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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XVI
Le Signorie cittadine e gli Stati territoriali

7. Firenze / 1: Il Primo Trecento
(A) Dino Compagni, Cronica III, 34.
(B) Giovanni Villani, Nuova Cronica, XIII, 3.
(C) Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, RIS 30/1, p. 295.

All'inizio del Trecento, Firenze restava governata da un'oligarchia mercantile che era riuscita a tenere ai margini del governo le forze magnatizie. E fin dai tempi della discesa imperiale di Enrico VII, queste forze, che a Firenze si muovevano nell'ambito dello schieramento guelfo in collegamento con gli Angioini, si erano trovate nella condizione di dover affrontare il nodo del rapporto con le città della Toscana schierate sul fronte avverso. È una situazione questa che bene emerge dalle rapide notazioni di Dino Compagni sulle condizioni politiche della Toscana alla vigilia dell'impresa di Enrico (A). L'ambizione di Firenze di ottenere un suo sbocco sul mare la spingeva in direzione della conquista di Pisa (che avverrà solo più tardi, nel 1406), mentre sul versante interno della regione il confronto era con Arezzo e Siena.
Furono proprio le difficoltà maturate nel quadro del conflitto con Pisa e Lucca dove, intorno a Uguccione della Faggiuola e poi a Castruccio Castracani, si era costituito un polo antagonista a Firenze in grado d'infliggere sconfitte come quelle di Altopascio o Montecatini, che resero necessario il ricorso alla concessione di poteri straordinari a personaggi come Carlo di Calabria (1326), figlio del re di Napoli Carlo d'Angiò, o Gualtieri di Brienne, duca d'Atene (B), chiamato nel 1342 anche nell'intenzione di arginare la pressione popolare. Cacciato poi Gualtieri anche con l'aiuto dei nobili, si instaurò ancora una volta, una Signoria fieramente avversa al ghibellinismo.
In una complessa situazione di forti difficoltà economiche e sociali – fallimento delle compagnie dei Bardi e dei Peruzzi, tumulto dei tintori nel 1345, carestia, effetti della peste del 1348, interdetto lanciato contro la città da Gregorio XI – Firenze dovette affrontare lo scontro con la Chiesa nella guerra degli Otto santi (1375-78). Una guerra che risultò particolarmente gravosa proprio sotto il profilo finanziario e in cui Firenze poté valersi del collegamento con le città sottomesse alla Chiesa e che approfittarono dell'occasione per ribellarsi (C).


(A) I Fiorentini, acciecati dal loro orgoglio, si misono contro allo Imperadore, non come savi guerrieri, ma come rigogliosi, avendo lega co'Bolognesi, Sanesi, Lucchesi, e Volterrani, e Pratesi, e Colligiani, e con l'altre castella di lor parte. I Pistolesi, poveri, lassi, e di guerra affannati e distrutti, non teneano del tutto con loro: non perché non fussono d'uno animo, ma perché vi metteano podestà con sì grandi salari, che non poteano sostenere alle paghe. Il perché non avrebbono potuto pagare la loro parte della taglia, però che pagavano, al maliscalco e a' suoi fiorini XLVII l'anno, e teneansi per loro, acciò che i Fiorentini non v'entrassono [1].
I Lucchesi sempre aveano ambasciadori in corte dello imperadore; e alcuna volta diceano d'ubbidirli, se concedesse loro lettere, che le terre tenieno dello imperio potessono tenere, e non vi rimettesse gli usciti. Lo imperadore niuno patto fe'con loro, né con altri; ma mandò messer Luigi di Savoia e altri ambasciadori in Toscana. I quali da' Lucchesi furono onoratamente ricevuti e presentati di zendadi e altro. I Pratesi li presentarono magnificamente, e tutte l'altre terre; scusandosi erano in lega co'Fiorentini.
Siena puttaneggiava: che in tutta questa guerra non tenne il passo a'nimici, né dalla volontà de'Fiorentini in tutto si partì [2]. I Bolognesi si tennono forte co' Fiorentini contra lo imperadore, perché temeano forte di lui: molto s'afforzarono, e steccarono la terra. Dissesi che contro a lui non aveano difesa alcuna, perché dalla chiesa avea il passo: ma perché li parve aspro cammino a entrare in Toscana, no'l fece.
Dissesi che i marchesi Malispini li voleano mettere per Lunigiana, e feciono acconciare le vie e allargare negli stretti passi: e se quindi fusse venuto, entrato sarebbe tra i falsi fedeli [3]; ma Iddio l'ammaestrò..

