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Didattica

Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XVII
Gli uomini, la terra e il denaro

1. Agricoltura
(A) Anonimo, Cronaca Senese, RIS 15/6, pp. 114-115.
(B) Giovanni Villani, Nuova Cronica, XII, 1.
(C) Pier De'Crescenzi, Trattato di agricoltura, II, 13, IV, 2.
(D) Conti, La formazione della struttura agraria moderna, 1, pp. 342-343 (1418).
(E) Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, III, pp. 181-182.
(F) Pier De'Crescenzi, Trattato di Agricoltura, IX, 68.
(G) Statuto di Bovegno, 283-291 (1341).

Con la fine del Duecento, fu sempre più difficile compensare con la messa a coltura di nuove terre le scarse rese agricole connesse all'arretratezza delle tecniche lavorative e allo sfruttamento dei suoli, destinati prevalentemente alla monocoltura cerealicola e condotti secondo le tradizionali forme di avvicendamento.
I dissodamenti si rivolgevano ormai a terre sempre più marginali, comportando spesso disboscamenti che, complice l'intensificarsi nei primi anni del Trecento della piovosità media, contribuirono al processo di erosione e dilavamento dei suoli collinari e alle alluvioni (A, B).
Lo spopolamento delle campagne che seguì l'epidemia del 1347-50 [cfr.paragrafo seguente] determinò, oltre a una generale contrazione dei coltivi, un certo miglioramento delle condizioni dei lavoratori, forti della scarsità di mano d'opera. Tuttavia, dopo l'impennata dei prezzi agricoli della metà del secolo, già con gli anni Sessanta cominciò una lunga caduta del mercato del grano. Alla crisi delta rendita fondiaria si tentò di ovviare con una riorganizzazione delle colture, introducendone di specialistiche e più redditizie, attraverso alcune migliorie tecniche, con più adeguate dotazioni di bestiame e con una maggiore attenzione alla ricostituzione dei suoli attraverso il concime animale (C). Ciò avvenne specialmente per il tramite di forme contrattuali di affitto a termine come la mezzadria, che ormai, dalla metà del Duecento, era andata sempre più diffondendosi specialmente in alcune aree dell'Italia centrale [cfr. cap. 9, 2 (D, E)] e ad opera e per impulso di molti nuovi proprietari di terre di estrazione cittadina (D). Per essi la proprietà di terre rappresentava un investimento produttivo, o aveva almeno un valore di bene-rifugio in un periodo di stagnazione (E). E di questa nuova attenzione dei ceti borghesi è prova anche Ia diffusione di trattati di agronomia pur pervasi da un'impostazione letteraria e compilativa come ad esempio quello del giudice bolognese Pier De' Crescenzi.
Con lo spopolamento e l'arretramento delle colture riaffermò l'allevamento, talvolta come scelta economica che mirava al mercato, più spesso nelle forme del pascolo brado, rafforzando quel processo verso l'individualismo agrario che vedeva incrinare i diritti d'uso comune, recintava le terre e appariva manifesto proprio nell'insediamento di tipo poderale, caratteristico della mezzadria (F, G).


(A) E nel anno detto vi fu la magior piova che fusse giamai dal diluvio in fuore, sichondo si trova scritto, e fu in gienerale per tutto el mondo: e ingrossò si forte l'Onbrone e poi e'gli altri fiumi che ruinò molte chase e molti tereni e alzò l'acqua si forte nel piano di Chanpagnatico che più di venti braccia s'alzò per tutto, e menonne el tetto del mulino di Chanpagnatico, che era nel più basso del piano, el quale si misurò, che trenta braccia era alto. E in molti luoghi per la necessità del chaminare afoghoro per lo detto diluvio; e in queste parti molte gienti afoghoro: ed era tanto oribile chosa a pensare quando si vedeva cho' l'ochio la grande ruina, chaveva fatta l'acqua per tutto, chè dove aveva trovato el tereno debole, ogni chosa ne menò. E per questo non si debba meravigliare che molti luoghi alti, cioè in montagnie, dove era petroso tutto el tereno ne fu menato e molte ne rimasero schuperte di tereno, che non si vedevano se non sassi. E per questo molti luoghi, e' quai si lavoravano mancharo e disabitorsi per non potere lavorargli per amore de'sasi e'quai remasero schuperti. E ancho per lo detto diluvio, chome fu ristato nella nostra Marema, si trovò molti serpenti afoghati per lo detto diluvio, ed erano molto grossi; e ogni uomo dubitava, veduto chontinuare fa piova sì forte che 'l mondo non si dovesse un'altra volta disfare in acqua. E fue la detta aqua a dì 26 di settembre MCCXVII.

