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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XVII
Gli uomini, la terra e il denaro

2. Peste e spopolamento
(A) Agnolo di Tura, Cronaca Senese, RIS 15/6, p. 555.
(B) Michele Da Piazza, Storia sicula, 1, 27.
(C) Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, III, pp. 209-214.
(D) Antonio Godi, Cronaca, RIS 8/2 p. 4.

Si è già accennato al generale peggioramento del clima che colpì l'Europa tra XIV e XV secolo. Temperature più fredde furono alla base della sparizione di alcune colture nelle zone più settentrionali, mentre l'aumento della piovosità, talvolta combinata con periodi di siccità, causò una serie di raccolti disastrosi specialmente nel 1315-17 poi ancora nei primi anni Venti del secolo e nel 1373-74. Oltre a innescare nell'immediato profondi conflitti sociali e a determinare l'aumento del tasso di moralità, le frequenti carestie contribuirono a logorare in organismi sottoalimentati le capacità di resistenza alle malattie, facilitandone anzi la diffusione quando si trattava di forme epidemiche.
La grande peste del 1348, proveniente dall'Asia, si diffuse rapidamente in tutta Europa, colpendo specialmente nelle città dov'era amplificata dalla densità abitativa e dalle pessime condizioni igieniche, nonché accelerando il suo percorso al seguito degli eserciti. Per circa un secolo la malattia tornò a più riprese a colpire (A, B). Si è calcolato che attorno alla metà del Quattrocento, quando la popolazione cominciò di nuovo a crescere, fosse di un terzo inferiore a quella del 1340. Oltre alle conseguenze dirette sull'economia la peste ebbe una forte incidenza sulla vita sociale, innescando i comportamenti penitenziali di coloro che ne riconducevano le cause ad una punizione divina, mentre al tempo stesso si era condizionati verso comportamenti di esclusione e salvaguardia che miravano ad evitare il contagio (C). La morte o la fuga dai luoghi dove infieriva il contagio portarono in molti casi all'abbandono di interi villaggi o alla contrazione dello spazio urbano abitato (D). In alcune regioni d'Italia, come nella campagna romana, in Puglia e Calabria, nelle isole si arrivò a toccare punte di abbandono dei villaggi nell'ordine del 50%. A testimoniare della gravità del fenomeno è il suo carattere spesso irreversibile, anche là dove l'abbandono era legato a cause contingenti – come le distruzioni determinate da una guerra –, che in condizioni di solidità del popolamento avrebbero permesso un successivo ritorno alla normalità.


(A) La mortalità cominciò in Siena di magio, la quale fu oribile e crudel cosa, e non so da qual lato cominciare la crudeltà che era e modi dispiatati che quasi a ognuno pareva che di dolore a vedere si diventavano stupefatti; e non è possibile a lingua umana a contare la orribile cosa, che ben si può dire beato a chi tanta oribilità non vidde. E morivano quasi di subito, e infiavano [1] di sotto il ditello [2] e l'anguinaia [3] e favellando cadevano morti. El padre abandonava el figliuolo, la moglie el marito, e l'un fratello l'altro: e ognuno fugiva e abandonava l'uno, inperoché questo morbo s'attachava coll'alito e co'la vista pareva, e così morivano, e non si trovava chi seppellisse né per denaro né per amicitia, e quelli de la casa propria li portava meglio che potea a la fossa senza prete, né uffitio alcuno, né si suonava campana; e in molti luoghi in Siena si fe'grandi fosse e cupe per la moltitudine de' morti, e morivano a centinaia il dì e la notte, e ognuno gittava in quele fosse e cuprivano a suolo a suolo [4], e così tanto che s'enpivano le dette fosse, e poi facevano più fosse.
E io Agnolo di Tura, detto il Grasso, sotterrai 5 miei figliuoli co'le mie mani; e anco furo di quelli che forono sì malcoperti di terra, che li cani ne trainavano e mangiavano di molti corpi, per la città; e non c'era alcuno che piangesse alcuno morto, inperoché ognuno aspettava la morte; e morivane tanti, che ognuno credea che fusse finemondo, e non valea né medicina né altro riparo; e quanti ripari si facea parea che più presto morissero. E' signori elessero tre cittadini ed ebero dal comune di Siena M fiorini doro, che li dovessero spendere ne li povari infermi e fare sotterare e'poveri morti; ed era tanta la oribilità, che io scrittore vengo a pensare; e perciò non conterò [5] più. E così durò fino a settembre e sarebbe troppo longo lo scrivare [il cronista dà una serie di indicazioni non chiare sulle cifre dei morti] e quelli che rimasero erano come disperati e quasi fuore di sentimento, e abandonarsi molte muraglie e altre cose, e tutte le cave dell'ariento [6] e oro e rame, che erano in quel di Siena, s'abandonarono come si vede, inperoché nel contado morì molta più gente, che molte tere e ville s'abandonaro che non vi rimase persona. Non scrivo la crudeltà che era nel contado, che i lupi e le fiere selvatiche si mangiavano i corpi mal sotterati, e altre crudeltà che sarebbe troppo dolore a chi le legiesse. La città di Siena pareva quasi disabitata, che non si trovava quasi persona per la città.

