Logo di Reti Medievali

Didattica

Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XIII
Chiesa e società cristiana (XII-XIII secolo)

2. Il papato romano verso il governo della christianitas
(A) Ekkeardo di Aura, Cronaca universale, SS 6, anno 1116.
(B) Giovanni di Salisbury, Storia pontificia, pp. 80-81.
(C) Bernardo Di Clarivaux, Elementi di riflessione al papa Eugenio III, PL 182, III, 1-2.
(D) Giovanni di Salisbury, Policratico PL 199, VI, 24.
(E) Gerhoh di Reichersberg, Opuscolo per indagare sull'Anticristo, LdL 3, I, 51.

Nell'età post-gregoriana si avvia il costituirsi della cosiddetta monarchia papale: un processo che sul versante degli organismi di governo ecclesiale comportava l'abbandono di quel riferimento ideale alla povertà della chiesa primitiva che pure era stato presente nei moti riformatori, e che ancora nel XII secolo dava vita al sorgere di nuovi o rinnovati ordini religiosi. In tal senso suona emblematico della realtà ecclesiale post-gregoriana il discorso con il quale – stando alla testimonianza quasi coeva del Chronicon di Ekkeardo di Aura (A) – il papa Pasquale II, nel concilio Lateranense del 1116, avrebbe incoraggiato, da parte della chiesa, il possesso dei beni e l'esercizio dei diritti di governo inerenti alla loro gestione. Si affermava dunque, nel XII secolo, una concezione della organizzazione ecclesiale che risentiva di una assimilazione ai criteri del potere secolare – e l'omologazione tra il modello secolare e quello ecclesiastico traspare in una pagina dei Policraticus (D), il trattato di governo composto intorno al 1159 dal chierico inglese Giovanni di Salisbury. Definite così le coordinate ideologiche entro le quali si venivano organizzando le applicazioni concrete dei principio dei primato romano, va poi detto che l'effettivo costituirsi di una monarchia papale si attuò progressivamente attraverso il moltiplicarsi delle funzioni della curia: corpo ecclesiastico ed amministrativo preposto un tempo alla città di Roma, i cui compiti si ampliarono all'intera christianitas allorché questa riconobbe nel papato l'istanza suprema per dirimere le questioni più varie. La Historia pontificalis (B) dei già citato Giovanni di Salisbury - che affida a quest'opera (ca. 1163) le sue memorie della corte pontificia degli anni 1148-1152 – è in tal senso una testimonianza esemplare di come la curia papale stesse assumendo il ruolo di centro di governo della cristianità latina. È fin troppo ovvio che il processo di centralizzazione e secolarizzazione della chiesa dovesse suscitare le critiche più diverse: dalle frange dissidenti come dai nuovi ordini religiosi, dalle gerarchie intermedie come dal potere secolare. Attenendoci alle critiche mosse dall'interno della chiesa stessa – addirittura dal fautori della supervisione monarchica attuata dal papato sulla cristianità vediamo che l'abuso dei ricorsi a Roma ed il fasto dei curiali costituiscono i maggiori oggetti di scandalo: come può scorgersi nel De consideratione ad Eugenium papam (C) – scritto tra il 1149 ed il 1153 da Bernardo di Clairvaux – o nel De investigatione Antichristi (E) scritto tra il 1160 ed il 1162 dal canonico tedesco Gerhoh di Reichersberg.


(A) A. 1116 […] Nel medesimo anno, diciottesimo dall'ordinazione dei papa Pasquale II, il 6 marzo a Roma, nella sede del Laterano, nella chiesa del Santo Salvatore, detta anche Costantiniana, si tenne un sinodo con la partecipazione, da varii regni e province, di vescovi, abbati duchi e conti cattolici, e di numerosissimi messi di tutte le province.

[Il sinodo, aperto il martedì della terza settimana di Quaresima, per volontà del papa condannò il privilegio con il quale Pasquale II, nel 1111, aveva concesso ad Enrico IV il diritto di investitura][1].