Anonimo, Cronaca Senese, RIS 15/6, pp. 114-115.


(B) Nelli anni di Cristo MCCCXXXIII, il dì di calen di novembre, essendo la città di Firenze in grande potenzia, e in felice e buono stato, più che fosse stata dalli anni MCCC in qua, piacque a Dio, come disse per la bocca di Cristo nel suo Evangelio: «Viliate, che non sapete il d'e né l'ora del sudicio Dio [1]», il quale volle mandare sopra la nostra città; onde quello dì de la Tusanti [2] cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e ne l'alpi e montagne, e così si seguì al continuo IIII dì e III notti, crescendo là , che pareano aperte le cataratte dal cielo, e con la detta pioggia continuando grandi espessi e spaventevoli tuoni e baleni, e caggendo folgori assai; onde tutta gente vivea in grande paura, sonando al continuo per la città tutte le campane delle chiese, infino che non alzò e l'acqua; e in ciascuna casa bacini o paiuoli [3], con grandi strida gridandosi a Dio: «Misericordia, misericordia!» per le genti ch'erano in pericolo, fuggendo le genti di casa in casa e di tetto in tetto, faccendo ponti da casa a casa, ond'era sì grande il romore e 'l tumulto, ch'apena si potea udire il suono del tuono. Per la detta pioggia il fiume dArno crebbe, in tanta abondanza d'acqua, che prima onde si muove scendendo de l'alpi con grande rovina ed empito, sì che sommerse molto del piano di Casentino, e poi tutto il piano d'Arezzo, del Valdarno di sopra, per modo che tutto il coperse e scorse d'acqua, e cosumò e ogni sementa fatta, abbattendo e divellendo li alberi, e mettendosi inanzi e menandone ogni molino e gualchiere [4] ch'erano in Arno e ogni edificio e casa presso a l'Arno che fosse non forte, onde periro molte genti. E poi scendendo nel nostro piano presso a Firenze, acozzandosi il flume della Sieve con l'Arno, fa qual era per simile modo isformata e grandissima, e avea allagato tutto il piano di Mugello, non pertanto che ogni fossato che mettea in Arno parea un flume, per la quale cosa giuovedì a nona a dì IIII di novembre l'Arno giunse si grosso a la città di Firenze, ch'elli coperse tutto il piano di San Salvi e di Bisarno fuori di suo corso, in altezza in più parti sopra i campi ove braccia VI e dove VIII e dove più di X braccia; e fu sì grande l'empito de l'acqua, non potendola lo spazio ove corre l'Arno per la città ricevere, e per cagione e difetto di molte pescaie [5] fatte infra la città per le molina, onde l'Arno per le dette pescaie era alzato oltre l'antico letto di più di braccia VII; e però salì l'altezza de l'acqua alla porta de la Croce a Gorgo e a quella del Renaio per altezza di braccia VI e più; e ruppe e mise in terra l'antiporto de la detta porta, e ciascuna delle dette porte per forza ruppe e mise in terra. E nel primo sonno di quella notte ruppe il muro del Comune di sopra al Corso de' Tintori incontro a la fronte del dormentorio de' frati minori per ispazio di braccia CXXX; per la quale rottura venne l'Arno più a pieno ne la città, e addusse tanta abondanza d'acqua, che prima ruppe e guastò il luogo de' frati minori, e poi tutta la città di qua da l'Arno; generalmente le rughe coperse molto, e allagò ove più e ove meno […].
E seguendo il detto diluvio appresso la città verso ponente, tutto il piano di Legnaia, e d'Ertignano, e di Settimo, d'Ormannoro, Campi, Brozzi, Sammoro, Peretola, e Micciole infino a Signa, e del contado di Prato, coperse l'Arno diversamente in grande altezza, guastando i campi, vigne, menandone masserizie, e le case e molina e molte genti e quasi tutte le bestie; e poi passato Montelupo e Capraia, e per la giunta [6] di più fiumi che di sotto a Firenze mettono in Arno, i quali ciascuno venne rabbiosamente rovinando tutti i loro ponti. Per simile modo e maggiormente coperse l'Arno e guastò il Valdarno di sotto, e Pontormo e Empoli e Santa Croce e Castelfranco, e gran parte de le mura di quelle terre rovinaro, e tutto il piano di San Miniato e di Fucecchio e Montelopoli e di Marti al Ponte ad Era. E giugnendo a Pisa sarebbe tutta sommersa, se non che l'Arno sboccò dal fosso Arnonico e dal borgo a le Capanne nello stagno; il quale stagno poi fece un grande e profondo canale infino in mare, che prima non v'era; e da l'altro lato di Pisa isgorgò ne li Osori e mise nel fiume del Serchio., ma con tutto ciò molto allagò di Pisa, e fecevi gran danno, e guastò tutto il piano di Valdiserchio e intorno a Pisa, ma poi vi lasciò tanto terreno, che alzò in più parti due braccia con grande utile del paese. Questo diluvio fece alla città e contado di Firenze infinito danno di persone intorno di IIIc tra maschi e femine, piccioli e grandi, ch'al principio si credea di più di IIIm, e di bestiame grande quantità di rovina de'ponti e di case e molina e gualchiere in grande numero, che nel contado non rimase ponte sopra nullo fiume e fossato che non rovinasse; di perdita di mercatantie, panni lani di lanaiuoli per lo contado, e d'arnesi, e di masserizie, e del vino, che'nne menòe le botti piene, assai ne guastò; e simile di grano e biade ch'erano per le case sanza la perdita di quello ch'era seminato, e il guastamento e rovina delle terre e de' campi; … l'acqua coperse e guastò, i monti e piaggie ruppe e dilaniò, e menò via tutta la buona terra. Si che a stimare a valuta di moneta il danno de'Fiorentini, io che vidi queste cose per tutto numero le potrei né saprei adequare, né porrevi somma di stima; ma solo il comune di Firenze si peggiorò di rovina di ponti e mura di comune e vie, che più di CL di fiorini d'oro costaro a rifare.
E questo pericolo [7] non fu solamente in Firenze e nel distretto, con tutto che l'Arno per la sua disordinata abondanza d'acqua in quella peggio facesse, ma dovunque hae fiumi e fossati in Toscana e in Romagna, crebbero per modo che tutti i loro ponti ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume del Tevero, e copersono le loro pianure d'intorno con grandissimo danneggio del contado del Borgo a Sansipolcro, e di Castello, di Perugia, di Todi, d'Orbivieto, e di Roma; e il contado di Siena e d'Arezzo e la Maremma gravò molto. E nota che'nne' dì che fue il detto diluvio e più dì appresso in Firenze ebbe grande difetto di farina e di pane per lo guasto della molina e de'forni.

