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Didattica

Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XIV
Svevi e Angioini

2. Il problema della crociata
(A) Riccardo di San Germano, Cronaca, pp. 44-45.
(B) Riccardo di San Germano, Cronaca, pp. 55-56.
(C) Ibn Wash, Il dissipatore delle angustie sulla storia degli Ayynbiti, 119-121, 252-253.

La questione della liberazione della Terrasanta scandì in modo negativo i rapporti di Federico con il papato. Di fronte all'ennesimo sia pure giustificato rinvio da parte dell'imperatore, il papa Gregorio IX infatti lo scomunicò (1227): è la prima (ma non sarà l'ultima) scomunica che subì Federico (A). Sebbene scomunicato, Federico non rinunciò alla crociata.
Egli riuscì ad inserirsi tra i contrasti che dividevano i musulmani, e in particolare i due principi eredi dei defunto sultano ayyubita al-'Adil, i fratelli a-Kamil e al-Mu'azzam, aprendo lo spazio per una trattativa. Al suo arrivo in Terrasanta nel 1228 – dove si era recato nonostante l'offensiva armata papale contro le terre del regno –, peraltro, il momento più favorevole era già passato, perché uno dei due rivali, al-Mu'azzam, era morto: ciò nonostante Federico strappò consistenti concessioni ad al-Kamil, tra le quali la stessa cessione di Gerusalemme, come testimoniano fonti sia cristiane che musulmane (B, C) chiare anche sul ruolo non soltanto ambiguo, ma addirittura apertamente ostile svolto dal patriarca di Gerusalemme e dai grandi maestri dell'Ospedale e del Tempio.


(A) L'imperatore, con l'imperatrice stia consorte, nel mese di agosto va ad Otranto, e, lasciata lì l'imperatrice, va a Brindisi dove si era radunato tutto l'esercito dei crocesignati e dove aveva fatto radunare tutta la flotta per passare oltremare. […]
In Puglia una parte non piccola dei crocesignati, presi da malattia, morì. Tuttavia l'imperatore, con il landgravio [1] e gli altri crocesignati, si preparò a passare il mare, cosicché nel giorno della Natività della beata Vergine passò da Brindisi ad Otranto e, dopo aver fatto sperare il suo passaggio a coloro ai quali [io] aveva promesso, dovette scegliere [invece] per necessità di fermarsi ad Otranto, dove per fatalità il detto landgravio morì, e allora anche l'imperatore, colto da malattia non passò il mare come aveva disposto. Per questo motivo il papa, adirato contro di lui, nel penultimo giorno dei mese di settembre, nella festa della dedicazione dell'Arcangelo [2], dichiarò in modo arbitrario che il detto imperatore era caduto nella sentenza di scomunica, già pronunciata contro di lui presso San Germano. L'imperatore dalla Puglia passò allora al Bagni di Pozzuoli, papa Gregorio [invece] da Anagni, passando per Velletri, tornò a Roma. L'imperatore per discolparsi gli mandò i suoi nunzi, gli arcivescovi di Reggio e di Bari, il duca Raimondo di Spoleto e il conte Enrico di Malta, ai quali [il papa] noti credette più che ai suoi nunzi circa la salute dell'imperatore, e, convocati a Roma [tutti] quei prelati cismontani e del regno che poté, nell'ottava di S. Martino scomunicò pubblicamente [l'imperatore] e spedì lettere generali per tutto l'occidente riguardo a questo argomento.

Riccardo di San Germano,Cronaca, pp. 44-45.

[1] Di Turingia.
[2] 29 settembre 1227.