Il venerdì il papa si volse a considerare la situazione generale di tutte le chiese, e poiché Giovanni Caetani con Pietro Leone [2] e con gli altri fedeli dei re si opponeva al vescovo Conone di Palestrina [3] che più volte aveva cercato di riferire la sentenza di scomunica, il papa sedò il tumulto con un gesto della mano e con parole di questo tenore: «La chiesa primitiva, all'epoca dei martiri, fiorì presso Dio e non presso gli uomini. Poi però i re, gli imperatoti romani ed i principi si sono convertiti alla fede e, come figli devoti, hanno voluto onorare la loro madre chiesa, conferendo alla chiesa del Signore beni immobili ed allodi, onori e dignità secolari, diritti ed insegne regali, come fecero ad esempio Costantino ed altri fedeli; la chiesa prese allora a fiorire tanto presso gli uomini quanto presso Dio. La chiesa, nostra madre e signori, possieda dunque le cose che le sono state conferite dai re e dai principi, e le dispensi e distribuisca ai suoi figli come sa e come vuole». Volendo poi annullare il “pravilegio” dell'investitura, che aveva concesso nell'accampamento reiterò la sentenza di papa Gregorio VII e scomunicò l'investitura laica [4] di prerogative ecclesiastiche, colpendo di anatema chi la dava e chi la riceveva.

Ekkeardo di Aura, Cronaca universale, SS 6, anno 1116.

[1]Il privilegio, concesso da papa Pasquale II [cfr. cap. 2, 19] in stato di prigionia e definito pravilegium era stato già condannato due volte nel 1112: da un sinodo romano presieduto dal papa e da un concilio tenuto a Vienna.
[2] Il futuro papa Anacleto li, protagonista dello scisma dei 1130.
[3] Nel 1115 Conone di Palestrina e Teodorico di Niem legati del papa in Germania, avevano pronunciato la sentenza di scomunica contro Enrico V (1106-1125).
[4] Il papa non intervenne a scomunicare direttamente l'imperatore perché durante la prigionia aveva giurato che non avrebbe agito in tal senso.


(B) Morì Ugo, abate di S. Agostino di Canterbury, e gli successe Silvestro, priore della medesima abbazia [1]. La sua elezione fece nascere in molti il sospetto di simonia, perché il re aveva ricevuto 500 marchi per consentire ai monaci la completa libertà di elezione e la assoluta disponibilità dei beni durante il periodo di vacanza dell'abbazia. Questo sospetto cadde sul priore dal momento che era stato lui a stipulare l'accordo ed a pagare, ed era poi stato eletto. Comunque, poiché non vi era nessuno che lo accusasse pubblicamente (ciò comportava dei rischi, perché l'accusa veniva a toccare lo stesso re e i funzionari dell'aula regia) l'arcivescovo di Canterbury [2] confermò l'elezione. Ma nacque allora una disputa a proposito del luogo della consacrazione, poiché certi privilegi stabilivano che l'abbate di S. Agostino, senza recarsi altrove, dovesse essere consacrato nell'abbazia stessa. Era però messa in discussione l'autenticità di quei privilegi, sia perché non erano redatti nello stile di scrittura usato dalla chiesa romana, sia perché, dal confronto tra il testo scritto e la bolla, emergeva che quei privilegi non potevano essere stati rilasciati dai pontefici di cui portavano il nome. Inoltre non c'era mai stata una tale consuetudine, perché si sapeva che gli altri abbati di S. Agostino erano stati consacrati in chiese arcivescovili. La disputa si protrasse per circa un anno ed alla fine fu portata davanti al papa Eugenio [3].
Sugeri, abate di S. Dionigi, morì lasciando la sua chiesa in perfetto ordine [4]. Gli successe Otto, primo abbate di Compiègne, che era stato anche monaco di S. Dionigi. Ma, dimentico dei benefici di Sugeri, cercò di annientare tutta la stia parentela ed indebolì e colpì in molti modi la stia chiesa. Non vi fu nessuno che proteggesse i parenti di Sugeri, dal momento che il re [5] faceva finta di non accorgersene ed anzi perseguitava alcuni di essi in quanto Simone, un nipote di Sugeri, era incorso nella sua ira e per essergli divenuto odioso aveva perso il suo incarico nella cancelleria regia, era stato cacciato dal regno e si era rifugiato presso il papa Eugenio. Il papa lo accolse con benevolenza e, con un gesto senza precedenti che provocò stupore in una lettera di protezione, al di là dei formulario comune gli concesse il privilegio di non dover rispondere a nessuna accusa se non alla presenza dei papa. Alla fine, poiché Eugenio lo aveva sostenuto contro il principe cristianissimo [6] dei quale era assai amico Simone ritornò in grazia, benché i vescovi mal tollerassero la forma del già menzionato privilegio perché sembrava incoraggiare i crimini e spingere i rei a cercare un privilegio simile.
Dopo la morte di Roberto, vescovo di Londra (per avvelenamento, secondo una diffusa opinione), papa Eugenio ordinò al clero della città che eleggessero, nel termine di tre mesi, un uomo onesto, colto e “vestito di abito religioso”. Quelli, temendo che ciò escludesse la possibilità di eleggere uno di loro, mandarono a chiedere a Roma ed ottennero in una lettera papale questa interpretazione dell'ultima clausola: che non solo i monaci ed i canonici regolari ma anche quelli che volgarmente sono detti “secolari” potevano essere designati come “vestiti di abito religioso”, perché quando qualcuno riceveva la tonsura chiericale – come mostrano le parole di consacrazione – assumeva l'abito della santa religione. Tuttavia nella curia vi erano persone le quali affermavano che questa interpretazione era insensata altrimenti sarebbe stata superflua la clausola delle prime disposizioni, a meno che il papa non avesse timore che i Londinesi intendessero scegliersi un laico come vescovo. Da parte stia il re non volle concedere la libertà di elezioni prima del pagamento di 5000 marchi, secondo il precedente dei monaci di S. Agostino. Dopo l'avvenuto pagamento, fu eletto Riccardo, arcidiacono di Londra; non senza sospetto di simonia, dal momento che era stato lui a condurre le trattative sul denaro e che a quel tempo molti occultavano la simonia col pretesto di riscattare il diritto di elezioni libere.