Giovanni Villani, Nuova Cronica, XII, 1.

[1] Matteo, 25, 13.
[2] Ognissanti. 1 novembre.
[3] Sottinteso. Furono preparati per accogliere l'acqua.
[4] Mulini per la follatura dei tessuti o per la concia delle pelli.
[5] Chiuse.
[6] Confluenza.
[7] Danno.


(C) Da quanto si è detto risulta dunque che il letame é una di quelle cose che concorrono in particolar modo a mutare la pianta di selvatica in domestica. In effetti la selvatichezza di una pianta non consiste in altro se non nella carenza di coltura e nella difformità del sapore dei suoi frutti rispetto alle esigenze umane, mentre una pianta si dice domestica quando, grazie alla coltivazione, il sapore diviene adeguato al gusto e all'utile degli uomini. Che questo risultato si ottenga con il letame, è provato da ciò che vediamo accadere negli animali; difatti tutti gli animali domestici hanno più carne degli altri, per l'abbondanza dell'alimentazione, e a seconda delle diversità di alimentazione assumono molte diverse qualità e colori diversi, e il sapore delle loro carni é differente da quello delle carni degli animali selvatici: quindi la stessa cosa si deve verificare per le piante, in modo proporzionale, in seguito alla somministrazione del nutrimento, come dice frate Alberto [1].
Palladio [2] dice che il concime dev'essere ammassato in un luogo a ciò destinato, che sia ricco di umore e che sia collocato nella parte posteriore della corte e rivolto verso l'esterno, per evitare il puzzo. L'abbondanza di umore comporterà questo vantaggio, che andranno in putrefazione i semi di piante spinose eventualmente presenti nello sterco.
Il migliore sterco, specialmente per gli orti, è quello degli asini, poi viene quello delle pecore, delle capre, del giumenti. Pessimo quello del maiali, ottime le ceneri. Lo sterco del colombi è quello che ha più calore, e in genere quello degli uccelli è abbastanza utile, tranne che quello degli uccelli di palude. Cassio scrive invece, a quanto riferisce Varrone [3], che lo sterco migliore è quello dei colombi, che dopo viene quello dell'uomo e in terzo luogo quello delle capre, delle pecore e degli asini. Quello del cavalli non va bene se non per i prati.
Lo sterco che sia stato in riposo per un anno è assai proficuo e non produce erbe: se è invecchiato più a lungo dà minor giovamento. Per i prati è adatto il concime fresco, se si vuole abbondanza di erbe. Un sostituto dello sterco può essere rappresentato dai detriti del mare, sciacquati in acque dolci e mescolati con altri rifiuti.
Varrone scrive che presso la fattoria ci devono essere due letamai, oppure uno diviso in due parti: nel corso dell'annata deve essere deposto in uno il concime fresco, perché si maturi, mentre dall'altro si preleverà il concime per darlo ai campi. Inoltre il letamaio é migliore se le pareti e le sommità sono protette dal sole con rami e con fronde: non bisogna infatti che quel succo, che é richiesto dalla terra, stia a contatto col sole; perciò gli esperti fanno in modo che al letamaio affluisca l'acqua, per virtù della quale viene trattenuto il succo.
I campi devono essere concimati con più frequenza in collina, più di rado in pianura; e devono essere concimati quando la luna è calante: in questo modo verranno danneggiate le erbacce, come scrive Palladio.
Columella [4] afferma che per uno iugero bastano ventiquattro carri di sterco, diciotto se in pianura. Ma da noi i contadini ce ne mettono il doppio e anche più (i Toscani non tanto). Il numero dei monticelli di concime, che devono essere disfatti e sparsi, dovrà poi essere corrispondente alla superficie che si può arare nella giornata, per evitare che il letame si secchi e divenga inutilizzabile. Il letame viene dato ai campi in ogni stagione che precede l'estate. Se non lo si sarà potuto dare nel periodo opportuno, allora, prima della semina, si spargeranno nei campi le ceneri dello sterco, come fossero sementi, oppure si getterà con la mano lo sterco delle capre e poi lo si mescolerà alla terra col sarchiello. È bene non concimare troppo tutto in una volta, bensì spesso e poco per volta.