Dino Compagni, Cronica III, 34.

[1] Nel 1309 i pistoiesi avevano dato la signoria della città a Roberto re di Napoli per sedare le lotte intestine e per evitare l'intervento fiorentino.
[2] Non impedì il passaggio delle milizie imperiali ma rimase nella lega con Firenze.
[3] Cioè sleali.


(B) Per le sopradette giustizie fatte per lo duca [1] in persona e in avere di IIII popolani delle maggiori case di Firenze di popolo, Medici, Altoviti, Ricci e Oricellai, il duca fu molto temuto e ridottato da tutti i cittadini, e i grandi ne presono grande baldanza, e il popolo minuto grande allegrezza, perch'avea messo mano ne' reggenti, magnificando il duca, gridando quando cavalcava per la città: «Viva il signore!»; e quasi in ogni canto o palazzo di Firenze era dipinta l'arme sua per li cittadini, per avere sua benivolenza e chi per paura. E in questi tempi ispirò e si compié l'uficio di XX rettori stati in Firenze e guastatori della republica per le cagioni dette ne'loro processi adietro, e lasciando il comune in debito di più di CCCC di fiorini D'oro a'cittadini, sanza il debitore promesso a meser Mastino [2]. Per le quali cagioni il duca ne montò in grande pompa, e crebbegli la speranza del suo proponimento d'essere al tutto signore di Firenze col favore di grandi e del popolo minuto; e per consiglio di certi de'detti grandi ne richiese i priori ch'allora erano all'ufficio. I detti priori cogli altri ordini, dodici e' gonfalonieri, e gli altri consiglieri, in nulla guisa vollono asentire di sottomettere la libertà della republica di Firenze sotto giogo di signore a vita, il quale non mai fu aconsentito o soferto per li nostri padri antichi né a'mperadori, né a re Carlo [3], né suoi discendenti, e tanto fossero amici o confidenti in parte guelfa o ghibellina, né per isconfitte o male stato ch'avesse il nostro Comune. Il detto duca per sudducimento e conforto quasi di tutti grandi di Firenze, e spezialmente principali quelli delta possente casa de' Bardi, e Frescobaldi, Rossi, e Cavalcanti, Bondelmonti, e Cavicciuli, e Donati, e Gianfigliazzi, e Tornaquinci, per rompere gli ordini della giustizia ch'erano sopra i grandi, e così promise loro il duca; e di popolo: Pertizzi, Acciaiuoli, Baroncelli, Antellesi e loro seguaci, per cagione del male stato delle loro compagnie, perché il duca gli sostenea in istato, non lasciandoli rompere [4], né stringere a'loro creditori, e gli artefici minuti, a cui spiacea il reggimento stato de' XX e di popolari grassi: tutti gli profersono aiuto in arme.
Il duca, il qual era segace e nudrito in Grecia e in Puglia più che in Francia, veggendosi tanto favore, la vilia di nostra Donna di settembre [5] mandò un bando per la città di fare parlamento la mattina vegnente in sulla piazza di Santa Croce per bene del Comune. I priori e gli altri rettori sentendo la traccia [6] del duca e il suo male consiglio, e non sentendosi forti né proveduti, e temendo che faccendosi il detto parlamento non fosse discordia, e rumore, e commovizione di città sì andarono parte de' priori e di loro consiglio la sera a Santa Croce a trattare acordo col duca; e dopo molta tirata e dibattuta la querela, rimase molto di notte in questa concordia col duca, che'l Comune di Firenze gli darebbe la signoria della città e contado per uno anno, oltre al tempo che'lli l'avea, con quella giuridizione e patti e gaggi ch'ebbe meser Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto gli anni MCCCXXVI; e questo acordo si fermò per vallate carte per più notai dell'una parte e dell'altra, e per suo saramento che conserverebbe in sua libertà il popolo e ll'uficio di priori e gli ordini della giustizia, riducendosi [7] il detto ordinato parlamento in mattina in sulla piazza di priori per confermare i patti di su detti. La mattina di nostra donna, dì VIII di settembre, il duca fece armare sua gente intorno di CXX uomini a cavallo, ch'avea in Firenze de' suoi, e da CCC fanti a piè. Ma quasi tutti i grandi, salvo meser Giovanni della Tosa e'suoi consorti, furonvi co lui, ch'aveano cavalli, e i detti popolani suoi amici con armi coperte, e l'acompagnarono da Santa Croce alla piazza de' priori presso ad ora di terza. I priori e gli altri ordini scesono del palagio, e assetati a' ssedere col duca sulla ringhiera [8], e fatta la proposta per messer Francesco Rustichelli giudice allora priore e aringando sopra'cciò; ma com'era ordinato il tradimento, non fu lasciato più dire, ma a grido di popolo per certi scardassieri e popolazzo minuto, e masnadieri di certi grandi, dicendo: «Sia la signoria del duca a vita a vita, e viva il duca nostro signore». E preso per li grandi pesolone [9] per metterlo in sul palagio, e perché il palagio era serrato gridarono: «Alle scure!»; sicché convenne s'aprisse, e tra per forza e inganno il misono in sul palagio in signoria; e'priori furono messi di sotto nel palagio nella camera dell'arme vilmente. E fu per certi grandi istracciato il libro degli ordini e gonfalone della giustizia, e poste le bandiere del duca in sulla torre, sonando le campane a Dio laudiamo. E fece la mattina due cavalieri, messer Cerritieri de' Visidomini suo scudiere e famigliare, e Rinieri di Giotto da San Gimignano capitano stato di fanti di priori, il quale aconsentì al tradimento a dare e aprire il palagio, ch'agevole gli era a difendere, com'era tenuto e dovea fare per suo uficio; e assentì al detto tradimento messer Guglielmo d'Ascesi allora capitano del popolo, il quale rimase poi co'lui per suo bargello e carnefice, dilettandosi di fare crudeli giustizie d'uomini. Ma messer Meliaduso d'Ascoli allora podestà non volle consentire al tradimento del popolo di Firenze, anzi volle rinunziare l'uficio della podesteria; ben si disse per alcuno, tutto fece e frode e ipocrisia, però che poi pure rimase uficiale del duca. I grandi feciono gran testa d'armeggiare, e la sera grandi luminare e falò. Ivi a due dì apresso si fece il duca confermare signore a vita per li opportuni consigli [10], e mise i propri nel palagio fu de' figliuoli Petri dietro a San Piero Scheraggio con XX fanti solamente, ove n'avieno prima cento, levando loro ogni uficio e signoria; e levò l'arme a tutti i cittadini brivileggiati, o di che stato si fosse, e poi all'ottava di nostra Donna [11] fece il duca gran festa e solennità a Santa Croce per la sua signoria, e fece offerere più di CL prigioni; e'l nostro vescovo sermonando molto il lodò e magnificò al popolo. In questo modo e tradimento usurpò il duca d'Atene la libertà della nostra città, e anullò il popolo di Firenze ch'era durato intorno di L anni, in grande libertà, e stato, e signoria. E noti che questo leggerà come Iddio per le nostre peccata in poco di tempo diede e promise alla nostra città tanti fragelli, come fu diluvio, carestie, fame, e mortalità, e sconfitte, vergogne d'imprese, perdimenti di sustanza di moneta, e fallimenti di mercatanti, e danni di credenza, e ultimamente di libertà recati a tirannica signoria e servaggio. E però, per Dio, carissimi cittadini presenti e futuri, correggiamo i nostri difetti. Abbiamo tra noi amore e carità, acciò che piacciamo all'Altissimo, e non ci rechiamo a l'ultimo giudicio delta sua ira, come assai chiaro e aperto ci mostra per le sue visibili minacce: e questo basti a'buoni intenditori, tornando a nostra matera de'processi del duca; che poi apresso ch'ebbe la signoria di Firenze, a dì XXIIII di settembre la signoria d'Arezzo, e quella di Pistoia, ove avea già suoi vicari il duca per lo comune di Firenze, gli si dierono a vita, e poco apresso per simile modo gli si diede Colle di Valdelsa e San Gimignano e poi la città di Volterra, onde molto li crebbe lo stato e signoria, e ricolse a'ssè tutti i Franceschi e Borgognoni ch'erano al soldo in Italia, sicché tosto n'ebbe più di DCCC, sanza gl'Italiani; e molti suoi parenti e baroni vennero a'llui infino di Francia per la novella ita di là della sua signoria e groria. E quando ciò fu raportato al re Filippo di Francia suo sovrano, subitamente disse a'suoi baroni che gli erano dintorno in sua lingua: «Alberges est le pelegrin, mas il i a mavoes ostes» [12], il quale fu un proprio motto e di vera sentenzia e profezia, come poco tempo apresso gli avenne. Ancora non è da dimenticare di mettere in nota una brieve lettera d'amunizione di grande sentenzia, che'ssi trovò in uno suo forziere quando fu cacciato di Firenze, la quale gli avea mandata il re Ruberto come seppe ch'egli avea presa la signoria di Firenze sanza stia saputa o consiglio, la quale di latino facemmo recare in volgare per seguire il nostro stile, la quale dicea […].

