Logo di Reti Medievali

Didattica

Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XIV
Svevi e Angioini

5. Impero e comuni: la voce di un testimone
(A) Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 131-134, 136.
(B) Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 267-268.
(C) Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 30-32.
(D) Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 40-42.

Cronista esuberante e fantasioso – ma al tempo te acuto – il francescano di Parma Salimbene do Adam (1221-1287 circa) è un testimone d'eccezione della vita italiana del Duecento. In particolare è interessante il suo racconto dei fatti relativi alla presenza di Federico II, a partire dal 1236, nell'Italia padana dominata dalle città ad autonomo reggimento comunale, in parte significativa (capeggiata di nuovo da Milano) ostili a Federico. L'imperatore, da parte sua, aveva comunque appoggi importanti, da Cremona, Reggio e Parma (in un primo tempo) ai signori della Marca Trevigiana (in primo luogo Ezzelino da Romano). Il trionfo imperiale di Cortenuova (1237) consegnò a Federico la Lombardia e la Marca (A); ma l'avvento dei nuovo papa Innocenzo IV aprì una nuova e più dura fase di conflitto: nel 1245 Federico fu deposto dal papa e cominciò a subire numerose defezioni, la principale delle quali fu quella di Parma. La guerra devasta l'Italia e Salimbene ne è testimone attento e partecipe (B). Federico, aiutato da un Ezzelino presentato in una luce quanto mai sinistra, si scaglia invano contro Parma, difesa anche dal legato papale Gregorio di Montelongo (C); è il prologo della catastrofe: i Parmensi sorprendono le truppe imperiali e le disperdono, impadronendosi di Vittoria, l'accampamento cui Federico aveva dato forma di città e – troppo presto – un nome augurale.


(A) Nello stesso anno il signor imperatore Federico mandò un elefante in Lombardia, con molti dromedari e cammelli e con molti leopardi e con molti girifalchi e astori.
E passarono da Parma, come vidi coi miei occhi. E sostarono nella città di Cremona.
Nell'anno del Signore 1236 nel mese di settembre arrivò l'imperatore Federico ed entrò in Lombardia, in guerra contro quelli di Padova e di Vicenza e di Treviso e di Milano e di Brescia e di Mantova e di Ferrara e di Bologna e di Faenza. Invece i Cremonesi e i Parmigiani e i Reggiani coi loro eserciti e duecento cavalieri di Modena gli andarono incontro come alleati. E passò il fiume Mincio e l'Oglio, e prese e distrusse Marcaria di Mantova e subito la riedificò e vi pose i Cremonesi a presidio per custodirla. E andò coi detti eserciti alla volta di Mantova e l'assediò per alcuni giorni. E prese Moso di Brescia e consegnò di nuovo la località ai cremonesi, perché la presidiassero. E allora quelli di Gonzaga restituirono il territorio di Gonzaga all'imperatore.
E nello stesso tempo l'imperatore marciò su Vicenza e la prese e la distrusse il 1 novembre. E concluse un accordo con Salinguerra e coi Ferraresi. Nello stesso anno, la vigilia di Natale, i Mantovani attaccarono di sorpresa Marcaria e la espugnarono, catturando i Cremonesi che erano ivi per custodirla.
E molti di loro li portarono a Mantova e li misero in prigione e molti li uccisero.
Nell'anno dei Signore 1237 il signor Manfredo da Cornazzano, cittadino parmense, fu podestà di Reggio; e nel mese di settembre andò con cavalieri e soldati a militare per l'imperatore Federico, con i Parmigiani e i Cremonesi, che avevano i loro carrocci. […]
E il 5 ottobre i Reggiani, da soli, senza l'aiuto di altro esercito, conquistarono Carpinetolo e presero anche due castelli di Casaloldo, uno dei quali apparteneva ai conti dei luogo, l'altro agli abitanti di quella campagna. Quei castelli li presero e li incendiarono.
Così il 7 ottobre l'imperatore pose l'assedio attorno a Montechiaro e fu ospitato con quelli che erano con lui fra Montechiaro e Calcinazzo sul fiume Chiese, presso Calcinazzo. E il giorno 11, una certa domenica, quelli di Montechiaro diedero battaglia e il giorno dopo l'esercito dell'imperatore completò l'assedio da tutte e due le parti e batterono il castello con manganelle e anche con due trabucchi.
E il giorno 22 ottobre, un giovedì, quelli del castello si arresero all'imperatore, e furono tutti portati via e messi in prigione. L'imperatore aveva molti Saraceni nel suo esercito. E il giorno 2 novembre prese Gambara e Castel Gottolengo e Prato Albuino e Castel Pavone.
E tutti questi predetti castelli furono saccheggiati, demoliti e incendiati. E in due giorni, prima della festa di S. Martino, venne con l'esercito presso Pontevico. Allora l'imperatore ricevette quel suo elefante, che aveva tenuto a Cremona, sul quale c'era posta una torre di legno alla maniera del carroccio dei Lombardi; ed era quadrata e bene legata e aveva quattro bandiere, in ogni angolo una, e in mezzo un grande gonfalone, e, dentro, il conduttore della bestia, con molti Saraceni.

E nello stesso anno (il 1237), il 27 novembre, i Milanesi furono vinti e massacrati dall'esercito dell'imperatore. E perdettero presso Cortenuova il loro carroccio, che l'imperatore mandò a Roma, credendo di far piacere ai Romani e di traili dalla sua parte; ma i Romani lo bruciarono, in segno di ingiuria per Federico.
In quello scontro fu fatta grandissima strage di Milanesi. Fu catturato dall'esercito dell'imperatore anche il figlio del doge di Venezia, che in quel tempo era podestà di Milano, e stette nelle carceri di Cremona.
E l'imperatore ebbe quasi tutta la Lombardia e la Marca Trevigiana.

Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 131-134, 136.


(B) E pertanto in quel tempo ci fu violentissima guerra che durò parecchi anni; e la gente non poteva né arare, né seminare, né mietere, né coltivare le vigne, né abitare nei paesi. E questo avvenne principalmente a Parma, a Reggio, a Modena e a Cremona. Ma gli uomini lavoravano nei pressi delle città, sotto la guardia dei cavalieri della stessa città, i quali si dividevano per quartieri, secondo le porte. E i cavalieri armati facevano la guardia ai lavoranti tutto il giorno e i contadini facevano i loro lavori nei campi.
E bisognava organizzarsi in questo modo a causa dei soldatacci, dei banditi e dei predoni che si erano moltiplicati a dismisura e catturavano le persone e le trattenevano prigioniere perché si riscattassero versando denaro. E portavano via le bestie e le mangiavano o le vendevano. Ed erano più feroci dei diavoli.
Se i catturati non si riscattavano li impiccavano per i piedi e per le mani e strappavano loro i denti e gli ficcavano in bocca dei rospi, perché affrettassero il riscatto; il che era per loro più amaro e più aborrito di ogni morte.
E in quel tempo si vedeva volentieri passare per la strada un uomo sconosciuto come si sarebbe visto volentieri passare il diavolo. Sempre infatti uno sospettava dell'altro, temendo lo volesse catturare e trattenere perché fossero dell'uomo le sue ricchezze [1].
E la terra era diventata un deserto, poiché non c'era chi la coltivava, né chi vi passava. Poiché nel tempo di Federico, soprattutto dopo che fu deposto dall'impero e Parma si ribellò contro di lui e levò il calcagno tacevano le vie, e chi si metteva in cammino andava per sentieri traversi [2]
E si moltiplicarono i mali sulla terra: e si moltiplicarono gli uccelli e le bestie selvatiche in modo incredibile, come fagiani, pernici, quaglie, lepri, caprioli, cervi, bufali, porci selvatici e lupi rapaci. E i lupi non trovavano più come prima bestie da mangiare, agnelletti e pecore, perché i paesi erano stati completamente incendiati. E per questo, raccogliendosi in branchi foltissimi intorno ai fossati delle città, ululavano con urli altissimi per il tormento insopportabile della fame.
E di notte penetravano nelle città e divoravano gli uomini che dormivano sotto i portici o sui carri; e anche le donne e i bambini. Qualche volta si scavano un buco nelle pareti delle case e sgozzavano i bambini nelle culle.
Nessuno potrebbe credere, se non avesse visto – come, io ho visto – le cose orribili, di ogni genere, che venivano commesse in quel tempo tanto dagli uomini che dalle bestie. Anche le volpi si moltiplicarono molto, tanto che nel tempo di quaresima due si arrampicarono perfino sul tetto dell'infermeria a' Faenza, per dite galline che stavano nel solaio sotto il coperto; delle quali nello stesso convento dei frati Minori ne catturammo una, come ho visto coi miei occhi, perché stavo là.

Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 267-268.

[1] Prov., 13.
[2] Giud., 5.


C) Ora messer Rizzardo conte di San Bonifacio di Verona, valente cavaliere e molto prode, quando Parma si ribellò all'imperatore, fu il primo che portò soccorso al Parmigiani. Venendo per Guastalla, entrò nella città con molti soldati. E i Parmigiani, a riconoscimento del servizio, gli diedero il palazzo dell'imperatore che sta nell'Arena, e gli affidarono i pieni poteri perché difendesse coi suoi la città dalla parte dei Reggiani.
E il giorno seguente arrivò la cavalleria dei Piacentini, ed erano trecento cavalieri, ottimamente equipaggiati quanto a cavalli ed armi. Questi fecero la guardia alla città accampati nella ghiaia del torrente Parma, stando, alle volte, quando ce nera bisogno, seduti in armi sui cavalli. E tale servizio era più un divertimento che un peso. Gli altri giorni o restavano nei loro villaggi, o passeggiavano per la città divertendosi, quando volevano.
E il terzo giorno dopo l'ingresso del conte di San Bonifacio, arrivò messer Gregorio da Montelongo, legato dei signor papa e messer Bernardo di Rolando Rossi, cognato di messer Innocenzo IV papa, con mille cavalieri di Milano. E questi difendevano la città verso i monti, sulla ghiaia di Parma, quando era necessario.
E i Parmigiani si erano accampati con il legato fuori della città, sulla strada che va a Borgo San Donnino. E per avere una difesa contro l'assalto dei nemici scavarono una fossa e costruirono uno steccato.
Intanto l'imperatore infiammato d'ira e fuor di sé per quanto gli era capitato venne a Parma e nel paese di Grola – nel quale ci sono moltissime vigne, e il vino ci viene buono; e sì, il vino di quella zona è ottimo – fece sorgere una città con vasti fossati attorno, che per di più – a presagio dei futuri eventi – chiamò Vittoria, e le monete coniatevi si chiamarono vittorini e la chiesa maggiore S. Vittorio. E in quel luogo si accampò Federico coi suo esercito e re Enzo con l'esercito dei Cremonesi.
E l'imperatore mandò a dire a tutti i suoi amici che s'affrettassero a venire a dargli aiuto. Il primo ad arrivare fu Ugo Botteri, nipote per parte di sorella di Innocenzo IV, podestà allora di Pavia; e condusse tutti i Pavesi atti a portare le armi. Mai il papa era riuscito, né con preghiere né con promesse, a strappare questo sito nipote all'amore di Federico; e sì che il papa voleva bene a sua madre più che alle altre due sorelle che aveva, maritate in Parma. Dopo di lui arrivò Ezzelino da Romano, che allora aveva il dominio della Marca Trevigiana, portando con sé un numerosissimo esercito [1].
Costui era temuto più dei diavolo, perché era niente per liti uccidere uomini donne e bambini; e commise crudeltà pressoché inaudite Nemmeno Nerone fu uguale a liti nelle efferatezze; né Domiziano, né Decio, né Diocleziano, che furono i più tiranni fra i tiranni.
Infatti un giorno fece bruciare vivi undicimila Padovani in campo S. Giorgio a Verona. Ed essendo stato appiccato il fuoco all'edificio in cui si trovavano, mentre venivano bruciati si divertiva torneando coi suoi cavalieri attorno a loro.
Sarebbe lungo elencare le sue crudeltà. Occorrerebbe un grosso libro solo per questo. Ho questa sicura convinzione: come il figlio di Dio volle avere un amico del tutto particolare, da rendere in tutto somigliante a sé, cioè il beato Francesco; così il demonio si comportò con Ezzelino.

Dunque, in quell'intervallo di tempo – prima che i Parmigiani sconfiggessero la città di Vittoria – ogni giorno da una parte e dall'altra facevano sortite e combattevano i balestrieri, gli arcieri – cioè gli scagliatori di frecce –, i frombolieri dei due eserciti; e si accendeva aspro combattimento, come vidi coi miei occhi. Per di più i mercenari scorrazzavano ogni giorno per il territorio di Parma, tutto saccheggiando e incendiando; e lo stesso facevano quelli di Parma al danni dei Cremonesi e dei Reggiani.
Anche i Mantovani arrivarono in quel tempo e incendiarono tutta Casalmaggiore, come vidi coi miei occhi.
E l'imperatore ogni mattina arrivava coi suoi e nel letto dei fiume Parma faceva tagliare la testa a tre o quattro o anche a più, come gli pareva, dei suoi prigionieri; dei Parmigiani, dei Modenesi e dei Reggiani di parte della Chiesa, in modo che i Parmigiani che erano in città vedessero e si demoralizzassero. E questo faceva nel letto del fiume Parma verso i monti, oltre il ponte di donna Egidia, nel luogo chiamato Biduzzano.
E allora con l'imperatore tutta la cavalleria nemica si teneva pronta in armi, temendo che i Parmigiani con i loro alleati, che gli stavano di fronte nell'interno della città, uscissero ad assalirli. Poiché, come dice il beato Girolamo, è prudenza temere quanto può capitare. Per presunzione a temere infatti meno di quanto si deve il nemico.
Ma c'è un proverbio che dice: «Non fanno anni quello che fa un giorno». Di questo unico giorno si parla in Zaccaria, 14: E vi sarà un giorno che é già noto al Signore.
Quel giorno unico fu il giorno in cui l'imperatore fu dai Parmigiani vergognosamente messo in fuga dalla sua città di Vittoria. Cosa che egli aveva meritato, perché aveva fatto subire morte crudele a miti innocenti. Per questo il Signore dice: Di questi voi ne ucciderete e ne crocifiggerete e ne flagellerete [2].
E ne sono prova Andrea da Trezzo, che fu nobile cavaliere di Cremona e Corrado da Berceto, che era chierico e prode guerriero, che l'imperatore sottopose a varie torture e coi fuoco e con l'acqua e in altri modi.
E prima che Parma si distaccasse da Federico, erano stati inviati a Modena dai Parmigiani duecento cavalieri per fare la guardia alla città.
E i Modenesi, che erano di parte imperiale, non appena seppero che Parma si era staccata dall'Impero, li rinchiusero prontamente in carcere li misero in ceppi. Lo stesso fecero i Reggiani, nei riguardi dei Parmigiani che stavano nella loro città per lo stesso motivo. L'imperatore mandò a prendere questi cavalieri e li tenne in prigione a Vittoria, e ne uccideva quando gli veniva il capriccio; ma particolarmente ogni volta che assalendo la città dei Parmigiani con parole ingiuriose e con le armi ne aveva la peggio, dava conforto al suo cuore uccidendo dei prigionieri. Infatti fece con le sue truppe frequenti tentativi per prendere la città.

Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 30-32.

[1] Ezzelino III da Romano (1194-1259).
[2] Matt., 23.


(D) Ora torniamo a Federico, che sfogò il rancore e la maledetta rabbia di cui avvampava contro Parma dalla fine di giugno del 1247 al 18 febbraio dei 1248, giorno in cui – era martedì – fu presa la città di Vittoria. Tutti i Parmigiani e tutti i cavalieri e i popolani armati e addestrati per il combattimento, uscirono da Parma, e le loro donne uscirono con loro: similmente, i bambini e le bambine, gli adolescenti e le ragazze. I vecchi con i giovani; e con grande impeto scacciarono da Vittoria l'imperatore con tutti i suoi cavalieri e fanti.
E là molti furono uccisi, e molti catturati e condotti in Parma. E liberarono i propri prigionieri che l'imperatore teneva in ceppi a Vittoria.
E si avverarono le parole della Scrittura in Isaia, 14: Faranno preda dei loro predatori, signoreggeranno sui loro oppressori. E il carroccio dei Cremonesi che era in Vittoria lo portarono dentro Parma e lo collocarono in bolla vista nel battistero.
Ma quelli che non amavano i Cremonesi – come i Milanesi e i Mantovani e parecchi altri, che in altri tempi erano stati offesi da loro – quando venivano a visitare il battistero e vedevano ivi il carroccio dei loro nemici – che si chiamava la Berta – strappavano via qualcosa dell'addobbo della Berta, per averne un ricordo. Cosicché non rimasero sul pavimento dei battistero se non le ruote e il piano del carro mentre la colonna dei gonfalone, cioè la pertica stava drizzata contro il muro.
Così pure i Parmigiani portarono via all'imperatore tutto il sito tesoro, che era ricco assai, e comprendeva oro, argento, pietre preziose, vasi e vestimenti; e si impossessarono di tutto il sito corredo e della sua suppellettile e anche della corona imperiale, che era di grande peso e valore, tutta doro e tempestata di pietre preziose, con molte figure in rilievo lavorate, che sembravano cesellature. Era grande come un'olla. Aveva più il valore di dignità e di tesoro che la funzione di ornamento dei capo. Avrebbe infatti coperto tutta la testa con la faccia, senza l'accorgimento di una certa pezza che la teneva alzata. Io l'ho tenuta nelle mie mani, perché si conservava nella sagrestia della cattedrale di Parma, dedicata alla Beata Vergine. […]
Questa corona la trovò un ometto di media statura, che chiamavano scherzosamente Cortopasso, per via che non era alto. E se la portava in giro per le strade, tenendola in mano come un falcone, mostrandola a tutti quelli che la volevano vedere, a vanto della vittoria conseguita e dello scorno sempiterno di Federico.
E tutto ciò che uno poteva trovare e portar via era suo, né alcuno ardiva o presumeva di togliere alcunché agli altri. […]
La corona di cui si è detto sopra, i Parmigiani la comperarono poi da quel loro concittadino e gli diedero duecento lire imperiali e un fabbricato presso la chiesa di S. Cristina, dove in antico c'era stato il lavatoio dei cavalli.
E fu stabilito che chiunque avesse qualcosa dei tesori di Vittoria, se ne tenesse la metà e l'altra metà la consegnasse al comune. […]
Le cose personali dell'imperatore riguardanti la guerra, come i padiglioni e cose simili, furono assegnate a Gregorio da Montelongo, legato. Le icone e le reliquie che l'imperatore portava con sé. furono collocate nel sacrario cioè sagrestia, della cattedrale dedicata alla Vergine Maria, per esservi conservate.

Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 40-42.

 

© 2000-2005 Reti Medievali Ultimo aggiornamento: