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Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XVI
Le Signorie cittadine e gli Stati territoriali

9. Roma e i domini pontifici
(A) Giovanni Villani,Nuova Cronica, XI, 11.
(B) Anonimo Romano, Cronica, XVIII, pp. 104-106; XXVII,pp. 180, 193-198.
(C) Egidio Albornoz, Costituzioni, II, 1 e IV, 22 (1357).
(D) Stefano Infessura, Diario dei fatti romani, FSI, 5, pp. 22-24.
(E) Tommasini, Documenti relativi a Stefano Porcari, pp. 105-110.

Il trasferimento della sede ponticia ad Avignone rese evidente lo stato di avanzata disgregazione in cui versavano i territori formalmente sottomessi al dominio temporale dei papi. In particolare nella città di Roma, colpita anche dal venir meno dell'afflusso di pellegrini e dal rarefarsi del giro d'affari collegato alla presenza della curia, ebbero mano libera le grandi famiglie nobiliari, soprattutto quelle degli Orsini e dei Colonna. Per il resto, il dominio pontificio consisteva in un confuso sommarsi di autonomi comuni o di regimi signorili. Senza sostanziali esiti positivi fu il tentativo di porre rimedio a questo stato di frammentazione politica compiuto da Giovanni XXII, pur sempre molto attento alle vicende europee piuttosto che a quelle della penisola, che inviò in Italia, povero di sicuri punti d'appoggio e di forze militari, Bertrando del Poggetto (A). Questi non poté far altro che tentare di districarsi nel complesso gioco di scontri e alleanze tra le maggiori formazioni territoriali dell'Italia centro settentrionale, nel quadro della lotta con Ludovico il Bavaro e poi appoggiando l'azione di Giovanni di Boemia.
Nel 1343 a Roma si era costituito un governo di rappresentanti delle corporazioni che aveva scalzato il senato e inviato tra i suoi ambasciatori presso il pontefice ad Avignione Cola di Rienzo, un notaio di nobile estrazione, appassionato conoscitore della storia antica, la cui vicenda è distesamente narrata da una Cronaca in volgare di anonimo romano (B). Con l'appoggio del popolo, Cola riuscì per un momento, nel 1347, a sovrastare le forze nobiliari e si fece proclamare tribuno. Un'esperienza che ebbe un nuovo e definitivo epilogo nel 1353, un'esperienza destinata a fallire non solo a causa della morte di Cola, ma per l'assenza del sostegno di un ceto economicamente forte e in mancanza di un concreto programma politico che andasse oltre un'aspirazione moralizzatrice che domandava anche il ritorno a Roma del papato e sosteneva confusi progetti di restaurazione della grandezza di Roma. Fu il cardinale Egidio d'Abornoz, inviato nel 1353 da Innocenzo VI come legalo per l'Italia E vicario generale del patrimonio di San Pietro, che riuscì in pochi anni ad avviare il riordino dei domini pontifici imponendo alle singole realtà locali il riconoscimento dell'autorità pontificia, spesso, in cambio di una ben dosata autonomia. Principio che fu alla base anche della sua sistemazione normativa, le cosiddette Costituzioni egidiane (C). Nel 1377 la sede pontificia fu riportata a Roma da Gregorio XI, il protagonista dello scontro con Firenze nella guerra degli Otto santi. Alla conclusione della vicenda del «grande scisma» si colloca la figura di un pontefice come Martino V, capace di riaffermare sul piano temporale l'autorità pontificia in una situazione che pure risulta complessa, come si ricava ad esempio dai Diari di Stefano Infessura (D); e che tale doveva ancora restare a lungo, periodicamente travagliata da episodi come la congiura del 1453 di Stefano Porcari contro Niccolò V (E).