Giovanni Villani, Nuova Cronica, XIII, 3.

[1] Gualtieri duca d'Atene.
[2] Mastino II Della Scala.
[3] [VUOTO - dimenticata nota].
[4] Fallire.
[5] Il 7 settembre (1342).
[6] Il piano.
[7] Radunandosi.
[8] Tribuna.
[9] Di peso.
[10] Le necessarie delibere.
[11] 0tto giorni dopo la festa dell'Annunciazione.
[12] «Il pellegrino è sistemato ma la sede è infida».


(C) Nell'anno del 1375 a dì 20 del mese di novembre gli Otto della balia [1], essendo stimolati da molti, e ancora da loro medesimi e d'intorno, da fare forma alla liberagione delle Terre, che si teneano per la Chiesa, si s'immaginarono che Bologna era quella Terra, ch'era di bisogno a trargli di mano, perocché molta quantità di danari ne traevano, e ancora molti sussidi, ed a freno teneano tutta Romagna. Diliberossi questo dì di mandare alcuno segretamente per alcuni amico del Comune e nimico di quelli Pastori. Infra gli altri che venneno segretamente furono quegli da Loiano e de'Bianchi, e compuosesi con loro la faccenda, e non venne però fatto. Ma poi con questi medesimi si fece la faccenda colla gente da piede e da cavallo, che vi si mandò in gran copia, e rubellossi, e tornò a libertà. E lo Comune di Firenze vi mandò gente assai e ambasciadori a riformare la città e dar loro gli ordini, e intrarono in lega. Quello dì che si rubellavano fu nell'anno 1375 a'di 20 marzo 1375.

Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, RIS 30/1, p. 295.

[1] Consiglio creato in occasione della guerra contro Pisa del 1363, i cui membri furono portati a dieci nel 1384.

 

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