Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”
1. L’invasione d’Italia (A) Paolo Diacono, Storia
dei Longobardi, FV, II, 4, 6, 7. (B) Paolo Diacono, Storia
dei Longobardi, FV, II, 9, 12, 14, 25, 27, 28. (C) Giovanni Diacono, Cronaca
veneziana, p. 63. (A) In quei tempi scoppiò
una pestilenza gravissima che colpì soprattutto la provincia
di Liguria […]. Dappertutto era lutto, dappertutto lacrime. Poichè
si era sparsa la voce che fuggendo si poteva scampare al flagello, le
case venivano abbandonate dagli abitanti e solo i cani vi restavano
a fare la guardia. Le greggi rimanevano da sole nei pascoli, senza più
pastore. Le tenute e i castelli prima pieni di folle di uomini, il giorno
dopo, fuggiti tutti, apparivano immersi in un silenzio totale. Fuggivano
i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; i genitori, dimenticati
l’amore e la pietà, abbandonavano i figli in preda alla
febbre […]. Non c’era traccia di uomini per le strade, non
si vedeva nessuno che colpisse, eppure i cadaveri dei morti giacevano
a perdita d’occhio. I pascoli si erano trasformati in luoghi di
sepoltura per gli uomini e le case degli uomini in rifugi per le bestie.
Questi mali colpirono solo i Romani e l’Italia, fino ai confini
con le genti alamanne e bavare.
Alboino, in procinto di partire per l’Italia, chiese aiuto ai
suoi vecchi amici Sassoni, per avere un maggior numero di uomini con
cui invadere e occupare il vasto territorio italiano. Più di
ventimila Sassoni, con donne e bambini, accorsero al suo appello, per
andare con lui in Italia. Quando lo seppero, Clotario e Sigeperto, re
dei Franchi, fecero trasferire gli Svevi ed altre genti nelle terre
da cui erano usciti i Sassoni.
Allora Alboino assegnò le sue sedi, cioè la Pannonia,
ai suoi amici Unni, con il patto che, se in qualsiasi momento i Longobardi
si fossero trovati nella necessità di tornare, avrebbero riavuto
indietro le loro terre. I Longobardi dunque, lasciata la Pannonia, si
mossero con le mogli, i figli e tutti i loro beni, per impossessarsi
dell’Italia. In Pannonia erano rimasti quarantadue anni. Ne uscirono
nel mese di aprile, nella prima indizione, il giorno dopo la santa Pasqua,
la cui festa, secondo il computo, cadde quell’anno il primo di
aprile, trascorsi già cinquecentosessantotto anni dall’incarnazione
del Signore.
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, FV, II, 4,
6, 7. Testo originale (B) Di lì Alboino, dopo
aver varcato senza nessun ostacolo i confini della Venezia, che è
la prima delle province d’Italia, ed essere entrato nel territorio
della città o piuttosto del castello di Cividale, cominciò
a considerare a chi fosse meglio affidare la prima provincia che aveva
conquistato. È da dire che tutta l’Italia, che si estende
verso mezzogiorno o meglio verso sud-est, è circondata dalle
acque del mare, Tirreno da una parte, Adriatico dall’altra, e
ad occidente e settentrione é chiusa dalla catena delle Alpi,
in modo che non si può entrare in essa se non attraverso passaggi
strettissimi o salendo sulle cime dei monti; invece dalla parte orientale,
dove si congiunge con la Pannonia, ha un ingresso anche troppo aperto
e del tutto agevole. Per questo, come abbiamo detto, Alboino, riflettendo
su chi dovesse stabilire come comandante in quel territorio, decise
di mettere a capo della città di Cividale e di tutta quella regione
Gisulfo, a quanto si dice suo nipote, uomo sotto ogni aspetto idoneo,
che era suo scudiero o marpahis, come dicono nella loro lingua.
Ma Gisulfo dichiarò che non avrebbe accettato il governo di quella
città e di quel popolo, se non gli avesse assegnato le fare di
Longobardi – cioè i gruppi o discendenze familiari –
che egli stesso avesse scelto. Cosi fu fatto e, con il consenso del
re, prese le migliori schiatte, che aveva chiesto, perché vivessero
con lui. Cosi finalmente ottenne l’onore ducale. Domandò
inoltre al re delle mandrie di cavalle di buona razza e anche in questo
fu accontentato dalla generosità del principe.
Quindi Alboino giunse al fiume Piave e lì gli venne incontro
il vescovo di Treviso, Felice: su sua richiesta, il re – generoso
com’era – gli permise di conservare tutti i beni della sua
chiesa, confermando la concessione con un decreto.
Dunque Alboino prese Vicenza, Verona e le altre città della Venezia,
ad eccezione di Padova, Monselice e Mantova. La Venezia infatti non
è costituita solo da quelle poche isole che ora d chiamiamo Venezia,
ma il suo territorio si estende dai confini della Pannonia fino al fiume
Adda.
Alboino entrato in Liguria, fece il suo ingresso a Milano all’inizio
della terza indizione, il giorno tre di settembre, al tempo dell’arcivescovo
Onorato. Dopo di che prese tutte le città della Liguria, eccetto
quelle poste sul litorale marino. L’arcivescovo Onorato abbandonò
Milano e fuggì a Genova. Intanto il patriarca Paolo, dopo dodici
anni di pontificato, fu sottratto a questa vita e lasciò il governo
della Chiesa a Probino.
Ma la città di Ticino, che sopportava l’assedio da tre
anni e alcuni mesi, alla fine si arrese ad Alboino e ai Longobardi che
l’assediavano. Mentre Alboino entrava in città dalla parte
orientale, attraverso la porta che è detta di San Giovanni, il
suo cavallo cadde proprio al passaggio della porta e, per quanto spronato,
per quanto colpito di qua e di là con le lance, non si riusciva
a farlo rialzare. Allora uno degli stessi Longobardi si rivolse al re
e disse: “Ricordati, o mio re, del voto che hai pronunciato. Rompi
un voto così duro ed entrerai nella città: perché
questo popolo è veramente cristiano”. Alboino aveva infatti
giurato che avrebbe passato a fil di spada tutta la popolazione, perché
non aveva voluto piegarsi. Ma quando, rompendo questo voto, promise
indulgenza ai cittadini, subito il cavallo si rialzò ed egli,
entrato nella città, mantenne fede alla sua promessa non recando
offesa ad alcuno. Allora tutto il popolo, accorrendo a lui nel palazzo
che il re Teodorico aveva un tempo costruito, cominciò dopo tante
miserie a risollevare l’animo, già fiducioso in un futuro
migliore.
Ma il re, dopo aver regnato in Italia per tre anni e sei mesi, fu ucciso
per il tradimento della moglie.
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, FV, II, 9,
12, 14, 25, 27, 28. Testo originale (C) Le popolazioni della medesima
provincia, rifiutando di sottostare al comando dei Longobardi, si recarono
nelle isole vicine e in questo modo il nome di Venezia, dalla quale
erano fuggite, fu assegnato a quelle stesse isole e quelli che tuttora
vi abitano sono chiamati Venetici. Heneti, nonostante in latino abbia
una lettera in più, in greco significa degni di lode. Dopo avere
deciso di stabilire la sede delle loro future abitazioni in quelle isole,
edificarono dei munitissimi castelli e città e ricrearono per
loro una nuova Venezia e una straordinaria provincia.
Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, p. 63. Testo originale
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