Giovanni di Salisbury, Storia pontificia, pp. 80-81.

[1] Gli eventi ai quali R. fa riferimento si collocano nel giugno 1151, quando in Inghilterra era re Stefano di Blois (1135-1154). Il monastero benedettino di Canterbury era stato fondato nel 597 dal missionario Agostino ed era stato a lui intitolato dopo la sua morte (604/05).
[2] Arcivescovo di Canterbury (sede primaziale della chiesa inglese dai tempi di Agostino) era dal 1138 Tebaldo (m. 1161), immediato predecessore di Thomas Becket.
[3] Eugenio III (1145-1153). L'A., a partire dal concilio di Reims del 1148, aveva accompagnato il pontefice nelle sue peregrinazioni, lavorando fino al 1154 nella cancelleria pontificia. La sua Memoria, elaborate negli anni 1163-65, si rifà dunque ad una esperienza di primissima mano.
[4] A Sugeri (m. 1151), dal 1122 abate della famosa abbazia di S. Dionigi, presso Parigi, si deve la costruzione della nuova chiesa abbaziale che in parte ancora sussiste. Sugeri fu autore di una biografia del re francese Luigi VI.
[5] Era allora re Luigi VII (1137-1180), di cui Sugeri era stato amico e collaboratore.
[6] Luigi VII.


