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Didattica

Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XIV

4. Le costituzioni di Melfi
(A) Federico II, Costituzioni Melfitane, proemio.
(B) Federico II, Costituzioni Melfitane, I, 1.
(C) Federico II, Costituzioni Melfitane, I, 4, 8, 9, 91.
(D) Federico II, Costituzioni Melfitane, III, 32-33.
(E) Federico II, Costituzioni Melfitane, III, 43.

Preziosa eredità, il regno di Sicilia, scriveva Federico nel 1231, nel proemio delle Costituzioni di Melfi (A); esso era stato a lungo trascurato: ora era giunto il momento di mettere ordine, lasciando definitivamente alle spalle gli ultimi residui dei duro periodo di transizione.
Le Costituzioni rappresentano la complessa sistemazione dell'eredità amministrativa precedente del regno siciliano (normanna, bizantina, musulmana), adattata ai nuovi tempi ed all'ancora più matura concezione-autocratica di Federico, il cui potere imperiale di necessità si riflette – proprio nell'altissima, sacrale concezione della propria autorità anche, nella legislazione siciliana. Qui si propongono articoli di tipo diverso: da quelli contro gli eretici (B), che mostrano i limiti del “libero pensiero” di Federico – limiti segnati dagli interessi dello stato –, a quelli che esaltano la giustizia e l'autorità dei re (C), o che sostengono la necessità di mantenere l'ordine pubblico, abbattendo la fortificazioni illegittime (D), o che sanzionano l'esistenza di una salda gerarchia sociale scandita dalla disuguaglianza delle pene (E).


(A) Dopo che la divina provvidenza ebbe formato l'ordinato sistema dall'universo e distribuito la materia nella forma delle cose per realizzare una più perfetta natura, Colui che aveva preconosciuto ciò che dove in essere fatto, considerando quanto aveva creato e apprezzato ciò che considerava, dispose con maturo consiglio di preporre l'uomo, ch'egli aveva formato a propria immagine e somiglianza, a tutte le altre creature come la più degna tra quelle poste sotto la sfera della Luna e che di poco aveva fatto inferiore agli angeli. Trattolo dal limo della terra, lo vivificò nello spirito e, coronatolo coi diadema dell'onore e della gloria gli pose accanto una moglie e compagna, parte dello stesso suo corpo adornando tutti e due con la forza d'una tanto grande capacità da renderli entrambi in principio immortali. Li pose però sotto una legge, e poiché essi pervicacemente rifiutarono d'osservarla, li condannò alla pena meritata per la loro trasgressione e li privò di quell'immortalità che prima aveva loro concessa. Perché, tuttavia, non avesse a distruggere in tutto tanto rovinosamente e tanto improvvisamente, ciò che prima aveva formato e perché, una volta distrutta la forma dell'uomo non ne derivasse di conseguenza la distruzione di quella di tutte le altre creature, venendo loro a mancare il soggetto preposto e la propria funzione, non servendo esse più all'uso dell'uomo, la divina clemenza fecondò coi seme d'entrambi la terra di mortali e questa stessa diede loro in potestà. Essi, non ignari della scelta paterna, ma avendo in se stessi propagato il male della disobbedienza, concepirono vicendevoli odi e distinsero il possesso delle cose che per diritto di natura era comune […].
Così per la stessa necessità naturale meno che per ispirazione della provvidenza divina, furono creati i principi secolari, per cui mezzo potesse esser punita la sfrenatezza dei delitti e che, arbitri della vita e della morte dei popoli, stabilissero come – in certo modo – esecutori dei decreti della provvidenza, quale stato, condizione e posizione dovesse avere ciascuno. Dalle loro mani, affinché possano rendere buon conto dell'amministrazione loro commessa il re dei re e principe dei principi richiede soprattutto che essi non permettano che la sacrosanta chiesa, madre della religione cristiana, venga macchiata dalla subdola perfidia dei detrattori della fede: che la difendano dagli attacchi dei pubblici nemici con la potenza della spada materiale; che, infine, per quanto possono, conservino ai popoli la pace e – una volta pacificati – la giustizia, che, come due sorelle, vicendevolmente si abbracciano.
Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là d'ogni umana speranza, ha sublimato ai fastigi dell'impero romano e alla testa degli altri regni, volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici, per reverenza verso Gesù Cristo – dal quale tutto quanto possediamo abbiamo ricevuto –, osservando la giustizia e stabilendo le leggi vogliamo immolare l'offerta delle nostre labbra provvedendo in primo luogo quella parte delle terre sottoposte al nostro dominio, la quale al presente sembra avere il maggior bisogno del nostro intervento circa la giustizia. Pertanto, poiché il regno di Sicilia - preziosa eredità della maestà nostra e che sempre abbiamo trovato pronto e devoto all'ossequio della nostra serenità, nonostante la resistenza di taluni che non facevano neppur parte dell'ovile del regno stesso né dell'impero sia per la debolezza della nostra età, sia per la nostra assenza, è stato finora lacerato dall'impeto delle passate turbolenze, abbiamo ritenuto degno provvedere con ogni cura alla stia pace e all'osservanza della giustizia. Perciò disponiamo che solo le presenti disposizioni emanate in nostro nome abbiano vigore nel nostro regno di Sicilia, ed ordiniamo che – cassata ogni altra legge e consuetudine in contrasto con queste nostre costituzioni, come ormai superata – esse siano d'ora innanzi da tutti inviolabilmente osservate. Nelle presenti disposizioni abbiamo ordinato che fossero incluse le norme vigenti in precedenza nel regno di Sicilia e quelle da noi promulgate, affinché non abbiano alcun vigore né alcuna autorità, in giudizio e non in giudizio, quelle che noti sono comprese nel presente corpo delle nostre costituzioni.