Un campo che sia ricco d'acqua ha bisogno di più sterco, un campo secco di meno. Se poi non si dispone di abbondante letame, il procedimento seguente può fare ottimamente le funzioni dello sterco: nelle terre sabbiose e secche si spargano creta e argilla, nelle terre cretose e troppo dense la sabbia. Tale pratica é adatta alle messi e rende le vigne bellissime; difatti la concimazione delle vigne col letame suole viziare il sapore del vino. Nei campi a coltura e nelle vigne si possono ancora seminare i lupini, nei mesi di agosto e di aprile o di maggio, e quando hanno quasi completato la loro crescita rovesciarli sottoterra, perché così ingrassano vigne e terre come il letame: ma tale ingrassamento dura al massimo due anni [.]
Il letame va dato ai campi, alle vigne, agli orti e agli alberi soprattutto a partire dalle Calende di settembre, per tutti i mesi che seguono fino a maggio. E quando viene il gran gelo lo si può opportunamente spargere sopra le messi che siano già spuntate. Può essere sparso sul terreno anche nei mesi successivi al maggio, al tempo della grande calura, purché lo si ricopra con la terra per evitare che venga disseccato dai venti o dal sole; e lo si può dare anche alle vigne e agli alberi, purché sia stato ben maturato.
È da sapersi che con un carro di paglia si fanno cinque o sei carri di letame e che una concimazione con lo sterco degli animali rende la terra feconda per non meno di sei anni. Va notato ancora che si può formare letame anche senza animali, in questo modo: si gettano d'inverno la paglia o altri strami nelle vie fangose, nelle corti, nei fossati e nelle fosse d'ogni tipo, vi si lasciano per quindici giorni o giù di lì perché siano pestati e infradiciati a lungo dalle piogge, si ammassano dopo qualche giorno in un grande monte di letame, dalla sommità larga in modo da poter ritenere l'acqua piovana, e dopo averli lasciati cosi per tutta l'estate si spargono nei campi.
Delle vignie sono diverse generazioni secondo diverse e varie consuetudini di regione; inperoché alcune cose sono con consiglio [5] di pali e di pertice con ordine si fanno, e queste in duo modi: l'uno si é che a ciaschuno palo sia una vite, e così si fanno nelle più delle parti di Lombardia o di Romagnia, et in questo modo nella soctil terra tre piedi distanti l'una dall'altra si piantono per ciaschuno verso, e nella grassa quattro, et nella mezana tre piedi e mezo; in altro modo che una vite sopra molti pali e pertiche si stenda, et così sono nelle più parti della Marca d'Ancona: et queste in questo modo si piantono secondo la considerata grassezza overo soctilità delle terre, in tal modo che tutto lo spatio si possa convenevolmente coprire, e queste con marroni bene le cultivano s'elle non siano alte molto e spartite.
Alcune altre si fanno come arbucegli al modo principale, le quali senza consiglio di pali permanere possono. Et queste in verità o si fanno per certi tagli tanto intra loro rimosse che arare si possono e diversi semi seminare, o vero da ogni parte sì strecte che arare non si possono; et in questo modo siano distanti di tre piedi, e meno o più secondo che sia il suolo, overo lecto soctile o grasso in che si piantono. Et alcune fanno i lor tagli con pali e pertiche o vero in forma di pergolecti piccoli che dalla parte dello stipite son basse e dalla opposita sono elevate, et quest'è 'l modo di Modona et di molti altri luoghi, et maximamente in spatii d'orti s'observano. Alcune vignie si fanno con arbucegli a questo formati per gli campi, più o vero meno rimosse secondo che maggiormente o meno del vino o vero del panico il padre della famiglia desidera. Ma un mezolano modo di distantia di sedici o vero venti piedi si prende, et questo modo maximamente appresso Melano e in quelle parti s'observa. Et alcune si piantono nelle ripe de' fossati quando si fanno, o per campi appresso di grandi arbori, acciocché quegli che sono ne'campi o nelle ripe si cuoprino e fructifichino. Et in questi modi in molte parti d'Italia s'observano. Et ancora alle sopradecte vignie che in ordine si ponghono pali e pertiche.
Ad alcune altre pali o fraschoni solamente in luogho di pali o sermenti in quattro parti o vero in due solamente per lungo sicome pertiche insieme tra loro si stendono e legano. Et questo modo appresso Chremona e Pistoia spetialmente s'observa. Et alcune sanza aiuto giacere si lasciano, che per solo bisognio e necessità della provincia é da fare, et questo ne' monti molto asciutti dove l'uve non si corrompono giacendo in terra ma da molto fervore di sole si conservano.

Pier De'Crescenzi, Trattato di agricoltura, II, 13, IV, 2.

[1] Alberto Magno, teologo domenicano del XIII secolo.
[2] Scrittore latino di IV secolo, autore di un trattato di agricoltura.
[3] M. Terenzio Marrone (116-27), autore di un celebre trattato di agricoltura.
[4] Autore di un trattato di agricoltura (I secolo d.c.).
[5] Sostegno.


(D) Sia manifesto a qualunque persona leggerà o udirà leggere la presente scrita, come oggi questo dì primo marzo anno 1417 [1] io Piero di Giovanni fattore della Badia di Pasifnano, con volontà di messer l'abate e di Giovanni Gianfigliazzi, alluogho a Bartolo di Miglorato et a Giovanni et Betto suo' figliouoli un podere posto nel popolo di [SantAndrea a] Poggialvento, luogho detto Campo a Sole, co'suoi veri e usati confini per tempo e termine d'anni cinque. E essi debbono incominciare a lavorare il detto podere o tornarvi su ora al presente, e finisce come seguita. E promettono il detto podere bene et diligentemente e a uso di buoni lavoratori. Et noi gli doviamo dare ogn'anno, per seme sul detto podere, di grano staia otto et fave staia quattro. Et essi debbono dare a mezzo quello e quanto vi si ricoglerà su. Et debbono dare ogn'anno de'detti cinque anni i vantaggi soscritti.
In prima:
Per la testa di san Giovanni Ghualberti paia due di chapponi. Nella detta testa serque sei d'uova.
Dare ogn'anno chasci marzolini coppie sette.
Dare ogn'anno, a volontà del fattore, opere tre.
Ogn'anno, del mese d'agosto, due some di pagla.
Tenere i porci a mezzo e paghare la metà de' temporili.
Andare a macinare al mulino della Badia quanto esso lo grano e la famiglia sua.
Fare l'ulive al fattoio della Badia e lasciare l'usata mulenda.
Venire alli traini quando fosse richiesto.
Ancora ànno tolto il poderuzzo al Pozzo a Sole colli sopradetti patti, come lavorava Martino di Zanobi.
Fatta la detta alloghagione in presenza di don Michele da Poggialvento e di frate Jachopo converso della Badia.
Ricondussero Berto e Giovanni figluoli del sopridetto Bartolo da messer l'abate, oggi questo di 15 di novembre anno 1421, il sopradetto podere con quelli medesimi patti e chondizioni l'avevano im prima, per tempo e termine d'anni cinque, chominciando addì primo d'agosto prossimo passato e finendo chome seguita. Sì veramente che messer l'abate debba acrescere loro lavorìo, per modo essi si possino conducere. E per chiarezza di ciò io dom Pace chamarlingho di Passignano ò fatto questa memoria di mia propia mano, in presenza di Stefano di Donato detto Fagiano e di Fruosino di Checcho da Pasignano.

Conti, La formazione della struttura agraria moderna, 1, pp. 342-343 (1418).

[1] In realtà il 1418, dal momento che la data è computata secondo lo stile fiorentino che faceva iniziare l'anno al 25 di marzo.


(E) Co' tuoi lavoratori istà avvisato: va ispesso alla villa, procura [1] il podere a campo a campo insieme col lavoratore, riprendilo de' cattivi lavori, istima la ricolta del grano, quella del vino e dell'olio e biada e frutte e tutte altre cose; paragona cogli anni passati alla ricolta dell'ano, come hanno trasandato gli altri tuoi poderi quelli del vicino [2]. E simile, domanda della fama e condizione di costui: guarda se troppo favella, se dice assai bugie, se si loda l'essere leale: non ti fidare di questi, istà loro cogli occhi addosso. Poni ispesso mente in casa sua e 'n ogni luogo, vogli vedere la ricolta nel campo, nell'aia e alla misura; e sopra tutto possiedi [3] ispesso la possessioni se vuoi ti risponda bene, e fa d'avere la parte tua insino delle lappole [4]. Non compiacere mai di nulla al villano, ché subito il riputa per dovere; e non ti farebbe di meglio [5] un festuco se gli dessi la metà di ciò che tu hai. Non ne volere mai vedere uno se non t'è di nicistà, non gli richiedere mal di niuno servigio se non con pagallo [6], se non vuoi ti costi l'opera tre cotanti. Non fare mai loro un buono viso, istà poco loro a parole, ricidile loro subito [7], non fare loro male se già non ne fanno a te. Se niuno villano ti fa meno che 'l dovere, gastigalo colla ragione e non gliene perdonare mai niuna. Non andare caendo [8] loro presenti e non gli volere; e se pure te ne danno, non ne fare loro di meglio nulla. Servigli della ragione [9] e aiutagli e consigliagli quando fusse loro fatto torto o villania, e di questo non essere lento né grave; va presto e fa loro questi servigi, d'altro mai non di travagliare. E sopra tutto non credere loro mal nulla se non quello che tu vedi e non ti fidare mai di niuno a niuno giuoco . E facendo questo dovrai essere poco da loro ingannato e sarai amato più che gli altri e sarannoti riverenti, secondo loro, e arai quello bene di loro ch'è possibile avere.

Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, III, pp. 181-182.

[1] Controlla.
[2] Vedi come i poderi del tuo vicino siano ora migliori dei tuoi.
[3] Controlla da vicino.
[4] Frutti della lappa, qui da intendersi: cose di nessun valore.
[5] Non ti avvantaggerebbe.
[6] Dietro pagamento.
[7] Troncale subito.
[8] Cercando.
[9] Sii giusto verso di loro.


(F) Principalmente si dee provedere della lor [delle pecore] pastura, cioè che per tutto l'anno siano ben pasciute dentro e di fuori, appresso che siano in agiata stalla e non ventosa, la quale 'habbia il suo riguardo innanzi all'oriente che a' meriggi. Conviene che 'l terreno dove sia staranno sia coperto di vermene [1] o di paglia o d'altro strame e che sia chinato acciò che si possa dall'umidità della orina agevolmente guardare e purgare, imperoché non solamente quella humidità le loro lane corrompe, ma etiamdio corrompe et intignosisce le loro unghie. Onde dopo alchuni giorni si chonviene che si gicti sotto esse trite vermene o paglia, acioché più mondificamente si riposino et sieno più nette peroché in questo modo paschono più volentieri. Anchora si dee fare chiusura per la quale si dividano le 'nferme dalle sane e ancho quelle che hanno i piccioli agnelli. Ma queste chose si deono observare ne' luoghi villatici delle ville, impercioché quelle che pascono nelle selve overo campagne portano i pastori con seco e'graticci overo le reti e tutte le altre masseritie, con le quali i pecugli [2] delle pecore, le quali variatamente sogliono pasturare i diversi luoghi l'uno dall'altro lontano. Le pasture utili delle pecore sono quelle che nascono ne' campi novelli o ne'secchi e asciutti prati, ma le pasture de' paduli sono nocive e le pasture de' salvatichi luoghi sono dannose alle pecore che hanno la lana, perché la pela. Ancora spargere spesse volte del sale ne' luoghi delle pasture o mischiarlo con quello che pascono o ne' loro abeveratoi e levare loro il fastidio cioé l'abbominazione, e nel tempo dello verno, se mancamento sarà di fieno o di paglia, si dia oro la veccia [3] o il più tenero dell'olmo o del frassino, cioa chotale tenerume di vette secche serbate e riposte. E nel tempo della state si deono dal cominciamento mectere alla pastura quando si comincia a fare dì, allora che il cominciamento della rugiada fa laudabile per sua soavità la teneretta gramigna overo herba, e nell'ora quarta, allora che 'l sole comincia a scaldare l'aere, si dia loro a bere acqua di fiume chiarissimo o di pozo overo di fontana, e nel mezo del giorno, allora che il sole è chaldissimo, si deono mectere o richorre in valle o socto arbore che faccia ombra. Poi che il sole comincia bassare e allentare il caldo e la terra da prima comincia à divenire humida per l'ombra della rugiada dal vespo rivochererno alle pasture la greggia. Et si dee provedere che si sazino per abondanza di pastura e che paschino di lungi da' pruni, i quali scemano la loro lana e taglia loro il corpo. Ma nel tempo della state e de' dì della canicula si deono le pecore in tal modo pasturare che i chapi delle greggie sieno sempre volti a contrario del sole, ma nel verno o nella primavera non deono uscire alla pastura se non quando sarà risoluto il gelicidio, imperoché l'herba ove sarà la brina overo la pruina genera loro infermitade; tuttavolta basterà menare all'acqua una fiata per dì. Quando son segate le biade si tengano nelle seccie, la qualcosa è utile per due cagioni, imperoché si satiano delle spige cadute e perché le terre l'anno seguente fanno miglior blade calpestando lo strame e letaminando il luogo. Anco per tutta la state prestamente si mungono nella aurora del dì, acciò che l'usata pastura non perdano, e quando il sole sarà riscaldato si rimenino, accioché il caldo del sole o il vento non possa loro nuocere. Ma nel vespro stiano tanto fuori che ci choverino il pasto che haranno perduto il giorno e quando saranno tornate si ghuardi che non siano chalde nell'hora che nella stalla si mettano. Ma se sarà istemperato caldo si vorranno menare in proximane pasture, acciocché possino richoverare a l'ombra e i pastori non le lascino importunatamente raghunare e stringere nel tempo del chaldo, ma sempre le sparpaglino temperatamente e dividano, e quando si rimenano non si mungano calde. Quando sarà l'aurora apparita, inchontanente si menino alle madri gli agnelli, ove tanto lunghamente dimorino che per sé medesimi si menino alla pastura, e allora si menino nel più scosto luogho e che habbino ombra ove che sollecitamente sieno custoditi. Et quando i pastori vedranno la mattina le tele de' ragnateli cariche d'acque non lascino giacere, ma si menino ai più alti luoghi ove siano dal vento percosse e sempre si movino. Anco si deono guardare dall'herbe sopra le quali viene l'arena. E disse ancora uno experto pastore che del mese d'aprile, di magio, di giugno e di luglio non si deono lasciare molto pascere acciò che non diventino troppo grasse. Ma nel mese di septembre, d'octobre e di novembre dopo la meza terza si deono lasciare tutto il giorno nelle pasture accioché ingrassino quanto possano, accioché meglio possino uscire dalla state. Nello autumno si vogliono vendere le deboli accioché il verno non vengan meno.

Pier De'Crescenzi, Trattato di Agricoltura, IX, 68.

[1] Giovani ramoscelli.
[2] Le greggi.
[3] Specie di leguminose erbacea.


(G) 283. Stabiliamo e ordiniamo che nelle soccide di bestiame si osservino le modalità seguenti. Anzitutto la persona che cede il bestiame in soccida e quella che lo riceve devono, in via preliminare, fare una stima delle vacche e fissare il loro prezzo. Il soccidario terrà le vacche per cinque anni, a meno che le parti non concordino altrimenti, e dovrà allevare tutti i vitelli e le vitelle che nasceranno in questo periodo […]. Al termine dei cinque anni si procederà a una divisione in due parti del bestiame, spartendo a metà anche i guadagni e le perdite, in tale maniera: il soccidario distribuirà i capi di bestiame in due gruppi e il padrone sceglierà per sé uno dei due. In aggiunta, il padrone potrà farsi dare dal soccidario cinque soldi di planeti [1] per ogni lira di planeti [2] del prezzo di stima delle vacche, fissato al momento della concessione.
284. Stabiliamo e ordiniamo che ove le bestie date in sòccida vengano uccise da lupi, orsi od altre bestie, il soccidario sia tenuto al risarcimento.
285. Stabiliamo e ordiniamo che ove le bestie muoiano per accidenti straordinari le perdite debbano essere ripartite a metà; e il soccidario sia tenuto a dare al padrone, entro otto giorni dalla morte delle bestie, le pelli e metà delle carni.
286. Stabiliamo e ordiniamo che ove le bestie date in sòccida muoiano di malattia o di veleno o di stizza le perdite debbano essere ripartite a metà; ma al padrone spetteranno tutte le pelli.
287. Colui che tiene in sòccida bestie o vacche è responsabile nei con fronti del padrone secondo quanto sì è detto sopra e in tutti i casi di dolo, di colpa lata [3] e di cattiva amministrazione, e in nessun altro caso.
288. Stabiliamo e ordiniamo che del manzi concessi e ricevuti in sòccida si debba fare stima e fissare il prezzo: al termine della sòccida il padrone dovrà riavere tutto il valore stimato, mentre gli eventuali guadagni saranno divisi a metà tra padrone e soccidario. Ove i manzi muoiano per difetto di custodia da parte del soccidario, come nel caso che vengano uccisi da lupi, orsi od altre bestie, egli sarà tenuto al risarcimento. Ove muoiano per accidenti straordinari, le perdite saranno ripartite a metà e il soccidario dovrà consegnare al padrone le pelli e metà delle carni. Ove muoiano per malattia, veleno o stizza, ei perdite saranno divise in parti uguali. Si potrà procedere alla vendita o alla ripartizione dei capi di bestiame in qualunque momento, su richiesta di una delle due parti.
289. Chi tiene pecore in sòccida deve dare al padrone metà della lana e metà degli agnelli maschi e allevare tutte le femmine nate dalle pecore, a meno che le parti non abbiano convenuto tra loro di procedere a una ripartizione prima della scadenza della sòccida. Alla scadenza, il soccidario distribuirà le pecore e i loro nati in due gruppi e il padrone ne sceglierà uno per sé; le eventuali perdite saranno divise a metà.
290. Stabiliamo e ordiniamo che l'unità di soccida delle capre sia costituita di quattro femmine e un maschio. Chi tiene capre in sòccida deve dare ogni anno al padrone un buon capretto e un peso [4] di buon formaggio, deve tenere le capre per cinque anni e allevare annualmente due capri. Alla scadenza si procederà alla divisione come sopra: il sòccidario distribuirà tutti i capi, aumentati o diminuiti che siano, in due gruppi e il padrone ne sceglierà uno per sé. Ove le capre muoiano senza colpa del sòccidario, il danno sarà ripartito a metà e il soccidario dovrà dare al padrone le pelli e metà delle carni.
291. Chi tiene bestie in sòccida è responsabile per il dolo, la colpa lata e la cattiva amministrazione, e deve sempre agire in buona fede.

Statuto di Bovegno, 283-291 (1341).

[1] Tipo di moneta locale.
[2] Una percentuale del venticinque per cento (il rapporto valido era 1 lira = 20 soldi)
[3] Dolo è il proposito deliberato di arrecare danno; colpa lata è una forma estrema di negligenza.
[4] Unità di misura locale.

 

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