(B) Il Soldano restituì la santa Gerusalemme all'imperatore e ai Cristiano con tutti i loro possedimenti, con l'unica eccezione del Tempio del Signore che doveva essere custodito dai Saraceni, perché da lungo tempo essi avevano l'abitudine di pregare in quel luogo e [dunque], affinché avessero libera entrata ed uscita quelli che si recavano lì per pagare – cristiani compresi –, doveva essere riservato alla preghiera.
Restituì anche il villaggio di S. Giorgio e i casali che sono da una parte e dall'altra della via che va a Gerusalemme, Betlemme compresa, e i casali che sono tra quest'ultima e Gerusalemme. Rese nelle mani dei cristiani anche Nazareth con i suoi possedimenti e con i casali che sono tra essa ed Accon. Fu restituito anche il castello di Zoronte con i suoi possedimenti, le pertinenze e i villaggi. Restituì anche la città di Sidone, con tutta la pianura che le appartiene, e tutte le terre che i cristiani avevano al tempo della pace, e che tenevano in pace; sarebbe stato lecito, in base al patto con l'imperatore e con i cristiani, riedificare mura e torri della città di Gerusalemme il castello di Joppe, di Cesarea e Monteforte ed il nuovo castello che quell'anno si cominciò a costruire sulle montagne.
Sembra in effetti verosimile che, se l'imperatore fosse ritornato al di là dei mare con la grazia è la pace della chiesa romana, la questione di Terrasanta sarebbe andata molto meglio e con esiti più felici Ma quante avversità avrebbe dovuto sopportare nella stia stessa peregrinazione da parte della chiesa, giacché il papa non solo lo scomunicò in modo arbitrario, ma ordinò anche al patriarca di Gerusalemme e ai maestri delle case dell'Ospedale e dei Tempio di considerarlo scomunicato e come tale di evitarlo! Cosicché, non senza grave offesa all'altezza di quello [1], [il papa] ordinò di non considerare il suo grado nell'esercito cristiano; ed affinché non finisse nel nulla la questione della Terrasanta, alla quale lo stesso imperatore dedicava le sue forze, [il papa] mise a capo dell'esercito, come capitani e condottieri dei Tedeschi e dei Lombardi il maestro della casa dei Teutonici, e degli uomini dei regni di Gerusalemme e di Cipro il suo mariscalco Riccardo Filangieri ed un certo Oddone di Monte Peliardo; e per questo motivo il Soldano, quando seppe che l'imperatore era perseguitato con tanto odio dalla chiesa, a stento fu indotto a concludere un patto con lui.
Concluse tuttavia l'accordo [in modo tale], che sino alla fine della tregua avrebbero osservato reciprocamente la pace; tutti i prigionieri dell'una parte e dell'altra sarebbero stati restituiti alla libertà. E così, ricevuti dallo stesso Soldano la Terrasanta e i luoghi predetti, con il parere favorevole di tutti i pellegrini [l'imperatore] partì per Gerusalemme, dove, in quel giorno nel quale egli entrò nella città santa [2], l'arcivescovo di Cesarea, nunzio del patriarca, arrivò e pose l'interdetto sulla città e in particolare sul Sepolcro di Cristo per ordine dello stesso patriarca; cosicché [l'imperatore] ottenne per il recupero della stessa [Gerusalemme] le primizie della maledizione e non della benedizione. Fu inoltre manifesto e più chiaro della luce, per tutti coloro che erano presenti, in che modo il patriarca e i maestri delle case dell'Ospedale e dei Tempio si comportarono contro l'imperatore – che poi tornò ad Accon –, promuovendo discordie intestine nella stessa città [Gerusalemme].

Riccardo di San Germano, Cronaca, pp. 55-56.

[1] Federico II.
[2] Il 17 marzo 1229.


(C) L'imperatore fece il suo apparecchio, giunse con il suo esercito al litorale siro, sbarcò in quest'anno ad Acri; ivi lo aveva già preceduto una gran moltitudine di Franchi, che però non si eran potuti muovere per timore dei Malik al-Mu'azzam e perché aspettavano l'imperatore loro capo. Questo vocabolo significa nella lingua dei Franchi «il re dei principi». Il suo regno era l'isola di Sicilia, e nella Terra Lunga i paesi di Puglia e Lombardia. Dice qui l'autore, Giamàl ad-din Ibn Wasil: io ho visto quelle contrade quando vi sono andato ambasciatore dei sultano al-Malik az-Zahir Rukn ad-din Baibars di felice memoria, al figlio dell'imperatore, a nome Manfredi. 
Questo imperatore era un re dei Franchi, distinto e dotto, amico della filosofia, della logica e della medicina, e favorevole ai Musulmani, per esser stata sua originaria residenza e luogo di educazione la Sicilia, di cui lui, suo padre e suo nonno erano stati re, e i cui abitanti sono per la maggior parte musulmani.
Giunto che fu imperatore ad Acri, il Malik al-Kamil se tic trovò imbarazzato, perché suo fratello, il Malik al-Mu'azzam che era stato cagione della sua chiamata era morto, ed egli non aveva più bisogno di lui, né d'altra parte gli era possibile respingerlo e combatterlo per il precedente accordo, e perché ciò avrebbe condotto a mancare i fini che allora egli si proponeva. Entrò quindi in trattative con lui e lo accarezzò, e ne seguì quel che poi a dio piacendo diremo […]. L'imperatore stette ad Acri, con un va e vieni di messaggeri tra lui e il Malik al-Kamil, sino alla fine di quest'anno.

