Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
6. Giudizi su Federico II (A) Niccolo Iamsilla, Storia,
pp. 105-107. (B) Salimbene De Adam, Cronaca,
pp. 484-485. (C) Sibt Ibn al-Giawzi, Lo specchio
del tempo, 432-434.
Figura quanto mai controversa, quella di Federico II, sulla quale il
giudizio dei contemporanei e dei posteri ha preso strade divergenti.
Presentiamo qui tre testimonianze contemporanee. La prima è quella
di Niccolò Iamsilla, un cronista dell'Italia meridionale di cui
ignoriamo quasi tutto – lo stesso nome a lui attribuito è errato,
e si riferisce probabilmente al proprietario di un manoscritto della
cronaca –, ma che dovette essere comunque un contemporaneo, forse identificabile
con il notaio Gervasio di Martina, fedele collaboratore di Manfredi
fra il 1253 e il 1256. La sua cronaca, che va dal 1210 al 1258, è
in effetti ghibellina e filosveva ed esalta Federico, vinto solo dalla
legge della morte (A).
Guelfa, potremmo dire, ma a suo modo, quella di Salimbene: il ritratto
di Federico, dall'autore inquadrato in parametri negativi, trasuda però
ammirazione per un uomo che Salimbene sente essere stato di una tempra
eccezionale. Con la sua solita particolare sensibilità, Salimbene
da inoltre spazio ad una serie di aneddoti su Federico “epicureo”
e “razionalista” che già allora circolavano, e che
saranno aliti base di tanti racconti e novelle più tarde (B).
In ultimo, positiva è l'eco di Federico nel mondo musulmano,
in quanto sovrano tollerante e pronto a riconoscere la superiorità
dell'Islàm. Un quadro, quello tracciato da al-Giawzi (1186-1256),
che – se su di esso non pesasse il sospetto più legittimo di
una deformazione propagandistica – sembra coincidere, ma con il segno
rovesciato, con quello del Federico “miscredente” tracciato
dai suoi avversari di parte papale (C). (A) Fra coloro che, a memoria
duomo, hanno retto l'impero romano, l'imperatore Federico, che traeva
la sua origine nobilissima da un padre egli pure imperatore, più
di ogni altro ornò con la sua sapienza e generosità la
dignità dell'impero, al punto che si può provare che ha
conferito più decoro egli all'impero che l'impero a lui. Nella
sua fanciullezza, dopo la morte di entrambi i genitori, rimase, quasi
agnello, fra i lupi, fra i tiranni che dilaniavano lui e le sue sostanze,
sotto la protezione solo della destra divina; finché, giunto
alla pubertà, sotto il pontificato romano di Innocenzo III, superò
più con la virtù celeste che terrena Ottone, che, dopo
aver ricevuto l'impero aveva portato le sue truppe nel regno di Sicilia,
preziosa eredità del fanciullo. Prese poi vendetta dei tiranni,
inseguendoli; ottenne infine la corona imperiale tanto per elezione
dei principi che per successione dagli avi e dalla madre.
In seguito, quando papa Onorio III governava la sede apostolica, avendo
sistemata la Germania sotto il governo del suo figlio primogenito Enrico
(che aveva avuto da sua moglie, la spagnola Costanza) assalì
la Sicilia e con la potenza dei suo esercito e la [sua] abilità
scacciò in pianura i Saraceni, che al tempo della sua infanzia
si erano ribellati e si erano rifugiati sulle cime dei monti; e mandò
ad abitare in Puglia, in una località detta Lucera, in condizione
di servitù in un primo momento una gran parte di loro e, con
il passare del tempo, [anche] tutti [gli altri].
Sconfitti dunque i Saraceni e ordinato in pace tutto il regno, passò
nel suo regno gerosolimitano, nel quale i Saraceni d'Oltremare [agivano]
in pregiudizio della sua autorità, poiché in sprezzo della
fede cristiana mettevano in pratica nel Sepolcro di Cristo le turpitudini
della loro superstizione: e mentre voleva sistemare lo stato di quel
regno, avendo appreso che papa Gregorio, che era successo ad Onorio,
aveva fatto entrare un esercito nel regno di Sicilia, [e che questo
esercito era arrivato] sino ai confini della Puglia (la quale in assenza
dell'imperatore lo aveva accolto), sistemate le cose del regno di Gerusalemme
per quanto lo permetteva la brevità dei tempo [disponibile],
entrò nel regno di Sicilia, e, cacciato l'esercito straniero
fuori dei confini del regno e riportata la calma fra i Regnicoli, si
recò con potenti forze in quelle parti d'Italia e di Germania,
che il medesimo motivo aveva sconvolto. E quindi rimosse il suo primogenito
Enrico [1], che
trovò mutato nei suoi confronti per le suggestioni dei suoi nemici
– quasi vedesse le viscere fuori di sé – e lo mandò in
Calabria, e poi, ordinato al suo posto in Germania suo figlio Corrado
li, che, gli aveva generato l'imperatrice Isabella di Gerusalemme, si
recò in Lombardia, dove per prima cosa espugnò potentemente
la città di Vicenza, ribelle all'impero; poi debellò i
Milanesi e i loro complici ribelli contro l'impero in una battaglia
campale, catturando il loro esercito, e, catturati in quel combattimento
molti di Lombardia, li mandò in carcere nel suo regno. Devastò
completamente Brescia; costrinse Faenza, dopo averla circondata con
tiri mirabile assedio, ad arrendersi; convinse con la forza della sua
potenza alla dovuta soggezione molte altre città in Lombardia
e Toscana, che si erano ribellate all'impero.
Inoltre fondò alcune città nel regno, e cioè Augusta
ed Eraclea in Sicilia, Monteleone ed Alitea in Calabria, Dordona e Lucera
nella Puglia, Flagella nella Terra del Lavoro di fronte a Ceprano. Distrusse
d'altra parte alcune altre città al tempo della sua minorità;
e altre [le distrusse] dopo che si erano a lui ribellate, ovvero Centorbio,
Capizio e Traiana in Sicilia, Benevento nella provincia beneventana
e San Severo in Puglia.
Fu un uomo di grande cuore, ma la molta sapienza che fu in lui moderò
la sua magnanimità, in modo tale che mai l'impeto lo costrinse
a fare qualcosa, ma procedette in ogni cosa con la maturità della
ragione; e certamente avrebbe fatto cose molto più grandi se
avesse potuto obbedire ai moti dei suo cuore senza il freno moderatore
della filosofia. Difatti era studioso della filosofia, che non solo
coltivò egli stesso, ma ordinò anche che fosse diffusa
nel regno. C'erano allora, in verità, nel felice tempo dei suo
[governo], pochi letterati nel regno di Sicilia, o addirittura nessuno;
ma lo stesso imperatore costituì nel regno scuole di arti liberali
e di tutte le scienze approvate, e attirò dottori dalle diverse
parti del mondo con la liberalità dei premi, dopo aver stabilito
un salarlo tanto per loro, quanto per i poveri [fra i loro] allievi,
affinché gli uomini di ogni condizione e fortuna non fossero
allontanati dallo studio della filosofia a causa di nessun [tipo di]
povertà.
Lo stesso imperatore, inoltre, con la sua grande abilità, che
si esercitava soprattutto nella scienza naturale, compose un libro sulla
natura e la cura degli uccelli, nel quale appare manifesto quanto l'imperatore
fu cultore della filosofia. Amò e coltivò anche a tal
punto la giustizia, che a nessuno fu vietato di discutere del suo diritto
anche con l'imperatore in persona e la giustizia era uguale [per tutti].
Nessun avvocato esitava ad assumere contro di lui la difesa di chiunque
per quanto fosse povero, giacché lo stesso imperatore aveva stabilito
che ciò fosse lecito, reputando meglio conservare la giustizia
anche ai suoi danni, che avere [comunque] vittoria nella disputa.
Tuttavia coltivò la giustizia in modo tale, che temperò
spesso il suo rigore con la clemenza. Infatti [avvenne che], quando
il predetto papa Gregorio voleva riunire contro di lui il concilio a
Roma, a questo, convocati, si recavano per mare su una flotta munitissima
dei Genovesi quasi tutti i prelati oltramontani, [e] l'ammiraglio dell'imperatore,
al quale era affidata la custodia dei transiti marittimi, sconfisse
i Genovesi in una battaglia navale e prese tutti i prelati con due cardinali
legati della sede apostolica, che avevano convocato i medesimi prelati
al concilio, e li condusse prigionieri nel regno; [allora] l'imperatore,
sebbene contro di loro – che minacciavano la sua dignità – avrebbe
potuto procedere per via giudiziaria, per la stia clemenza tuttavia
li assolse: e, soddisfacendo più Dio che se stesso, permise loro
di andarsene liberi.
E in realtà la sola virtù della sagacia lo tenne su, [per
quanto] oppresso per opera di varie avversità promosse dai suoi
rivali, ma in nessun modo vinto; e sebbene talvolta la perfidia dei
suoi cortigiani sorse contro di lui, opprimendolo e colpendolo, [e],
rivelata infine la loro cospirazione, anche la spada familiare si levasse
per [provocare] la sua rovina, e sebbene anche [fosse] attaccato dal
forti Lombardi per distruggerlo, grazie all'incomparabile grandezza
del suo cuore ottenne l'improvviso risultato di una sua vittoria. Nonostante
tutto, egli fino all'ultimo giorno concessogli dal destino visse glorioso
e ammirato in tutto il mondo; e colui che era stato invincibile per
tutti, soccombette solo alla legge della morte. Niccolo Iamsilla, Storia, pp. 105-107. [1] Enrico VII, re di Germania, deposto
e imprigionato da Federico nel 1235. Morì nel 1242. (B) Nota che Federico quasi
sempre amò aver discordia con la Chiesa, e la contrastò
in molti modi. Proprio la Chiesa, che lo aveva nutrito e difeso ed elevato.
Della fede in Dio non ne aveva neanche un po'.
Era un uomo astuto, sagace, avido, lussurioso, malizioso, iracondo.
E fu uomo valente qualche volta, quando volle dimostrare le sue buone
qualità e cortesie: sollazzevole, allegro, delizioso, industre.
Sapeva leggere, scrivere e cantare; e sapeva comporre cantilene e canzoni.
Fu bell'uomo e ben formato, ma era di statura media.
E io lo vidi, e una volta gli volli bene. Infatti fu liti a scrivere
per me a frate Elia, ministro generale dell'Ordine dei frati Minori,
perché per amore suo rendesse me a mio padre [1].
Ancora, sapeva parlare molte e svariate lingue. E, per farla corta se
fosse stato veramente cattolico e avesse amato Dio e la Chiesa e la
propria anima, avrebbe avuto al mondo pochi uguali a liti nell'autorità.
[…]
«Con lui sarà finito anche l'impero, e se pure avrà
successori non avranno né autorità né grado di
imperatori romani». Queste sono parole di una certa sibilla, come
dicono. Ma io non le ho trovate né nella sibilla Eritrea, né
nella Tiburtina. Non ho letto gli scritti delle altre; infatti le sibille
furono dieci. Quando veridico fosse questo vaticinio è chiaro
sufficientemente, sia per quanto riguarda la Chiesa che per quanto riguarda
l'impero.
Infatti per quel che riguarda l'impero gli successe Corrado, figlio
di Federico, legittimo figlio della moglie che fu figlia dei re Giovanni.
Costui non ebbe mai l'impero né poté avere molta fortuna.
A lui successe Manfredi, suo fratello, che Federico aveva avuto da un'altra
moglie. Costei era nipote dei marchese di Lanza; Federico la sposò
e la prese in moglie in punto di morte. Manfredi non ebbe mai l'impero
ma solo il titolo di principe da quelli che erano amici di suo padre,
e tenne molti anni il dominio in Calabria e Sicilia e Puglia, dopo la
morte del padre e del fratello.
A lui tentò di succedere Corradino, figlio di Corrado, figlio
di Federico ex-imperatore; ma tanto Manfredi che Corradino furono uccisi
da Carlo fratello del re di Francia [2].
Da parte della Chiesa poi successero nell'impero, per volontà
dei papa, dei cardinali e dei prelati e degli elettori: il langravio
di Turingia, poi Guglielmo d'Olanda e poi Rodolfo d'Alemagna [3].
Ma nessuno di loro poté aver fortuna fino alla piena potestà
dell'impero. Pertanto sembra che il sopraddetto vaticinio fosse veridico.
Ora dobbiamo parlare delle arbitrarie stranezze di Federico. La prima
di queste fu che fece mozzare il pollice a un notaio, perché
aveva scritto il suo nome diversamente da come lui voleva. Voleva infatti
che nella prima sillaba del suo nome mettesse la i, in questa maniera:
vocale Fridericus, e quello lo aveva scritto con la e, mettendoci
la prima vocale in questo modo: Fredericus.
La sua seconda stranezza fu che volle sperimentare quale lingua e idioma
avessero i bambini, arrivando all'adolescenza, senza aver e idioma potuto
parlare con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle
nutrici di dare il latte agli infanti, e lasciar loro succhiare le mammelle,
di far loro il bagno, di tenerli netti e puliti, ma con la proibizione
di vezzeggiarli in alcun modo, e con la proibizione di parlargli. Voleva
infatti conoscere se parlassero la lingua ebrea, che fu la prima, oppure
la greca, o la latina o l'arabica; o se non parlassero sempre la lingua
dei propri genitori, dai quali erano nati. Ma s'affaticò senza
risultato perché i bambini o infanti morivano tutti. Infatti
non potrebbero vivere senza quel batter le mani, e senza quegli altri
gesti, e senza l'espressione sorridente dei volto, e senza le carezze
delle loro balie e nutrici. […]
La sua terza stranezza fu che quando vide la terra d'oltremare – che
era la terra promessa, che Dio tante volte aveva lodato, chiamandola
terra sgorgante latte e miele [4]
ed eccellente sii tutte le terre – non gli piacque e disse che il Dio
dei Giudei non conosceva la sua terra, cioè la Terra di Lavoro,
la Calabria e la Sicilia e la Puglia, diversamente non avrebbe tante
volte lodato la terra che promise e diede ai Giudei.
Dei quali anche si dice che ebbero a vile un paese desiderabile [5].
[…]
La sua quarta stranezza fu di mandare un tal Nicola giù in fondo
al Faro [6] più
di una volta, contro la sua volontà. E altrettante volte ne tornò
indietro. E volendo Federico conoscere la verità in modo sicuro
– se veramente Nicola fosse arrivato fino in fondo prima di risalire,
o no – gettò la sua coppa d'oro dove pensava fosse il punto più
profondo. E Nicola scese giù, la trovò e gliela portò;
e l'imperatore se ne stupì. Volendolo poi mandare giù
di nuovo, Nicola disse all'imperatore: «Non vogliate in alcun
modo mandarmi laggiù, perché il mare in fondo è
così turbato, che se mi manderete non tornerò più».
Ciononostante l'imperatore gli impose di immergersi, e Nicola non ritornò
davanti a liti perché morì laggiù. Salimbene De Adam, Cronaca, pp. 484-485. [1] La vocazione religiosa
di Salimbene unico figlio maschio, era stata fortemente contrastata
dal padre.
[2] Cfr. i paragrafi 17-9.
[3] Salimbene descrive qui con
pochi tratti il periodo del «grande interregno» dell'impero
(1250-1273), che si fa di solito concludere proprio con l'elezione di
Rodolfo d'Asburgo nel 1273; è però vero che Rodolfo non
prese mai la corona imperiale e fu solo re di Germania (re dei Romani).
[4] Deut., 26,9; 27,3,
ecc.
[5] Sal., 105, 24.
[6] È lo stretto di Messina. (C) Entrò l'imperatore in Gerusalemme,
mentre Damasco era cinta, d'assedio [1].
In questa sua visita occorsero vari curiosi incidenti: uno di questi
fu che quando entrò nel Santuario della Roccia vide un prete
seduto presso l'impronta del Sacro Piede, che prendeva dei fogli dai
Franchi [2] egli andò
alla sua volta come se volesse chiederne la benedizione, e gli dette
un pugno buttandolo a terra: «Porco, – esclamò, – il Sultano
ci ha fatto il favore di farei visitar questo luogo, e voi state a fare
qui azioni simili! Se uno di voi penetra ancora qui a questo modo, lo
ammazzo!» La scena fu raccontata dagli addetti Aia Roccia, che
narrarono anche questa: egli guardò l'iscrizione corrente nell'interno
dei Santuario, che dice «Saladino purificò dai politeisti
questa città di Gerusalemme … », e domandò: «Chi
sarebbero questi politeisti?» Domandò anche agli addetti
al Santuario: «Queste reti sulle porte della Roccia, a che servono?»
Risposero: «Perché non ci entrino i passerotti»,
e lui: «E Dio vi ha condotti qui invece i giganti! [3]».
Venuto poi il tempo della preghiera del mezzogiorno, e risonato l'appello
dei muèzzin, si levarono tutti i suoi paggi e valletti, e il
suo maestro, un siciliano con cui leggeva la Logica nei suoi vari capitoli,
e fecero la preghiera canonica, ché eran tutti musulmani. L'imperatore,
raccontarono sempre quegli inservienti, era di pel rosso, calvo, miope:
fosse i stato uno schiavo, non sarebbe valso duecento dirham. Ed era
evidente dai suoi discorsi che era un materialista, che del cristianesimo
si faceva semplice gioco. Al-Kamil aveva ordinato al cadi di Nabulus
Shams addin di dar istruzioni ai muèzzin affinché per
tutta la durata dei soggiorno dell'imperatore di Gerusalemme non salissero
sui minareti e non lanciassero l'appello alla preghiera nella zona sacra.
Il casi si era scordato di avvertire i muèzzin, e così
il muèzzin Abd al- Karìm quella notte al tempo dell'alba
montò sul minareto, mentre l'imperatore alloggiava in casa dei
cadi, e prese a recitare i versetti coranici sui cristiani, come «Iddio
non si è preso figlio alcuno» riferentesi a Gesù
figlio di Maria, e simili. Al mattino, il cadi chiamò Abd al-Karìm,
e gli disse: «Cos'hai fatto? Il Sultano ha ordinato così
e così». Rispose l'altro: «Tu non me ne avevi informato,
mi rincresce», e così la seconda notte non salì
sul minareto. Al mattino seguente, l'imperatore chiamò il cadi,
che era entrato in Gerusalemme addetto al suo servizio, e fu lui che
gli fece la consegna della città: «0 cadi, – disse, – dov'è
quell'uomo che salì ieri sul minareto e disse quelle parole?»
Quegli lo informò che il Sultano gli aveva fatto quella raccomandazione:
«Avete fatto male, o cadi, – ribatté l'imperatore; – volete
voi alterare il vostro rito e la vostra Legge e fede per cagion mia?
Se foste voi presso di me nel mio paese, sospenderei io forse il suono
delle campane per cagion vostra? Perdio, non lo fate; questa è
la prima cosa in cui vi troviamo in difetto». Indi distribuì
una somma di denaro fra gli addetti e i muèzzin e i devoti del
Santuario, dando a ognuno dieci dinàr; non stette a Gerusalemme
che due notti, e fece ritorno a Giaffa, temendo dei Templari che volevano
ammazzarlo. Sibt Ibn al-Giawzi, Lo specchio del tempo, 432-434. [1] Si tratta di scontri interni
fra i principi musulmani.
[2] Passo poco chiaro il piede
è quello di Maometto, che salì al cielo lasciando la sua
impronta sulla roccia.
[3] Forse meglio «prepotenti»
o addirittura «maiali»: sono epiteti con i quali Federico
indica i crociati. Forse è il ricordo di una battuta pronunciata
in arabo dall'imperatore.
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