(A) Nel detto anno MCCCXXXVI, in calen di ottobre, il comune di Parma diede la signoria al legato del papa messer Ramando dal Poggetto cardinale, il qual era in Lombardia per la chiesa di Roma, e in Parma dimorò alquanto con sua corte, e avea a suo comandamento le masnade de' cavalieri della chiesa, ch'erano bene III cavalieri, la maggiore parte oltramontani, buona gente d'arme: ma poco donore o di stato feciono a santa chiesa o a sua parte in acquisto di terre, o danno, di nimici ribelli della chiesa; e di ciò tutta la colpa. si dava al detto legato, che il papa vi mandava moneta infinita, e male erano pagate le masnade, e nullo bene poteano fare. Poi per iscandalo che' Bolognesi aveano tra'lloro, per simile modo diedono la signoria e la Chiesa e al detto legato, il quale venne in Bologna a dì […]

Giovanni Villani, Nuova Cronica, XI, 11.


(B) Cola de Rienzi fu de vasso lenaio [1]. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della_Regola. Sio avitazio [2] fu canto fiume, tra li mulinari, nella strada che vao alla Regola, dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio delli Iudei. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenza, buono grammatico, megliore retorico, autopista [3] buono. Deh, como e quanto era veloce leitore! Molto usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenze de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo [4], li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapesse leiere antiche pataffii [5]. Tutte scritture antiche volgarizzava. Queste figure de marmo giustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: «Dove sono questi buoni Romani? Dove ène loro summa giustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!» Era bello omo e in soa vocca sempre riso appariva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accade che un sio frate fu occiso e non fu fatta vendetta de sia morte. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vendicare lo sangue de sio frate. Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. Per sio procaccio gìo in Avignone per ambasciatore a papa Cimento de parte delli tredici Buoni Uomini de Roma [6]. La soa diceria fu sì avanzarana [7] e bella che subito abbe 'namorato papa Cimento [8]. Moito mira papa Cimento lo bello stile della lengua de Cola. Ciasche dìe vedere lo vole. Allora se detenne Cola e dice ca li baroni de Roma so'derobatori de strade: essi consento li omicidii, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata. Moito concipéo lo papa contro li potienti. […] fu fatto notaro della Cammora de Roma [9], abbe grazia e beneficia assai. A Roma tornao moito alegro; fra li dienti menacciava. Puoi che fu tornato de corte, comenzao a usare sio offizio cortesemente; e bene vedeva e conosceva le robbarie delli cani de Campituoglio, la crudelitate e la iniustizia delli potienti. Vedeva particolare tanto Communo e non se trovava uno buono citatino che lo volessi aiutare. Imperciò se levao in pede una fiata nello assettamento [10] de Roma, dove stalevano tutti li consiglieri, e disse: «Non site buoni citatini voi, li quali ve rodete lo sangue della povera iente e non la volete aiutare». Puoi ammonìo li officiali e li rettori che devessino provedere allo buono stato della loro romana citate.
Puoi che Cola de Rienzi sentìo demorare in Peroscia missore Arimbaldo de Narba [11], omo iovine, perzona letterata, abiaose allo sio ostieri [12] e voize con esso pranzare. Sumpto cibo, mette mano Cola de Rienzi a favellare della potenzia dei Romani. Mistica soie storie de Tlito Livio. Dice soie cose de Bibia. Opera la fonte de sio sapere. Deh, como bene parlava! Tutto soa virtute opere in lo rascionare. E si che pronto dice, che onne omo abafa [13] soa bella diceria, leva de piedi onne omo. Teo la mano alla gota e ascoita con silenzio Missore Arimbaldo. Maravigliaose dello bello parlare. Ammira la magnitudine delli virtuosi Romani. Incalescente vino, monta lo animo in aitezze. Lo fantastico piace allo fantastico. Missore Arimbaldo senza Cola de Rienzi non sao demorare: con esso stao, con esso vao. Uno civo prienno, in uno lieto posano. Penzano de fare cose magne, derizzare Roma e farlatornare in pristino sio.
Era dello messe de settiembro, a dìi otto [14]. Staieva Cola de Rienzi la dimane in sio lietto. Avease lavata la faccia de grieco. Subitamente veo voce gridanno: «Viva lo puopolo, viva lo popolo».
A questa voce la iente traie per le strade de là e de cà. La voce ingrossava, la iente cresceva. Nelle caprocroce de mercato accapitao iente armata che veniva da Santo Agnilo e da Ripa e iente veniva da Colonna e da Treio. Como se ionzero insiemmori, così mutata voce dissero: «Mora lo traditore Cola de Rienzi, mora!» Ora se fionga [15] la ioventute senza nascione, quelli proprio che scritti aveva in sio sussidio. Non fuoro tutti li rioni, salvo quelli li quali ditti soco. Curzero allo palazzo de