Si susseguirono dunque le trattative tra il Malik al-Kamil e l'imperatore le cui mire stavan sempre fisse a quanto si era dapprima convenuto tra lui e al-Kamil, prima della morte del Malik al-Mu'azzam. Il re dei Franchi si rifiutava di far ritorno al suo paese se non alle condizioni pattuite, della consegna a lui di Gerusalemme e di parte delle conquiste di Saladino, mentre il Malik al-Kamil non voleva saperne di cedergli tutti quel territori. Si finì con lo stabilire che gli sarebbe stata ceduta Gerusalemme a patto che rimanesse smantellata e non si rinnovassero le sue mura; che nulla all'esterno di essa appartenesse ai Franchi, ma che tutti i villaggi del suo contado restassero ai musulmani con un loro governatore residente ad al-Bira, in provincia appunto di Gerusalemme; che dei pari la zona sacra in Gerusalemme stessa, con la Moschea della Santa Roccia e la Mosche al-Aqsa, restasse in mano ai musulmani, né i Franchi vi avessero accesso se non per visitarla, ma rimanesse amministrata dai musulmani ivi addetti, continuando come prima a svolgervisi il culto musulmano. I Franchi eccettuarono dal patto alcuni pochi villaggi stilla strada da Acri a Gerusalemme, che restarono nelle loro mani, a differenza del rimanente contado gerosolimitano.
Il sultano Malik al-Kamil ritenne che se fosse venuto in rotta con l'imperatore, e non lo avesse interamente, soddisfatto, ne sarebbe risultata una guerra coi Franchi e una irreparabile rottura, sfuggendogli di mano tutti gli obbiettivi per cui si era mosso. Volle quindi dar soddisfazione ai Franchi cedendo loro Gerusalemme smantellata, e stipulando con loro una temporanea tregua dopo di che avrebbe potuto ristrappare loro queste concessioni quando lo avesse voluto.
Condusse le trattative fra lui e l'imperatore l'emiro Fakhr ad-din ibn ashShaikh, ed ebbero luogo fra essi conversazioni su diversi argomenti, durante le quali l'imperatore inviò al Malik al-Kamil dei quesiti sta difficili questioni di filosofia, geometria e matematica, per mettere alla prova i valenti uomini della sua corte. E il sultano sottopose i quesiti matematici allo sheikh 'Alam ad-din Qaisar, maestro di quest'arte, e il resto a un gruppo di dotti, che dettero a tutto risposta. Indi il Malik al-Kamil e l'imperatore giurarono i termini dell'accordo e stipularono una tregua a tempo determinato [1]; così furon regolate fra loro le cose, e ognuna delle due parli si sentì sicura dell'altra. Mi è stato riferito che l'imperatore disse all'emiro Fakhr ad-din: «Se non fosse che io temo il crollo del mio prestigio presso i Franchi, non avrei imposto al sultano queste condizioni. Io non ho alcuna effettiva mira su Gerusalemme né su altra terra, ma ho solo voluto tutelare il mio onore presso la cristianità».
Conclusa la tregua, il sultano mandò a proclamare in Gerusalemme l'uscita dei musulmani e la consegna della città ai Franchi, e i Musulmani uscirono fra grida e pianti e lamenti. La cosa increbbe fortemente a tutto il mondo musulmano, che fu contristato per la perdita di Gerusalemme e disapprovò e giudicò vituperevole quest'atto dei Malik al-Kamil, giacché la riconquista di quella nobile terra e il suo recupero dalle mani degli infedeli era stata una delle maggiori imprese del Malik an-Nasir Saladino – santifichi Iddio il suo spirito! Ma il Malik al-Kamil di felice memoria sapeva che i Franchi non avrebbero potuto difendersi in Gerusalemme con le mura smantellate, e che quando egli avesse raggiunto il suo scopo e avesse avuta bene in mano la situazione avrebbe potuto purificare Gerusalemme dai Franchi e cacciarli via. “Noi non abbiam loro concesso, – egli disse, – che delle chiese e delle case in rovina. La zona sacra, la venerata Roccia e tutti gli altri santuari meta dei nostri pellegrinaggi restano come erano in mano dei musulmani, i riti dei musulmani e dell'Islàm lì come prima in vigore, e i musulmani hanno avuto un loro governatore per le loro province e distretti rurali”.

Ibn Wash, Il dissipatore delle angustie sulla storia degli Ayynbiti, 119-121, 252-253.

[1] La durata della tregua era di dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni, a partire dal 24 febbraio del 1229, ed era vicina dunque al periodo massimo che i musulmani potevano concedere, secondo la legge islamica, agli infedeli (dieci anni, dieci mesi, dieci giorni).

 

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