Federico II, Costituzioni Melfitane, proemio.


(B) 1. Gli eretici tentano di lacerare l'inconsutile tunica [1] del Dio nostro, e adeguandosi perfettamente al significato di colpa insito nella parola con cui vengono designati, che enuncia il senso della divisione, cercano di rompere l'unità dell'indivisibile fede e di sottrarre alla custodia di Pietro le pecore che a lui furono affidare dal Buon Pastore perché le pascesse. Questi eretici sono i lupi rapaci che cercano di approfittare della mansuetudine delle pecore per poter penetrare insidiosamente nell'ovile del Signore; sono gli angeli malvagi, sono i figli della pravità destinati dal padre della nequizia e dall'inventore della frode ad ingannare le anime semplici; sono i serpenti che ingannano le colombe, le serpi che strisciano di nascosto e sputano veleno sotto le apparenze di dolce miele, sicché, mentre simulano di somministrare alimento di vita, colpiscono dalla parte della coda mescolando succhi mortiferi di orribili veleni. Le sette di costoro, per non rivelarsi, non si designano con i loro vecchi nomi, ovvero, ciò ch'è più nefando, non contente come gli ariani di prender nome da Ario o i nestoriani da Nestorio, ed ognuna da chi è più vicino alla sua dottrina, si chiamano patarini [2] – cioè pronti al patimento – a modo dei martiri che affrontarono il martirio per la fede cattolica […]. Contro costoro, che sono così ostili a Dio, a se stessi e agli [altri] uomini, non possiamo frenare la nostra ira e non impugnare contro di loro la spada della giusta vendetta; e con tanta maggior perseveranza li perseguiamo in quanto, a più aperta offesa della fede cristiana, è noto che essi più largamente che altrove commettono i delitti della loro superstizione proprio vicino alla chiesa romana, che è considerata il capo di tutte le altre chiese, in modo che al territorio dell'Italia, e specialmente dalla Lombardia, dove sappiamo con certezza che la loro scelleratezza è più largamente diffusa, le diramazioni della loro perfidia sono giunte sino al nostro regno di Sicilia. Ritenendo dunque questo Fatto estremamente penoso, abbiamo stabilito in primo luogo che il crimine d'eresia e di appartenenza a qualsiasi setta, comunque si chiamino i suoi seguaci, sia annoverato tra i delitti contro lo stato così come è sancito dalle antiche leggi […].
E come il reato di alto tradimento contro lo stato comporta per quanti ne sono stati riconosciuti colpevoli la perdita della personalità e dei beni, e ne condanna dopo la morte anche la memoria, altrettanto vogliamo che consegua per quanto concerne il predetto reato in cui incorrono i patarini. E affinché la loro nequizia venga scoperta, dal momento che essi, poiché non seguono Dio, camminano nelle tenebre, anche se nessuno li denuncia vogliamo che coloro che commettono delitti di tal fatta siano diligentemente ricercati ed inquisiti dai nostri funzionari come gli altri delinquenti, e una volta sottoposti al procedi
mento inquisitorio, anche se siano soltanto lievemente risultati sospetti, ordiniamo che siano esaminati da ecclesiastici e da prelati. Se questi poi avranno chiaramente appurato ch'essi si discostano anche soltanto parzialmente dalla fede cattolica, e se, ammoniti pastoralmente, non avranno voluto – lasciate le tenebrose insidie dei demonio – riconoscere il Dio della luce e persevereranno nella professione dell'errore concepito, decretiamo con questo editto della nostra legge che i patarini abbiano la morte che desiderano, cioè che siano bruciati vivi pubblicamente, affidati al supplizio delle fiamme […]. Nessuno osi intervenire presso di noi in loro favore; e, se qualcuno lo avrà osato, contro di lui dirigeremo giustamente gli strali della nostra indignazione.

Federico II, Costituzioni Melfitane, I, 1.

[1] Cioè senza cuciture.
[2] Il riferimento, approssimativo come l'etimologia che qui è proposta, è alla pataria milanese, movimento religioso popolare attivo durante il periodo della lotta per la riforma della chiesa [cfr. capitolo 2, 5].


(C) 4. Non bisogna discutere dei giudizio, delle decisioni e delle disposizioni del re. Rientra infatti nella fattispecie del reato di lesa maestà discutere dei suoi giudizi, delle sue azioni, delle sue decisioni e delle sue disposizioni e se chi egli ha scelto e nominato [ad un ufficio] sia degno o no.

8. L'osservanza della pace, che non può essere disgiunta dalla giustizia e dalla quale la giustizia non può essere separata, ordiniamo che sia praticata da tutte e da ognuna delle parti del nostro regno, sicché nessuno d'ora innanzi debba vendicare con la propria autorità le offese e i danni ricevuti o che gli dovessero esser arrecati, né esercitare rappresaglie né muovere guerra nel regno, ma secondo la regolare procedura giudiziaria porti la stia causa dinanzi al maestro giustiziere e ai giustizieri delle varie regioni o davanti ai camerari delle diverse località o ai baili [1] o ai signori, secondo che ad ognuno di essi compete la cognizione della causa stessa. Se poi accadesse che qualcuno, provocato da offesa violenta, per la tutela della sua persona e dei suoi beni fosse costretto a difendersi, non vietiamo che egli lo faccia immediatamente, prima cioè che trascenda ad azioni di diversa natura o non pertinenti, entro i limiti, tuttavia, della legittima difesa, vale a dire, che si difenda con armi dello stesso tipo e della stessa efficacia di quelle con le quali fu assalito, cosicché, se è stato attaccato con armi da taglio possa difendersi con armi da taglio.
9. Il conte, il barone, il cavaliere e chiunque altro avrà mosso pubblica guerra nel regno abbia confiscati i suoi beni e sia punito con la morte. Chi poi avrà compiuto rappresaglie, sia condannato alla perdita di metà di tutti i suoi beni.