(C) O ambizione, croce di coloro che vanno dietro ai propri scopi, come mai piaci a tutti, anche se non dai tregua a nessuno? Non vi è pungolo più acuminato, rovello più molesto, eppure tra i miseri mortali nulla ha più successo che i tuoi intrighi. Le visite alla sede degli apostoli non sono forse dovute più che alla devozione, all'ambizione? Il vostro palazzo non risuona forse tutto il giorno dei suoi clamori? La scienza delle leggi e dei canoni non si affatica forse per le sue esigenze? E la rapacità italica, con avidità insaziabile, non va forse dietro alle sue spoglie? Come mai essa ha potuto, oltre che interrompere addirittura troncare le tue [1] occupazioni spirituali? Quante volte questo male inquieto ed inquietante non ha vanificato la tua santa e feconda tranquillità? Altra cosa è quando gli oppressi si appellano a te, altra quando l'ambizione trama, per tuo tramite per regnare nella chiesa. Agli oppressi tu non devi venire a mancare, ma all'ambizione non devi in alcun modo venire incontro. Quale ingiustizia, se quella è fomentata, e gli altri sono disprezzati! Tu hai infatti un debito per gli uni e gli altri: nei confronti degli oppressi, per sostenerli, e nei confronti degli ambiziosi, per reprimerli.
E poiché è caduto il discorso sugli appelli, proseguire alquanto sul tema non sarà fuori di proposito. […] Da tutto il mondo si fa appello a te: e questo a testimonianza del tuo singolare primato. Ma tu, se sei saggio, non ti rallegrerai per il tuo primato, ma per il frutto che puoi produrre. Agli apostoli è stato detto: Non rallegratevi per il fatto che gli spiriti vi sono soggetti [2]. Si fa appello a te, dicevo. E magari lo si facesse quando è necessario, ed in maniera fruttuosa! […] Appellarsi ingiustamente è iniquo, e l'iniquità che resta impunita fomenta altri iniqui appelli. […] I buoni sono chiamati in appello dai malvagi perché desistano dal bene, ed essi, per paura, rifuggono dal venire ad ascoltare la tua voce che ha la potenza del tuono. I vescovi sono chiamati in appello perché non osino sciogliere o impedire i matrimoni illeciti. 
Sono chiamati in appello perché non ardiscano in alcun modo punire o reprimere rapine, furti, sacrilegi e simili azioni. Sono chiamati in appello perché non possano respingere o rimuovere dagli uffici e dai benefici sacri persone indegne ed infami. Quale riparo troverai a questo flagello, affinché ciò che era stato escogitato perché servisse come rimedio non si tramuti in strumento esiziale? Il Signore ha mostrato zelo verso la sua casa di preghiera, trasformata in spelonca di ladri [3]; e tu, suo ministro, fai finta di non vedere che il rifugio degli oppressi ha fornito armi all'iniquità? Vedi che le patii degli oppressi non hanno luogo, mentre accorrono a presentare appello non quelli che hanno subito un torto, bensì quelli che vogliono compierlo? Che mistero è questo? Non spetta a me commentarlo, ma a te riflettervi. « Ma perché – tu dirai – coloro che sono stati chiamati ingiustamente in appello non vengono a mostrare la propria innocenza ed a dare prova della malizia altrui?» Ti rispondo ciò che essi stessi sono soliti dire a questa obiezione: « Non vogliamo essere tartassati invano. Nella curia ci sono persone che favoreggiano chi presenta appello, che incoraggiano gli appelli. Se poi dobbiamo arrenderci a Roma, tanto vale arrenderci in casa nostra». Ammetto di non negare la credibilità della loro risposta. […] Tu allora non ritenere superfluo il fermarti a riflettere su come poter ricondurre il diritto di appello all'uso legittimo. E se cerchi, o ti interessa, il mio parere, io dico che il diritto di appello non va disprezzato, ma neppure distorto. […] Avrei potuto utilmente aggiungere molte altre cose sull'argomento, ma, memore del mio proposito, mi accontento dell'occasione, e passo ad altro.

Bernardo Di Clarivaux, Elementi di riflessione al papa Eugenio III, PL 182, III, 1-2.

[1] L'interlocutore è il papa Eugenio III già monaco cisterciense.
[2] Lc. 10, 20.
[3] Cfr. Mt. 21, 13; Mc. 11, 17; Lc. 19, 46.


(D) Ricordo che una volta, giunto in Puglia per visitare il Pontefice Adriano IV [1], fui accolto con la più grande familiarità e rimasi con lui a Benevento per circa tre mesi. Spesso conversavamo insieme amichevolmente di svariati argomenti, tanto che un giorno egli mi chiese di dirgli, in via confidenziale e senza reticenze, quali fossero i sentimenti del popolo verso di lui e verso la Chiesa di Roma. Io, ormai abituato a parlar schiettamente, esposi con franchezza gli abusi di cui avevo sentito parlare nelle diverse province.
«La Chiesa romana che è madre di tutte le chiese – si diceva comunemente – più che da madre si comporta da matrigna. Vi si sono insediati scribi e farisei che impongono sulle spalle dei fedeli pesi intollerabili, che essi stessi non osano toccare nemmeno con un dito [2]. Anziché essere d'esempio al gregge per condurlo alla vita lungo la via retta ed angusta, essi dominano sul clero, ammassano oggetti preziosi, caricano d'oro e d'argento le loro mense, e sono così avari da non concedere nulla nemmeno a se stessi [3]. Nessun povero viene ammesso fra di loro, se non raramente e più per vanagloria che per amore di Cristo. Essi opprimono le chiese con estorsioni, provocano liti e conflitti fra clero e popolo, non hanno compassione alcuna per chi sia afflitto da sofferenze e miserie, gioiscono nello spogliare le chiese e considerano ogni guadagno un atto di pietà; rendono giustizia non secondo verità ma secondo il denaro che viene loro offerto: infatti col denaro si ottiene tutto e subito, senza denaro nulla e mai [4], spesso e commettono peccati e, quando se ne astengono, sono convinti, come i demoni, di aver fatto il bene. Lo stesso Pontefice romano – si diceva – è per tutti un peso quasi intollerabile; e – ci si lamentava – mentre le chiese edificate dalla devozione dei padri cadono in rovina e gli altari vengono abbandonati, il Papa ha costruito per sé palazzi e si riveste non solo di porpora, ma d'oro: le case dei prelati risplendono, e la Chiesa di Cristo si insozza sempre di più.
Essi rapinano le province nel tentativo di ricostruire il tesoro di Creso [5].
Ma l'Altissimo, trattandoli secondo giustizia, li consegna nelle mani di altri uomini, spesso vilissimi perché siano depredati […]».

