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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XIV
Svevi e Angioini

11. Dai vespri al conflitto con gli Aragonesi
(A) Saba Malaspina, Storia dei fatti di Sicilia, VI, 7.
(B) Saba Malaspina, Storia dei fatti di Sicilia, VII, 1-2.
(C) Bartolomeo di Neocastro, Storia Siciliana, 14.
(D) Giovanni Villani, Nuova Cronica, VIII, 69.

L'episodio della ribellione palermitana dei Vespri contro gli Angioini (1282), anch'esso molto orientato, nei resoconti delle fonti e caricato più tardi di significati nazionali ad esso del tutto estranei (se non eventualmente in senso siciliano), è qui presentato con le parole di Saba Malaspina, che biasima i “malvagi consiglieri” di Carlo, che per lui sono stati la vera causa dell'insurrezione (A), e di Bartolomeo di Neocastro, giurista, magistrato a Messina al momento dell'insurrezione, tutto schierato invece contro i Francesi oppressori (C). Sullo sfondo, le manovre degli Aragonesi: Pietro re d'Aragona e genero dei defunto Manfredi (tramite la moglie Costanza, figlia di Manfredi) fa preparativi (B), finge un attacco a Tunisi ed attende invece l'arrivo dei rivoltosi, che lo chiamano in Sicilia e lo innalzano al trono. Vane sono le richieste d'aiuto di Carlo verso la Francia: la Sicilia comincia a sfuggirgli di mano. Dopo vent'anni di guerra, la pace di Caltabelotta dei 31 agosto 1302 vedrà Carlo II d'Angiò (re dal 1288) cedere l'isola a Ferrante II d'Aragona, figlio di Pietro, come re di Trinacria.


(A) In quei tempo il predetto re Carlo, aggiungendo peso a peso, escogitò ed impose sempre nuovi oneri, su istigazione di malvagi consiglieri. Infatti alcuni dei suoi, che non pensavano ad altro che ad ingraziarsi il re con l'altrui danno, lo andavano imbonendo con l'adulazione e gli insinuavano subdolamente questi suggerimenti: «Mio re e signore, il dominio regio dispone attualmente, come propria riserva, di innumerevoli foreste e di diversi campi e boschi dai quali detratti i costi che sono a carico della vostra curia, stranamente il vostro fisco non trae, come invece dovrebbe, provento alcuno. Forse tutto l'utile ed il frutto va ai capi dei massari ed agli altri custodi e addetti all'erario della curia. Allora, signore, in tutti i territori del regno unitevi a galantuomini che possiedano poderi e mettetevi in società con loro. In questo modo, senza spese per la curia, i poderi si arricchiranno e, senza intaccare la sostanza, la camera regia ne ricaverà molti profitti. Ripartite i vostri animali tra i sudditi ricchi e si imponga loro di restituire alla vostra curia, salva sempre la parte loro affidata, una certa quantità per anno. I vostri sudditi per avere, con la scusa della società con il re, esenzioni sui loro beni ed i loro animali nonché libero accesso ai pascoli, si assumeranno volentieri, a proprio rischio, la compartecipazione in qualsivoglia podere».
Questo falso e fallace suggerimento fu accolto ed approvato e per tutta la Sicilia, che è terra fertile e feconda, adatta alle coltivazioni di biade ed alla sistemazione in poderi, la scaltra malizia degli ufficiali regi provvide a scegliere, per questi pesanti incarichi, un certo numero, di possidenti, specialmente i maggiorenti tra i villani, ed i contadini.
Ad uno, mal suo grado, fu imposta la custodia di porci; ad un altro, benché si opponesse, di buoi; ad un altro, a forza, di vacche; ad un altro, che cercava di sottrarsi, di bestiame minuto; ed allo stesso modo furono assegnate pecore e giumente, con in più l'imposizione di una norma (quasi che si potesse dare ordini al clima ed alla natura, o che l'operosità umana sovrastasse la divina onnipotenza) […] in base alla quale, ad esempio, chi avesse ricevuto – col pretesto della società coi re – la custodia di porci, doveva rendere al fisco, nel giro di un anno, come se ciascuna scrofa avesse partorito per due volte cinque figli, due maschi e tre femmine ogni volta, e come se le prime femmine partorite avessero, nello stesso anno, già partorito cinque figli, così che per ogni scrofa, piacesse o no, a torto o a ragione, si dovessero rendere in ogni caso venti piccoli in un anno. Nel secondo anno, e nei successivi, si dovevano consegnare al capo dei massari di colle trenta misure di frumento e trenta di orzo io ricevendone, per le spese sostenute e come compenso del servizio e della fatica soltanto due augustali per ogni coppia di buoi.

