda né voi stessi né altri, per quanto vi è possibile provvedervi, a dire con malvage intenzioni mentre esercitate le vostre funzioni: “Tacete, tacete, finchè non sono passati i messi, poi faremo giustizia tra di noi”. In questo modo la giustizia si arresta o perlomeno è rallentata. Impegnatevi piuttosto a far sì che ogni questione sia risolta prima del nostro arrivo.

Capitoli diretti dai missi dominici ai conti, KK 1, c. 5 (801-813).


Se qualcuno al posto della faida non vuole accettare il prezzo [del risarcimento], allora ci sia inviato e noi lo manderemo là dove non potrà fare alcun danno. Allo stesso modo anche colui che non avrà voluto pagare il prezzo [del risarcimento] al posto della faida e quindi che non sia fatta giustizia, vogliamo mandarlo in un luogo tale affinchè per causa sua non venga fatto un danno maggiore.

Capitolare di Héristal, KK 1, c. 22 (779).


Che nessuno al mallum o al placito in patria porti armi, vale a dire lo scudo e la lancia.

Capitoli che devono essere conosciuti mediante i missi, KK 1, c. 1 (803-813).


Che i padroni processino e interroghino i loro servi come preferiscono.

Capitolare italico di Pipino, KK 1, c. 16 ( 801 (806?) - 810).

Testo originale

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05