Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
4. Milano / 2: Gian Galeazzo (A) Gregorio Dati, Istoria di
Firenze, II, pp. 24-26. (B) Giovanni de Mussi, Cronaca
piacentina, RIS 16, c. 557. (C) Osio, Documenti diplomatici
tratti degli archivi milanesi, I, 229. (D) Leonardo Bruni, Storie del popolo di Firenze,
III , pp. 311-315.
Protagonista della fase matura dell'espansionismo visconteo
fu Gian Galeazzo, succeduto al padre Galeazzo nel 1378 anche
se fino al 1385 costretto a condividere il potere con lo zio Bernabò.
Gian Galeazzo orientò le direttrici della sua politica di
acquisizioni territoriali verso il Veneto, poi verso la Toscana e
specialmente nelle fonti toscane gli è riservata, non a caso, una
preoccupata attenzione. Riuscito difatti a promuovere una lega contro gli
Scaligeri, si impadronì di Verona, nonché di Vicenza (A). Si
volse poi verso sud, praticando un'accorta politica di alleanze. Cercò di
ottenere l'appoggio francese, forte anche della sua relazione di
parentela: nel 1360 aveva sposato Isabella di Valois, figlia del re di
Francia Giovanni II, e da ciò gli derivava il titolo di Conte di Vertus,
nella Champagne – o conte di Virtù, come è chiamato in molte cronache.
Dall'imperatore Sigismondo acquistò invece a titolo di legittimazione
formale al suo potere, l'investitura ducale (B).Un freno venne
imposto alle sue ambizioni da una lega tra Venezia e Firenze (trattato di
Pavia 1398). Ma con l'acquisizione della città di Pisa (C) e poi
l'ingresso nell'orbita viscontea di Siena e Perugina, infine con
l'occupazione di Bologna (1400), si profilava sempre più direttamente lo
scontro con Firenze quando, improvvisamente Gian Galeazzo morì (1402) (D).
Si apriva così la strada all'espansionismo di Venezia nelle more della
crisi viscontea conseguente alla spartizione del dominio tra i tre figli,
ordinata ancora secondo una concezione patrimoniale della successione.
Toccherà a uno di loro, Filippo Maria di riprendere con successo la
politica paterna, almeno fine alla sconfitta imposta ai Visconti a
Maclodio (1427) da Firenze e Venezia. (A) Erano in quel tempo in Lombardia
certi altri tiranni e signori de'quali erano massimamente grandi e belle
signorie, di buone e magnifiche cittadi e di molte castella e ville;
quello della casa della Scala, signore di Verona, e quello da Carrara,
signore di Padova, i quali siccome erano insieme vicini, così
già lungo tempo avevano conservato buona amicizia con pace e
con amore insieme e tranquillità e buono stato di loro e di loro
popoli intra quali non sarebbe potuta entrare alcuna potenza se non
col dividerli e farli nimici insieme, e come per la concordia erano
molto cresciuti, così era certo che la discordia gli farebbe
rovinare.
Questo conte di Vertù: sotto specie d'amicizia, sottilmente e
fraudolentemente corruppe l'animo di ciascuno di loro, in segreto profferendosi
e ricordando loro antiche nimicizie e mostrando a ciascuno che era tempo
a vendicare sue ragioni e ciascuno de'detti due signori si credeva avere
il detto conte dal suo; e siccome il nimico di Dio da modi assai che
é agevole cosa a cominciare piccola favilla e fa poi gran foco,
così l'uno all'altro venne a ridomandare certa castella di brighe
antiche e a poco a poco tanto venne che ciascuno di loro si mise in
punto con suo sforzo e sentivansi danari assai, intanto che si disse
allora per favola, che lo apparecchio di quello di Verona era simile
per nobiltà a quello della reina d'Oriente; non aveva misura
la spesa e l'esercito e le carra e il carriaggio e gli armamenti, che
non si ricordava simili di gran tempo a drieto. Dalla parte del Padovano
erano duchi e capitani dell'oste messer Giovanni d'Azio degli Ubaldini
con molta buona gente d'arme d'Italiani e messer Giovanni d'Aguto con
tutti buoni Inghilesi che erano in Italia, e dalla parte del Veronese
erano duchi e capitani tedeschi con molta nobile gente e forti del loro
corpo. E venuti al tempo della battaglia il conte di Vertù, molto
segretamente dava aiuto e favore a ciascuna parte per modo che di nicistà
era che quello che perdesse fusse sanza rimedio disfatto. La fortuna
concedette che dopo grande ed aspra battaglia la parte degli Italiani
degli Inghilesi sotto que' due savi duchi vinsono più per arte
e per sapere che per forza d'arme, e messo in rotta quello di Verona,
fidandosi del conte di Vertù che gli si mostrava amico, si rendè
nelle mani sue e del suo capitano e raccomandandosi a lui esso lo prese
e con false promesse gli tolse la città di Verona, mostrando
che la teneva per lui tanto che egli vi si vidde forte e quello signore
di Verona essendone fuori morì assai miseramente in Romagna,
e tennesi che gli fusse dato a bere veleno: e così finì
la signoria della Scala di Verona e delle sue terre e pervenne nelle
mani del conte di Vertù, il quale, senza indugio, mosse lite
e cagioni contro il Padovano e trovossi tanto forte e colui stracco
e senza aiuto che in poco tempo consumò la sua forza e convenne
che fusse vinto e perdesse la terra, e fu preso il Signore vecchio e
suo figlio messer Francesco si fuggì a Firenze perché
erano sempre stati amici. Gregorio Dati, Istoria di Firenze, II, pp. 24-26. (B) Nell'anno di Cristo 1395