[Ulteriori esemplificazioni sulle norme che regolavano la custodia di pecore e giumente]

Oltre tutto ciò, che era già abbastanza intollerabile, quando il re, o un capitano, o un maestro, o un giustiziere, o qualcun altro dei suo seguito, si recavano in qualche luogo, io stesso ho visto spessissimo portare via con la forza, dalle case di gente di ogni condizione, materassi, coltrici, letti, graticci cuscini e piumini, talvolta perfino i miseri giacigli dei poveri, coperte e lenzuoli, mentre non di rado i padroni, in forza della necessità che non conosce legge, erano costretti a dormire per terra. E se qualcuno osava opporsi, anche solo a parole, al fatto che la roba gli venisse sottratta a forza, oltre a venire spintonato e battuto, veniva portato in carcere e non veniva rilasciato se non pagava. I miseri regnicoli erano quindi costretti a sottostare per non peggiorare le cose e non andare incontro a più gravi oppressioni e danni.

Saba Malaspina, Storia dei fatti di Sicilia, VI, 7.


(B) Pietro, re di Aragona, a cui era stata un tempo unita in matrimonio Costanza, figlia del re Manfredi, preparava una flotta e si apprestava alla navigazione facendo costruire navi e galee con legnami resistenti e ben levigati. Come un leone manifestava apertamente la sua ira e come un drago macchinava insidie nascoste. In Aragona e nell'isola di Maiorca venivano dunque apprestate molte imbarcazioni adatte a correre per i mari. Alcune, con il corpo più grosso, rafforzato per il trasporto di cavalli da una struttura lignea ad incastro, venivano messe insieme con quel sistema dai carpentieri. Altre, più leggere, con tavole tenute insieme da una struttura più sottile, venivano inchiodate. Il fondo veniva spalmato con bitume o pece.
Non senza ragione il re di Sicilia viveva nel dubbio e nel sospetto a causa di questa armata del re Pietro.

[Re Carlo si sentiva pienamente sicuro delle proprie forze]

Nondimeno, come per un'impressione avuta in sogno, gli era entrata nell'animo un'inquietudine, cui dava peraltro poco peso, e prese a nutrire timori, non però per il regno di Sicilia, ma per la sola Provanza, che si diceva fosse stata un tempo soggetta al regno di Aragona ed a quel regno appartenesse. Egli temeva infatti che Pietro, avendo avuto un tempo la Provenza sotto la sua signoria, potesse ora attaccarla dal mare invadendola.
Ma mito di più avrebbe dovuto avere apprensioni sul regno di Sicilia, benché tutto il territorio del regno fosse pieno di Francesi, poiché bisogna sempre aspettarsi incostanza e volubilità da quei sudditi che il dominio dei signori soffoca ed opprime indegnamente.

Saba Malaspina, Storia dei fatti di Sicilia, VII, 1-2.