Campituoglio. Allora se aionze lo moito puopolo, uomini e femine e zitielli. Iettavano prete; faco strepito e romore, intorniano lo palazzo da onne lato, dereto e denanti, dicenno: «Mora lo traditore che hao fatta la gabella, mora!» [16] Terribile ène loro furore. A queste cose lo tribuno reparo non fece. Non sonao la campana, non se guarnio de iente. Anco da prima diceva: «Essi dico: “Viva lo puopolo”, e anco noi lo dicemo. Noi per aizare lo puopolo qui simo. Miei scritti sollati so'.
La lettera dello papa della mea confirmazione venuta ène [17]. Non resta se non piubicarla in Consiglio». Quanno a l'uitimo vidde che'lla voce terminava a male, dubitao forte; specialmente che èsso fu abannonato da onne perzona vivente che in Campituoglio staieva. Iudici, notari, fanti e onne perzona aveva procacciato de campare la pelle. Solo esso con tre perzone remase, fra li quali fu Locciolo Pellicciario, sio parente. Quanno vidde lo tribuno puro lo tumulto dello puopolo crescere, viddese abannonato e non proveduto, forte se dubitava.
Demannava alli tre que era da fare. Volenno remediare, fecesse voglia e disse: «Non irao così, per la fede mea». Allora se armao guarnitamente de tutte arme e muodo de cavalieri, la varvuta in testa, corazza e falle e gammiere. Prese lo confallone dello puopolo e solo se affece alli balconi della sala de sopra maiure. Destenneva la mano, faceva semmiamente che tacessimo, ca voleva favellare. Sine dubio che se lo avessino scoitato li àbbera rotti e mutati de opinione, l'opera era svaragliata. Ma i Romani non volevano odire. Facevano como li puorci. Iettavano prete, valestravano. Curro con fuoco per ardere la porta. Tante fuoro le valestrate e'lli verruti, che alli balconi non potéo durare. Uno verruto li coize la mano. Allora prese questo confallone e stennva lo sannato [18] da ambedoi le mano. Mostrava le lettere dello auro, l'arme delli citatini de Roma, quasi venissi a dicere: «Parlare non me lassate. Ecco che io so' citatino e popularo como voi. Amo voi, e se occidete me, occidete voi che romani site». Non vaize questi muodi tenere. Peio fao la iente senza intellietto. «Mora lo traditore!» chiama. Non potenno più sostenere, penzao per aitra via campare.
[.] Là li Romani avevano iettato fuoco nella prima porta, lena, uoglio e pece. La porta ardeva. Lo solaro della loia fiariava [19]. La secunna porta ardeva e cadeva lo solaro e llo lename a piezzo a piezzo. Orribile era lo strillare. Penzao lo tribuno devisato passare per quello fuoco, misticarese colli aitri e campare. Questa fu l'ultima soa opinione. Aitra via non trovava. Dunque se spogliao le insegne della baronia, l'arme puse io' in tutto. Dolore ène de recordare. Fortificaose la varva e tenzese la faccia de tanta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile tabarro vestìo. Puoi se mise in capo una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso. Passa la porta la quale fiariava, passa la scala e lo terrore dello solaro che cascava, passa l'ultima porta liberamente. Fuoco non lo toccao. Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: «Suso, suso a gliu tradetore!» Se le uitime scale passava era campato. La iente aveva l'animo suso, allo palazzo. Passa la ultima porta uno se'lli affece denanti e sì'llo reaffigurao, deoli de mano e disse: «Non ire. Dove vai tu?» Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se pareva allo splennore che daieva li vraccialetti che teneva. Erano'naorati [20]: non pareva opera de riballo. Allorra, como fu scopierto, parzese lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più la voita. Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi'allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita [21], lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de là e de cà. Allora Cecco dello Veicchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre. Questo fu lo primo. Immediate può esso secunnao lo ventre […] de Treio notaro e deoli la spada in capo. Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette.Nullo motto faceva. Alla prima morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo.
Così lo passavano como fussi criviello. Onneuno ne se iocava. Alla perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi'a Santo Marcello [22]. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello [23]. Capo non aveva. Erano remasse le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le rnazza de fora grasse. Grasso era orribilmente bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo ovvero vacca a maciello. Là pennèo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de cmmannamento de Augurata e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell'Austa. Là se adunarono tutti Iudici in granne moltitudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moitia grassezza da è ardeva volentieri. Staievano là li Iudei firte affaccendati, afforosi, affocati. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello corpo fu arzo e fu redatto in polve: e non ne remase cica. Questa fine ebbe Cola di Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani.

Anonimo Romano, Cronica, XVIII, pp. 104-106; XXVII,pp. 180, 193-198.

[1] Bassa estrazione.
[2] Abitazione.
[3] Conoscitore degli autori classici.
[4] Rilievi figurativi.
[5] Iscrizioni.
[6] Cola fu inviato ad Avignone come emissario del governo popolare costituito dai tredici buoni uomini.
[7] Eminente.
[8] Papa Clemente VI (1342-1352).
[9] Il titolo di notaio della Camera capitolina gli fu conferito il 13 aprile 1344.
[10] Corte di giustizia.
[11] Narbona.
[12] Si recò al suo alloggio.
[13] Lascia a bocca aperta.
[14] Il giorno della rivolta era l'8 di ottobre.
[15] Si avventa.
[16] La nuova gabella sul trasporto del vino.
[17] La conferma da parte di papa Innocenzo VI della nomina di Cola a senatore era giunta il 7 settembre.
[18] Il drappo.
[19] Il solaio della loggia bruciava.
[20] Dorati.
[21] Tagliata.
[22] Di fronte alle dimore dei Colonna, principali nemici di Cola.
[23] Balconcino.


(C) La proveçuda [1] auctorità de lege, seguendo i sacri canoni, pensando l'utilitade e la oportunità de le provincie e di provinciali, salutelriemente [2] ordenò che a ciaschuna provincia fosse un preside per lo quale la dicta utilità se governasse e per lo quale s'explicasse li desiderij di provinciali, concedendo a loro chi regeno le provincie mero e mixto imperio e podestà de gladio e cognitione de qualunque questione e non senca cagione dotò li Rectori de le provincie d'apostolica podestate, l'officio de li quali è preclara dignità, la dispositione de la ragione e la voluntà e la tollerancia delli Romani Pontifici per molte manere ha adornadi d'onori e de possanca. Le quali tutte cose rernanendo ferme, se non in quanto in alcuni casi fosse el contrario specialmente ordenado o per lo tempo da qui innanci avenisse che s'ordenasse, e salve leconstitutione inserte in lo presente volume, a le quali per li Rectori d'alcuna provincia et a la sua podestà no volemo in alcuna cosa che sia derogado, certe cose, le quali giaseno [3] a l'officio de ciaschuno Rectore, a ciò che per taciturnità no parano essere neglecte, specialmente designemo: perchel se convene al bono e grave preside e Rectore cum solicitudine e continui studij dare opera cum effecto de tenere pacifica e quieta la provincia che dello [4] rege, e la dicta provincia e le terre e li luoghi de quelle governi e mantegna in vera fedeltà et obedientia de Sancta Madre Ghiesia e del Papa de Roma a cui la segnoria le dicte provincie pertenone in spirtuale e temporale, cum piena ragione, e diligentemente pensare et occurrere cum remedij oportuni che le tyranie no abiano possa e chel no se leve alcuna sintilla o scandalo de rebellione, et a sua possa, a bona fè, exterminare de ciaschun luoghi e jurisdictione li heretici da la Chiesia denotati, le ragione e li benni della Romana Ghiesia deffendere e li occupati recrovare [5] a sua possa, le ghiesie, le vidue, gli pupilli e gli poveri e le miserabile persone relevare dalle oppressione e le loro ragione observare cum breve expeditione de piategiare favorevolmente, purgare li mali homini de le provincie e gli luoghi della sua jurisdictione, fare justicia e far fare a ciascuno senca acceptione de persone, vetare le exactione illicite e contestare a quelle, removere scandali e discordie e seminare concordia in li homini de la sua jurisdiclone […].
Imperciò chelle conventicule, confederatione e lighe chi enno facte per lo tempo passato senca licentia della Sedia Apostolica e del Recthore della provincia per la Ghiesia ànno dato e producte tante de grandi errori e forono semenamento de guerre e posseno essere verisimilmente per lo tempo chi dè venire, per questa provida constitucione cassemmo e irritemo e dissolvemmo e casse et irrite e dissolute nunciemmo ogni compagnia, liga, fraternità, confederatione, capitanaria, rectoria, giuramento, promissione, obligacione e cautela o de qualunque altro nome o colore da qui indietro facte o chi se fesseno de qui innanzi o incontrasse chi fesse prestata tra città, communancie o tra communancie e communancie o de terra a terra o da persona a persone o tra alcune città e terre, communancie e persone insieme, decernendo che da qui innanci nessuna città, communancia o terra o singulare persona ardisca o presumischa o attempti de gitirare o de contrahere o de tractare, dictare, consentire compagnia, liga, obligacione, confederatione e fraternitate o catuela […]. E chi faranno contra o faranno fare in le predicte cose o in alcuna de le predicte, sella è comunancia in X mila fiorini d'oro sia punita, e sello è conte, baron o cavalieri in CCC fiorini e sella è altra singulare persona in CC fiorini. E li loro bene volemmio che fiano confiscati alla camera della Romana Ghiesia ipso facto. E non per quello meno le singulare persone chi contrafesseno in alcuna delle predicte cose, e'l capitaneo chi attemptasse el dicto officio doperare, ipso facto incorrano in la sentencia de la excomunicatione, le città, le comunancie, le castelle e le terre o università chi comettesseno contra le predicte cose sottoponemmo allo ecclesiastico interdicto. E cusì fiano intesi d'essere quelli chi contrafesseno contra le predicte cose o alcuna de quelle privati d'ogni privilegij, indulgentie, jurisdicione, libertate, officij, immunità, le quale avesseno obtenute o obtegnano dalla Romana Ghiesia o d'altrove. E le supradicte pene in tutto e per tutto abiano luogo contra quelli li quali alle predicte cose o ad alcuna de quelle da fare o da fir fare deseno o prestasseno adiuctorio, consiglio o favore [6].

Egidio Albornoz, Costituzioni, II, 1 e IV, 22 (1357).

[1] Provvida.
[2] Vantaggiosamente.
[3] Sono di pertinenza.
[4] Egli.
[5] Recuperare.
[6] Il testo delle Costituzioni è proposto secondo una traduzione trecentesca in lingua volgare.


(D) Et come piacque alla Maiestà divina che tutte queste guerre et tribulationi havessero fine, provvide alla città de Roma, et volse che queste cose mancassino; li cardinali et moltissimi signori che erano nello concilio [1] provvidero, et fecero papa missore Oddo Colonna [2], lo quale fu dopo chiamato Martino quinto, lo quale quanno fu fatto tutto lo monno se ne allegrò, massime la città de Roma, et fecerone granne festa, et missore Iordano fratello di papa Martino subito hebbe lo Stato di Roma pacifico, et fu fatto nell'anno Domini 1417 a dì XI de novembre lo die de santo Martino, et pot si partì da Constantia, et vennesse in Fiorenza, et lì stette anni doi et mesi.
Anno Domini 1420 dello mese di settembre a dì 28 de stabato venne papa Martino in Roma et entrò per porta dello Popolo et stette tutta notte in Santa Maria dello Puopolo, et la domenica a demane se ne gio a palazzo di Santo Pietro, et gio per Colonna per fino a Santo Marco, et poi gio per via dello Papa coperto collo palio, et per ogni rione si fecero otto giocatori gentilhomini, et folli fatto grannissimo honore: et li conservatori et li caporioni con molti cittadini di Roma parecchie sere si givano colle torcie in mano accese, la sera sempre dicendo: “viva papa Martino, viva papa Martino”.
Et gionto che fu papa Martino, volle administrare giustizia, perchè Roma stava molto scorretta, et era piena di ladri, et subito provide a tutte le cose, massime a quelli che rubavano fuor di Roma, et tutti quelli che rubbavano li poveri romieri [3], che venivano alla perdonanza di Roma; et hebbe notitia come Monte della Guardia, et Montelupo, et alcuna altra terra rubbava: per questo la Sua Santità subito provvedde. Dell'anno Domini 1422 die 30 novembre, in festo sancti Andreae, si fu una piena d'acqua si grande a Roma, che allagò la maggior parte di Roma, et fece grandissimo danno, et tanto che non se poteria contare, et di questo ne fu cascione Braccio da Montone [4], perchè partendosi molto scorrucciato di Roma quando perdé lo Stato di Roma, ruppe le marmora dello laco di Pedeluco, et questo lo fece per dispetto delli Romani; et di questa pur ne resta la memoria in una preta [5] nella faccia della ecclesia della Minerva.
Dell'anno 1423 dello mese di malo l'hoste [6] de Roma per commannamento de papa Martino gio allo conte Bertuollo, cioè a Fiano, Leprignano, a Montelopo et a Monte della Guardia, et stetteci lo campo a Montelopo de molti dì, et poi l'habbe lo papa con tutte l'altre terre, e poi che l'habbe, fece spianare Montelupo nel detto anno, perché rubbava e questo fece papa Martino per dare essemplo a tutte l'altre terre.
Et fece mozzare lo capo a Tartaglia dello Avello, capo di squadra, perché derobava quando lo besilame et quando le persone; et ancora fece morire tutti quelli latri che rubavano da Monterotonno a Campagnano, lo signor Ulisse de Magnano et lo signore di Montelopo, et quanti ne furo grandi rubatori de strada, sì che in tempo suo si poteva andare con l'oro in mano da ogni parte.

Stefano Infessura, Diario dei fatti romani, FSI, 5, pp. 22-24.

[1] Concilio di Costanza (1414-1418), indetto per comporre lo scisma che divideva la chiesa.
[2] Oddone Colonna (1368-1431), che prese il nome di Martino V.
[3] Pellegrini.
[4] Il riferimento è al condottiere Andrea Fortebracci (1368-1424).
[5] Iscrizione.
[6] L'esercito.


(E) Qui apiè legerete cosa meravigliosa e istupenda duno certo trattato ordinato per messere Stefano Porchari Romano confinato a Bologna [1] in questo modo cioè : detto messere Stefano venne qui addì 2 di questo nascosamente con uno suo ragazzo vestito come uno viandante, et ismontò in casa d'uno suo cognato il quale si chiamava messer Agniolo di Macco che s'intendeva col detto messere Stefano, et simile uno suo figlitiolo il quale si chiamava Chimenti et con lui era Batista Iscarra [2] che dette le Stinche, che é nipote di messer Stefano et quatro altri ciptadini Romani, fra quali era il canonicho di San Pietro [3]. Et sendo in questa casa di messere Agnolo, huomo richissirno et con grande famiglia et di buono parentado, ordinato molte ragioni et partigiane et balestre, lance, iscopietti in grande quantita, s'ingegnavano di rugunare gente in questo modo, che Batista Scarra et altri giovani di qui dicevono ali campagni et ali amici loro: venite con essonoi che vogliano fare una certa dimostrazione di vendetta particulare; et loro andavono quivi, cioé in delta casa di messere Agniolo, et non usciva veruno,et quivi dormivano et mangiavono con grande magnificentia et larghe spese: Batista Scarra sottombra di fare fanti ordinava brigate forestiere in altro luogo, et in capo di tre sere che furono stati in detta casa, essendo a cenavi una grande brighata, et bene et suntuosamente aparecchiate le tavole in una magnificha sala, messere Stefano uscì d'una camera cor uno broccato doro indosso che pareva uno Imperadore.

[La presenza a Roma di Stefano Porcari e la congiura tramata vengono scoperti. Alcuni partecipanti vengono impiccati, altri sfuggono. Stefano Porcari, catturato, viene rinchiuso in Castel SantAngelo.]

Ora venendo ala esamina di Messere Stefano, confessò lui volere uscire la note a cavallo vestito di drappo doro, et la mattina di Befana col cavallo, covertato di drappo che tutto haveva, con una bandiera nuova del Populo Romano quale aveva fatta fare, et portalla in Campidoglio, et quello pigliare; dipoi andarsene per Roma gridando: viva il populo et libertà, et non dubitava punto che, se usciva fuora, ogni cosa li veniva fatto. Dal altro canto in casa quel colonaco era ordinato Batista Scarra sopradetto con molti altri, et dovevono uscire fuora quando il Papa andava a dire la messa et nanzi entrasi in chiesa pigliarlo et legallo con una catena haveva dorata, et ancora legargli le mani con uno certo ordigno doro et pigliare quattro o cinque cardinali, et il resto amazare, et pigliare Messere Piero da Noceto [4], e questo pigliare faceva per havere il Castello, et hauto il Castello voleva, detto, Batista amazare il Papa e quelli cardinali li fussi piaciuto et mettere assacco, tutti i corligiani et al filo delle spade, per questo credendo, se nayessi a spegnere il seme. Et volevono, detto Messere Stefano fare grande, quanto più potevono: et per questo fare, tanto havessimo vinto, averebono fatto comportare ogni grande male che così diceva volersi fare a vincere: el simile confesorono quelli altri principali, ché certamente li veniva fatto. Ogni cosa era bene ordinata, nè a nesuno pareva mancassi l'animo, secondo che Messer Stefano confessò ogni cosa con grande animo insino ala morte: et quanto fu inpiccato volle salire ale forche inanzi al boia, et l'ultime parole che disse furuno queste: O populo, oggi muore il liberatore della tua patria. Fu impiccato a una torre di Castello Santo Agnolo addì 9 di questo a ore 12: Messere Agnolo e figliuolo furono inpichati a ore 16, dipoi a ore 10 ne fu inpiccati tre altri. Batista Scarra, quel calonaco si sono fugiti, et chi piglia Batista vivo ha ducati mille, et chi lo da morto cinquecento: et il simile li altri dua [5].

Tommasini, Documenti relativi a Stefano Porcari, pp. 105-110.

[1] Stefano Porcari era stato esiliato a Bologna per aver partecipato ad alcuni torbidi scoppiati a Roma, in Piazza Navona, nel 1451.
[2] Battista Sciarra, nipote di Stefano Porcari.
[3] Niccolò Gallo.
[4] Pietro da Noceto, segretario di Nicolò V e fratello di Giacomo da Noceto nelle cui mani era la custodia di Castel Sant'Angelo. I rivoltosi avevano previsto di far pressioni su Giacomo, forti di aver preso prigioniero, il fratello.
[5] Il testo è copia di una lettera inviata da Roma il 16 gennaio 1452.

 

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