il giorno 5 di settembre l'illustre principe signore Giovanni Galeazzo
Visconti conte di Virtù, dato che nell'anno della una nascita
era stato chiamato signore Galeazzo ora nelle sue lettere e anche nei
suoi diplomi viene scritto signore Giovanni Galeazzo, per quanto sia
solito scrivere anche signor Galeazzo. E pertanto nell'atto della sua
nomina a duca di Milano è scritto signore Giovanni Galeazzo come
sopra è stato detto. Nel predetto anno di Cristo 1395, il 5 di
settembre lo stesso illustre principe Giovanni Galeazzo Visconti, conte
di Virtù, nella città di Milano fu solennemente nominato
per il tramite di un certo conte delta Germania delegato del serenissimo
imperatore del romano Venceslao, duca della detta città di Milano
e della sua diocesi, per sé e i suoi figli maschi da lui legittimamente
discendenti. E venne fatto signore generale di tutte le città,
castelli e cittadine di tutto il suo dominio i quali allora deteneva,
investendolo del detto ducato per un berretto rosso del massimo valore,
presenti a queste cose, il signor arcivescovo di Milano e i vescovi
di Pavia, Piacenza, Vicenza, Brescia, Verona, Reggio, Parma, Cremona,
Bobbio, Lodi e Novara. E presenti anche i signori marchesi del Monferrato
e suo fratello signore Guglielmo, i due figli del signore di Padova
Francesco da Carrara, il conte di Champagne, gli ambasciatori di Ferrara,
Bologna, Lucca, Firenze, Siena, Pisa, Ravenna, di Venezia, di Genova,
Sicilia e molti cavalieri, dottori e nobili in tutta Italia, e altre
innumeri genti e soprattutto della città di Milano e delle altre
città della Lombardia. E lì anche furono fatte mirabili
cerimonie solenni con massima letizia. Giovanni de Mussi, Cronaca piacentina, RIS 16, c. 557. (C) Duca di Milano etc. Pavia
e conte di Virtù. Notifichiamo a voi che sostenuti dalla grazia
divina, con la volontà e il consenso del magnifico signore Gerardo
da Appiano, un tempo signore della città di Pisa, e di tutti
di detta città, abbiamo recentemente ottenuto il libero dominio
della suddetta città e del distretto e dei loro fortilizi e di
chiunque; perciò vogliamo, per onore di Dio dal quale viene ogni
bene, che in quella nostra città facciate che per tre giorni
di seguito si svolgano processioni solenni, non facendo, né permettendo
che nella predetta occasione siano fatti falò né altre
feste. Emesso a Pavia il giorno 21 di febbraio 1399. Osio, Documenti diplomatici tratti degli archivi milanesi, I, 229. (D) I Fiorentini, come intesono
l'esercito essere rotto e preso il capitano n'ebbono grande travaglio.
Ma quando sentirono oltre a questo Bologna ancora essere venuta nelle
mani de' nimici [1],
ebbono molto spavento, parendo loro a ogni ora de' nimici,essere presenti.
Perduto il capitano e le genti, erano gli animi pieni di disperazione:
e se i nimici avessero seguito la vittoria con prestezza, la città
correva pericolo irrimediabile: ma loro, o per negligenza o per discordia,
lasciarono inutilmente passare il tempo. […]
Essendo la città volta col pensiero a queste cose
[2],
sopravvenne la fama della morte del duca Gian Galeazzo. Questa novella
fu significata innanzi a ogni altro da Paolo Guinisi, signore di Lucca,
non la prima volta come cosa certa, ma di poi affermata come certa molto
secretamente. Il perché, di presente fu scritto agli ambasciatori
che erano a Vinegia, che né alla pace né alla lega consentissimo.
I Veneziani sentirono la morte del duca degli ambasciatori fiorentini,
che prima per altra via non ne avevano notizia. E già alcuni
segni si cominciarono a vedere [.]. Finalmente manifestata la verità,
s'intese il duca Giovan Galeazzo dopo l'avuta di Bologna essere malato,
e di poi morto di morbo a Marignano [3],
castello di Milanese. Queste cose da principio furono occulte: di poi
non si potendo più celebrare, si pubblicarono, e furono le esequie
sue fatte con grandissima pompa. E oltre all'altre cose s'intese ancora
questa, che il duca Giovan Galeazzo nella sua infermità aveva
sommamente desiderato la pace co'Fiorentini, e di qui era nota la mandata
de' suoi oratori a Vinegia, e la dimostrazione fatta d'appetire la pace:
perrocché e' considerava molto bene, che lasciava i figli piccoletti
nel mezzo di grandissimi pericoli, e studiava fare la pace prima che
passasse di questa vita: e questo pensiero gli sarebbe riuscito, se
fussi alquanto più sopravivuto. Della sua morte ne seguì
prestamente tanta mutazione di cose, che coloro i quali prima a fatica
avevano alcuna speranza di salute, grandemente cominciarono a sperare,
e coloro che stimavano aver vinto, penderono ogni speranza di poter
resistere [4]. Leonardo Bruni, Storie del popolo di Firenze, III , pp. 311-315. [1] Nel giugno 1402 le truppe fiorentine
erano state sconfitte presso Bologna e pochi giorni dopo la città
era passata a Giangaleazzo Visconti.
[2] Firenze aveva cercato di coinvolgere
Venezia e il pontefice Bonifacio IX in una lega contro il Visconti.
Ma Venezia era stata richiesta da Giangaleazzo di farsi mediatrice tra
le parti.
[3] Il 3 settembre 1402.
[4] Il testo è presentato nella
traduzione del 1473 di Donato Acciaioli.
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