(C) Anno dei Signore nostro Gesù Cristo 1281, penultimo giorno di marzo, decima indizione.
In quel tempo erano ufficiali dei re in Sicilia Erberto di Aureliano, vicario: Giovanni di S. Remigio, giustiziere di Palermo e di Vai di Mazara; e Tommaso di Busante, giustiziere della Valle di Noto.
Il giorno 29, quando si celebrava la Pasqua della Resurrezione del Signore, lo sfrenato furore dei Francesi si riversò nuovamente sui Siciliani, poiché il già citato Giovanni, a Palermo, organizzò i suoi per compiere rapine e violenze smisurate contro il popolo palermitano.
Infatti per il penultimo giorno di marzo – giorno in cui il popolo celebrava devotamente l'annuale ricorrenza delle festività pasquali nella chiesa di S. Spirito, vicino alla città – il menzionato giustiziere diede ordine che chiunque, tra il popolo, recasse armi, venisse catturato e punito. E benché tutti i cittadini, sin dai tempi antichi, in quelle occasioni festive fossero soliti portare spade in segno di onore e lance in segno di festa, in quel frangente, per il terrore della perfidia dei Francesi, nessuno portava alcun'arma con sé. Allora i Francesi, non trovando armi, si abbandonava o ad altre offese per innescare liti che tornassero a danno dei cittadini, ma quelli, sia pur a malincuore, sopportavano tutto in pace.
E mentre alcuni sedevano sull'erba, altri raccoglievano i fiori che marzo schiudeva ed offriva, e la pianura risuonava di voci gioiose, ecco apparire una nobile novella sposa, bella nel volto e bella in tutta la persona, che, ben lungi dal toccare, si sarebbe dovuta appena sfiorare con lo sguardo. Scortata dai genitori, dallo sposo, dai fratelli e da altri che la accompagnavano, ella veniva condotta alle sacre funzioni ed era fatta segno di speciale rispetto. Ma un francese di nome Droghetto si avventò con sfacciata impudenza su di lei e, col pretesto di cercare se nascondesse armi dello sposo o di altri, le mise audacemente le mani sotto le vesti e le toccò i seni, fingendo, per meglio scrutarli, che avesse le armi. Il gesto che egli aveva osato era una dichiarazione di manifesto odio e di aperta ingiuria contro i cittadini. […] Si levò allora – non si sa bene da dove – un clamore come di tumulto; l'ira e il furore non ebbero più freno; un giovane, afferrata la spada di Droghetto, lo colpì nei fianchi, ed ecco uscirne gli organi vitali, ma si ignora, a dire il vero, chi lo abbia colpito, chi lo abbia ucciso.
Come egli fu morto tutta la pianura si empì di persone che correvano, la folla si aggirava ebbra di furore, i giovani, in mancanza di armi, davano di piglio alle pietre, il popolo insorgeva. Ben presto, dopo i primi isolati episodi di strage, il clamore fu tale che l'aria pareva risuonare dovunque delle tremende grida di «Muoiano, muoiano i Francesi», e a quelle grida, in un batter d'occhio, furono uccisi quasi duecento Francesi che la sorte aveva condotti in quella pianura.

Bartolomeo di Neocastro, Storia Siciliana, 14.


(D) Nel detto anno MCCLXXXII, dei mese di luglio, lo re Piero d'Araona colla sua armata si partì di Catalogna, e furono L galee e con VIIIc cavalieri e altri legni di carico assai, della quale armata fece suo amiraglio uno valente cavaliere di Calavra, ribello del re Carlo, il quale aveva nome messer Ruggieri di Loria, e arrivò in Barberia nel reame di Tunisi, e a la infinita si puose ad assedio ad una terra che ssi chiamava Ancalle, per attendere novelle di Cicilia, e a quella diede alcuna battaglia, e stettonvi XV giorni. E in quella stanza, sì come era ordinato, vennero a lui con messer Gianni di Procita ambasciadori di Messina e sindachi con pieno mandato di tutte le terre di Cicilia, a pregarlo ch'egli prendesse la signoria, e s'avacciasse di venire nell'isola per soccorrere la città di Messina, la quale dal re Carlo e da sua oste era molto stretta. Lo re Piero udendo la gente e la potenza del re Carlo, e che la sua a comparazione era niente, alquanto temette; ma per lo conforto e consiglio di messer Gianni, e veggendo che tutta l'isola era per fare le sue comandamenta, e aveano tanto misfatto al re Carlo, che di loro si potea bene sicurare, sì rispuose ch'egli era apparecchiato del venire e del soccorrere Messina. E incontanente si levò da oste da Ancolle, e ricolsesi a galee, e misesi in mare, e arrivò alla città di Trapali all'entrante d'agosto. E come giunse a Trapali, per messere Gianni di Procita e per gli altri baroni di Cicilia fu consigliato che sanza soggiorno cavalcasse a Palermo, e 'l navilio mandasse per mare; e a Palermo saputo novelle dell'oste del re Carlo e dello stato di Messina, prenderebbono consiglio. E così fu fatto, che a dì X d'agosto lo re Piero giunse nella città di Palermo, e da' Palermitani fu ricevuto a grande onore e processione sì come loro signore, e credendo scampare da morte per lo suo aiuto; e a grido di popolo il feciono loro re, salvo che non fu coronato per l'arcivescovo di Monreale, come si costumava per gli altri re, però che s'era partito e itosene al papa; ma coronollo il vescovo di Cefalù d'una picciola terra di Cicilia, ch'era rubello del re Carlo.

Giovanni Villani, Nuova Cronica, VIII, 69.

 

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