91. I Quiriti, non senza aver prima lungamente pensato e gravemente meditato, con la Legge Regia trasferirono il diritto di legiferare e il potere di governare al principe romano affinché dalla stessa persona che dal fastigio della fortuna imperiale a lei affidata governava i popoli con la propria autorità e dalla quale procedeva la difesa della giustizia, procedesse anche l'origine della giustizia medesima. È pertanto evidente che, non tanto per utilità, ma per necessità, fu provveduto a che, unendosi nella stessa persona queste due cose: la fonte del diritto e la sua tutela, la forza non fosse separata dalla giustizia né la giustizia dalla forza. L'imperatore deve dunque essere padre e figlio, signore e ministro della giustizia. Egli è padre e signore nel fissare ciò ch'è giusto e nel curare poi l'osservanza di quanto ha fissato; e parimenti è figlio nell'onorare la giustizia e ministro nell'amministrarla. Ammaestrati pertanto da questa ponderata considerazione, noi, che dalla mano di Dio abbiamo ricevuto lo scettro dell'impero e il governo del regno di Sicilia, annunciamo le decisioni della nostra sovrana volontà a tutti i nostri fedeli del regno predetto: e cioè che ci sta a cuore di amministrare tra loro – a tutti e ad ognuno, senza eccezione alcuna di persone – la giustizia con pronto zelo, in modo che essi possano ovunque largamente ottenerla dai nostri ufficiali cui ne abbiamo affidata l'amministrazione. Ordiniamo che le loro competenze siano distinte e ne preponiamo alcuni alle cause civili, altri ai procedimenti penali.

Federico II,Costituzioni Melfitane, I, 4, 8, 9, 91.

[1] Funzionari pubblici di diverso livello e competenze (giudiziarie, fiscali e amministrative).


(D) 32. Ordiniamo nuovamente di distruggere immediatamente ripetendo una nostra disposizione, i castelli, le fortificazioni e le torri elle sono stati costruiti dopo la morte dei re Guglielmo [1] di santa memoria, nostro cugino e per la conservazione dei quali noi precedentemente non abbiamo concesso il permesso, come fu stabilito nell'assemblea del regno tenutasi a Capua, minacciamo la pena della confisca dello stesso castello o dei nuovo edificio per coloro che trascureranno le nostre disposizioni, tralasciando di distruggere tali costruzioni entro il prossimo Natale. E alla presente sanzione aggiungiamo che nessuno può ricostruire fortificazioni distrutte senza il nostro esplicito comando.
33. Proibiamo di costruire in futuro nel nostro demanio edifici con cui si possa impedire o la difesa dei luogo stesso o la fortificazione o il libero ingresso e la libera uscita. Nei suddetti luoghi espressamente vietiamo di erigere toni per iniziativa di privati. Crediamo che possano essere ampiamente sufficienti a tutti i fedeli dei nostro regno le nostre fortificazioni e, ciò che dà maggior sicurezza, la difesa della nostra protezione.

Federico II, Costituzioni Melfitane, III, 32-33.

[1] Guglielmo II.


(E) Perché si distingua più chiaramente il livello sociale che fa diversi gli uomini per qualità, nelle ingiurie recate ove stabiliamo che un cittadino o un contadino che colpirà un cavaliere, se non si potrà dimostrare che l'ha fatto per difendersi, venga punito con il taglio della mano che ha colpito; la stessa pena […] spetta a chi abbia tentato di colpire un cavaliere di condizione sociale più elevata. Poi, se un cavaliere cercherà di colpire un nobile, vogliamo che sia per sempre privato dell'onore della milizia, che non possa partecipare ai consigli dei nobili e che sia esiliato dal regno per un anno. Se invece avrà tentato di colpire uno meno nobile di lui, sia colpito con la stessa pena, cioè con la privazione della milizia e della partecipazione al consigli. È giusto infatti che sia privato dell'onore della milizia colui che, non conoscendo vergogna o ritegno, ha tentato di disonorare la milizia stessa, che è il fondamento di ogni dignità. Infine, se un cavaliere colpirà un altro cavaliere, comandiamo che sia esiliato dal regno per un anno, lui che ha recato ingiuria all'onore delle armi, e che gli siano confiscati tutti i suoi cavalli. Inoltre, se un nobile colpirà un cittadino o un contadino che non sia suo vassallo, considerato dai vari giudici ciò che abbiamo detto debba essere considerato nel valutare le offese, riteniamo che il colpevole debba essere punito sulla base della qualità delle offese, dopo la valutazione dei giudice e dopo il giuramento di chi ha subito l'offesa.

Federico II, Costituzioni Melfitane, III, 43.

 

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