[Il papa risponde con l'apologo di Menenio Agrippa – per cui la voracità dello stomaco consente la vita delle membra – e conclude così.]

«Se considererai le cose con attenzione – fratello – ti accorgerai che lo stesso accade nel corpo dello stato, dove i magistrati hanno davvero grandi pretese, ma per soddisfare non tanto se stessi quanto gli altri: e se tali loro pretese non saranno soddisfatte essi non avranno nulla da distribuire alle membra […]. Perciò non devi condannare la prepotenza nostra o dei principi secolari, ma piuttosto considerare quale sia l'utilità generale».

Giovanni di Salisbury, Policratico PL 199, VI, 24.

[1] Adriano IV (l'inglese Nicola Breakspear), papa dal 1154 al 1159, era stato compagno di studi dell'A., il quale, pur avendo assi a dal 1154 la carica di segretario dell'arcivescovo di Canterbury ebbe ancora occasioni di recarsi in Italia. Il soggiorno di entrambi in Puglia colloca tra il 1155 ed il 1156.
[2] Cfr. Mt. 23, 2-4, Lc. 11, 46.
[3] Cfr. 1 Piet. 5, 3.
[4] Giovenale, Satirae, III, 183-184.
[5] Re di Lidia dal 560 al 546 a.C., famoso per le sue leggendarie ricchezze.


(E) Questo fasto dei legati si è certo accresciuto nei tempi moderni.
Infatti, al tempo della mia adolescenza, io ho visto i personaggi di maggior spicco della curia, i cardinali Gerardo di Santa Croce – che fu poi papa Lucio [1] – e Martino di beata memoria, che avevano nel loro seguito nove o dieci cavalli per uno e che al loro arrivo portavano la letizia alle città e ai monasteri, lasciandovi la loro benedizione alla partenza: veri cittadini della città dei santi e veri servi dei Signore che portavano la pace e mettevano in luce la patria celeste. Ma quanti furono così a quel tempo, e quanti di questo tipo pensiamo di poterne trovare oggi, al confronto della gran massa degli altri, che cercano ciò che è loro, non ciò che è di Cristo? Certo si trova una moltitudine di questi che vogliono comandare, più che giovare, che vogliono avere il nome di pastore, non esserlo realmente. Cosa si debba dire loro lo dice il Signore: Siete venuti da me, non perché avete veduto i segni, ma perché avere mangiato il mio pane [2]. Affidare ad amici simili la mensa della chiesa è ovunque pernicioso, ma specialmente nell'urbe che è capo dei mondo; ed è tanto più dannoso in quanto da parte di tutte le chiese si può fare appello al vescovo di tale sede, e gli oppressi possono ricorrervi da tutte le parti dei mondo, come per trovarvi asilo.

Gerhoh di Reichersberg, Opuscolo per indagare sull'Anticristo, LdL 3, I, 51.

[1] Gerardo Caccianemico di Bologna fu papa, coi nome di Lucio II, dal 1144 al 1145. Da cardinale, come legato pontificio in Germania, aveva assistito alla elezione regia di Lotario di Supplimburgo (1125).
[2] Giov. 6, 26.

 

© 2000-2005 Reti Medievali Ultimo aggiornamento: