Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
7. L'età di Manfredi (A) Tommaso Tosco, Gesta degli
imperatori e dei pontefici, SS 22, pp. 517-518. (B) Saba Malaspina, Storia dei
fatti di Sicilia, I, 2. (C) Giovanni Villani, Nuova Cronica,
VII, 79.
Scomparso l'imperatore Federico, suo figlio Manfredi, illegittimo –
era figlio di Bianca Lancia, a sua volta figlia dell'aleramico marchese
Manfredi II –, diventò a soli diciannove anni reggente del regno
(era nato nel 1232). Superata la crisi provocata dall'arrivo di suo
fratello Corrado IV, erede del regno per volontà paterna, qualche
anno dopo la morte di quest'ultimo Manfredi diventò re di Sicilia
(1258). Il guelfo Tommaso Tosco (o Tommaso da Pavia), francescano, guelfo,
autore dei Gesta imperatorum et pontificum (che vanno fino
al 1278), dopo aver riconosciuto a Manfredi alcuni tratti positivi,
cede alla vena polemica e delinea un quadro a tinte fosche dell'attività
dei figlio di Federico, assassino a suo dire dei figli di Enrico, di
Corrado ed anche tentato assassino di suo nipote Corradino, figlio di
questi (A).
Siamo di fronte, come si vede, a testi ideologicamente molto orientati.
Ciò lo si può rilevare assai bene anche nel secondo brano,
opera di Saba Malaspina, decano della chiesa calabrese di Mileto e collaboratore
di Martino IV (1281-1285), durante il cui pontificato scrive la sua
Rerum Sicularum Historia (12501285): nel brano (B)
un malvagio Manfredi, divenuto re di Sicilia, estende la sua sinistra
influenza fuori dei confini del regno, ricompattando le forze ghibelline
del centro-nord e vendicando l'onta di Parma [cfr. paragrafo 5]. In
questo quadro politico, la vittoria di Montaperti (1260) consegnò
davvero ai ghibellini la supremazia in Toscana: la disperazione dei
guelfi fiorentini sconfitti è descritta efficacemente da Giovanni
Villani (C). (A) Dopo la morte di Corrado
si impadronì del regno Manfredi, che non era legittimo, ma tra
gli illegittimi era il più nobile. Federico aveva avuto infatti
quattro figli illegittimi. […] Il quarto era Manfredi, nato dalla
sorella del marchese Lancia, figlia di donna Bianca Lancia, amatissima
dall'imperatore. Sì racconta infatti che l'imperatore, recatosi
a trovarla quando ella era in punto dì morte, l'avesse confortata
con queste parole: «Consolati mia diletta, e rallegrati, perché
se guarirai dividerai con me le sorti dell'impero». Per questa
frase di conforto si sparse la voce che l'avesse sposata in articulo
mortis e avesse di conseguenza legittimato sia Manfredi sia la sorella,
fatta sposare all'imperatore greco Vatatzio.
Tra tutti gli altri figli illegittimi Manfredi era colui che l'imperatore
prediligeva, per amore della madre moria, che tanto aveva avuta cara,
ma anche perché mostrava, rispetto agli altri, una migliore indole.
Molti però dicono che Manfredi non avrebbe potuto in alcun modo
essere legittimo, se era vero quanto affermavano sia la già citata
Bianca, madre di stia madre, sia l'altra figlia di Bianca, le quali
asserivano di avere avuto rapporti con l'imperatore, e con lui soltanto.
In questo caso la madre di Manfredi non avrebbe mai potuto sposare l'imperatore.
Questo Manfredi, bellissimo, estremamente avveduto, di straordinario
valore, pio nel soccorrere gli afflitti, generoso nel donare ai meritevoli,
benevolo e affabile con tutti, era da tutti amato. […] Alla morte
dei padre, comportandosi da governatore, rafforzò tutti i fortilizi
del regno e si impossessò dei tesori, dicendo che agiva in qualità
di amministratore di Corrado, onde fargli trovare tutto in ordine quando
giungesse nel regno. Frattanto faceva però arrivare i suoi parenti
materni, cioè i conti Galvano, Bonifacio, Giordano, e molti altri
che rese potenti, rafforzandosi con la loro presenza. Quanto ai figli
di Enrico, il primogenito di Federico, procurò invece di eliminarli
coi veleno, tramite Giovanni Moro.
Corrado, quando giunse, entrò dunque – come ho già detto
– in possesso del regno, ma mentre tentava di estromettere Manfredi
venne da lui ucciso, come pure ho avuto modo di narrare [1].
E Manfredi, per occultare i suoi piani malvagi, esibì, da parte
di Corrado, un falso testamento nel quale il principato assegnato a
Manfredi dal padre veniva confermato per volontà del fratello,
che lo costituiva inoltre governatore dell'intero regno finché
non fosse giunto alla maggiore età il proprio figlio ed erede,
Corradino.
Accomodate così le cose, Manfredi richiamò i parenti che
Corrado aveva proscritto e spartì il regno con loro, attenendosi
ai loro consigli. Ma per avere il dominio assoluto cercava il modo di
poter nascostamente eliminare Corradino. […] Convocò due
cavalieri, che erano stati amici di Corrado, e promise loro grandi cose,
se fossero stati disposti ad accondiscendere alla sue richieste. Uno
di questi cavalieri era di Pavia, l'altro – che si chiamava Corrado
– era di Foligno.
Quest'ultimo, che voleva salvare Corradino, finse di essere disposto
ad obbedire in cambio di un'adeguata ricompensa. Ricevuta la promessa,
entrambi si recarono in Baviera dove trovarono Corradino in buona salute
e dove consegnarono molti doni alla madre, da parte di Manfredi. Ma
Corrado, in segreto, avverti la madre di custodire con la massima cura
il fanciullo informandola che tra i doni era stata portata una boccetta
di profumo di oro e gemme che era destinata come balocco speciale per
il bambino, il quale sarebbe però morto, se l'avesse annusata,
perché al profumo era stato mischiato un veleno. Consegnata la
boccetta, Corrado prese congedo e annunciò a Manfredi di aver
dato il profumo al bambino. Manfredi, sapendo che il profumo era letale,
diede l'annuncio che il bimbo era morto, poi chiamò a sé
i principi del regno per farsi riconoscere re e convocò alcuni
vescovi dai quali si fece incoronare. Da come erano andate le cose la
chiesa lo giudicò pubblico nemico per aver usurpato il regno
con la violenza, e lo colpì con gli strali della scomunica. Tommaso Tosco, Gesta degli imperatori e dei pontefici, SS
22, pp. 517-518. [1] Corrado IV morì nel 1254. (B) Frattanto la bramosia dell'onore
e della gloria agiva come stimolo dal profondo dell'animo di re Manfredi,
indissolubilmente legato ai fastigi dei sangue imperiale ed avvezzo
sin dall'infanzia alle grandi aspirazioni. Così la rea cupidigia
– che diviene sempre più avida distruggendo la quiete umana e
conculcando il meraviglioso bene della libertà – aveva per effetto
che quanto più egli otteneva, tanto più egli desiderava.
E infatti, anche se il possesso di un così nobile regno, unito
a tanto ricchezza, avrebbe potuto appagare le sue passioni e contentarlo,
egli impegnò il suo intelletto ad occuparsi delle questioni di
Italia, dove un tempo l'autorità della dignità paterna
aveva emanato il suo fulgore.
Magari non avesse oppresso le terre della chiesa! Ma egli estese il
vigore della sua potenza fino ai Liguri, ne allargò la sfera
fino ai Toschi, ed atterrì gli sventurati Marchigiani facendo
sentire loro quanto vicine erano le sue forze.
In tutte le province – con antica ed errata consuetudine che risaliva
ai tempi di Federico – era invalso l'uso che i diversi pareri si traducessero
in opposte fazioni. Così in Liguria vi era ancora il marchese
Oberto Pelavicino, uomo prudente e nobilissimo, anche se ghibellino
e persecutore della chiesa. […] Anche in Toscana vi era ancora
la parte ghibellina, rappresentata specialmente da Siena […],
che rimaneva devota e pronta al servizio dell'imperatore e dei suoi
eredi, tanto quanto si mostrava irrispettosa verso la sede apostolica.
E pure nella Marca Anconitana permaneva l'ostinata divisione delle parti
che, poiché l'una desiderava una cosa e l'altra un'altra, si
contrapponevano con sempre rinnovata discordia.
Furono proprio le fazioni ghibelline di queste regioni che fecero pressantemente
appello a Manfredi, sia perché asserivano di essere state legate
a Federico dal vincolo della fede imperiale, sia perché, con
la sconfitta dei nemici, si ripromettevano di trarre vendetta delle
offese ricevute. [Dopo alcune esitazioni Manfredi decide di intervenire per rafforzare
ghibellini di Italia] Una volta presa la decisione, nominò in Lombardia capitano
e capo dei ghibellini il già citato marchese Pelavicino; inviò
in Toscana il suo consanguineo Giordano d'Anglano […]; e nella
Marca inviò Percivalle Doria, suo parente per nozze e suo famigliare.
Designò costoro come suoi vicari generali, dando ad ognuno una
non piccola schiera di soldati a cavallo ai quali aveva assegnato uno
stipendio mensile che doveva essere pagato regolarmente dal sito stesso
erario. Nelle mani dei vicari e sotto il loro duro regime l'onore dei
re prese ad innalzarsi, mentre crescevano parallelamente le ingiurie
della chiesa ed aumentava l'oppressione sui guelfi. [La città di Camerino, che aveva cercato di resistere a
Percivalle Doria, finisce per cadere nelle sue mani e viene distrutta]. Anche in Lombardia, dove le forze della regia magnificenza si erano
accresciute sotto il governo del già citato marchese, la fortuna
arrise al re con grandi successi. Infatti l'audacia di Parma, proprio
nello stesso luogo dove aveva dato alle fiamme gli accampamenti imperiali,
subì una ignominiosa sconfitta con la perdita dei carroccio e
patì il danno di un riuscito assalto. Così l'ingiuria
recata al padre fu virilmente vendicata dal figlio e quel luogo, che
con il suo nome di Vittoria era parso irridere all'imperatore, riservò
a Manfredi la grande gloria della vittoria sui nemici. Anche Cremona,
Pavia, Piacenza, Brescia e molte altre città lo obbedirono e
riverirono, ed il suo nome veniva trionfalmente esaltato, al di là
di quanto si potesse umanamente immaginare. Saba Malaspina, Storia dei fatti di Sicilia, I, 2. (C) Venuta in Firenze la novella
della dolorosa sconfitta, e tornando i miseri fuggiti di quella, si
levò il pianto d'uomini e di femmine in Firenze sì grande,
ch'andava infino a cielo; imperciò che non avea casa niuna in
Firenze, piccola o grande, che non vi rimanesse uomo morto o preso:
e di Lucca e del contado ve ne rimasono gran quantità, e degli
Orbitani [1].
Per la qual cosa i caporali de'Guelfi, nobili e popolari, ch'erano tornati
dalla sconfitta, e quegli ch'erano in Firenze, isbigottiti e impauriti,
e temendo degli usciti che venieno da Siena colle masnade tedesche;
e' Ghibellini ribelli e confinati ch'erano fuori della cittade cominciarono
a tornare nella terra; per la qual cosa i Guelfi, sanz'altro commiato
o cacciamento, colle loro famiglie piagnendo uscirono di Firenze, e
andarsene a Lucca, giuovedà a dì XIII di settembre, gli anni
di Cristo MCCLX. […]
E della partita molto furono da riprendere i Guelfi, imperciò
che città la di Firenze era molto forte di mura e di fossi pieni
d'acqua, e da poterla bene difendere e tenere; ma il giudicio di Dio
per punire la peccata conviene che faccia suo corso sanza riparo; e
a cui Idio vuole male gli toglie il senno e l'accorgimento. E partiti
i Guelfi il giuovidì, la domenica vegnente a dì XVI di
settembre, gli usciti di Firenze ch'erano stati a la battaglia a Monte
Aperti, coi conte Giordano e, colle sue masnade de' Tedeschi, e cogli
altri soldati de' Ghibellini di Toscana, arricchiti delle prede de'
Fiorentini e degli altri Guelfi di Toscana, entrarono nella città
di Firenze sanza con asto neuno. E incontanente feciono podestà
di Firenze per lo re Manfredi Guido Novello de'conti Guidi dal dì
a calen di gennaio vegnente a due anni: e tenea nagione nel palagio
vecchio dei popolo da San Pulinari, ed era la scala di fuori. E poco
tempo appresso fece fare la porta Ghibellina, e aprire quella via di
fuori, acciò che per quella via che risponde al palagio potesse
avere entrata e uscita al bisogno, per mettere in Firenze i suoi fedeli
di Casentino a guardia di lui e della terra; e perché si fece
al tempo de'Ghibellini, la porta e la via ebbe sopranome Ghibellina.
Questo conte Guido fece giurare tutti i cittadini che rimasono in Firenze
la fedeltà dei re Manfredi, e per patti promessi a' Sanesi fece
disfare cinque castella del contado di Firenze ch'erano alle loro frontiere;
e rimase in Firenze per capitano di guerra, e vicario generale per lo
re Manfredi, il detto conte Giordano colle masnade de' tedeschi al soldo
de' Fiorentini, i quali molto perseguitarono i Guelfi in più
parti in Toscana, corte innanzi faremo menzione; e tolsono tutti i loro
beni, e disfeciono molti palagi e torri de' Guelfi, e misono in comune
i loro beni. Il detto conte Giordano fu gentile uomo di Pierrionte in
Lombarda, e parente della madre del re Manfredi; e per la sua prodezza,
e perch'era molto fedele di Manfredi, e di vita e di costumi così
mondano com'egli, il fece conte e li diè terra in Puglia, e di
piccolo stato il mise in grande signoria. Giovanni Villani, Nuova Cronica, VII, 79. [1] Orvietani.
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