Agnolo di Tura, Cronaca Senese, RIS 15/6, p. 555.

[1] Si gonfiavano.
[2] Sotto le ascelle.
[3] Inguine.
[4] A strati successivi.
[5] Racconterò.
[6] Argento.


(B) Mentre i Siciliani potevano beneficiare di una tale pace in maniera straordinaria, e in tranquilla pace lodare Dio di un dono tanto immenso, che fino ad allora gli antichi re di Sicilia solo in minima parte avevano potuto ottenere, si diffuse per tutta l'isola di Sicilia una peste mortale, nella particolare sottoscritta circostanza. Successe dunque che nel mese di ottobre nell'anno dell'incarnazione del Signore 1347, verso l'inizio del mese di ottobre, la prima indizione, dodici galee genovesi fuggendo l'ira divina che il nostro Signore aveva gettato sopra di loro per le loro iniquità, giunsero nel porto della città di Messina portando con sé annidato nelle ossa un tale morbo, che se qualcuno avesse parlato con qualcuno di loro sarebbe stato colto dalla malattia mortale, e nessuno avrebbe potuto evitare una morte immediata. In verità, i sintomi della morte dei Genovesi e dei Messinesi che li avevano frequentati erano questi. Che a causa dell'infezione dell'alito tra coloro che parlavano tra sé mischiati, l'uno infettava l'altro a tal punto che questi appariva interamente percorso dal dolore e in ogni modo scosso, e da questo tremore del dolore e dall'infestazione dell'alito derivava, sul femore o sul braccio, una pustola che aveva forma di lenticchia: la quale a tal punto infettava e penetrava il corpo che violentemente spulavano sangue: e dopo aver sputato incessantemente per tre giorni, e senza nessuna possibile cura, morivano; e non soltanto motiva chiunque conversasse con loro, ma perfino chiunque comprasse, toccasse o avvicinasse qualsiasi cosa che fosse stata loro. Invero i Messinesi rendendosi conto che questa improvvisa mortalità si era abbattuta su di loro con l'arrivo delle galee dei Genovesi li espulsero dal porto e dalla città predetta più velocemente che poterono. Ma la detta malattia persistette nella predetta città e da essa derivò una immensa mortalità. E ognuno odiava l'altro a tal punto che se il figlio fosse stato colpito dal predetto morbo, suo padre avrebbe rifiutato del tutto di restargli vicino; e se invece gli si fosse avvicinato sarebbe stato contagiato dalla predetta malattia, tanto che in nessun modo avrebbe potuto scampare alla morte e dopo tre giorni avrebbe esalato il suo spirito. E di quelli della casa non moriva soltanto lui, ma tutti i familiari che vivevano in quella stessa casa, i cuccioli e gli animali che stavano nella detta casa avrebbero seguito nella morte il capofamiglia. E la mortalità nel frattempo, colpì a tal punto i Messinesi che molti chiedevano ai sacerdoti di confessar loro i peccati e di fare testamento, e i sacerdoti, giudici e notai rifiutavano di entrare nelle loro case; e se qualcuno di loro entrava per redigere il testamento nelle case di quelli, e per fare cose del genere, nessuno poteva evitare una morte rapida. In verità, i frati dell'ordine dei minori e dei predicatori e degli altri ordini che volevano entrare nelle case dei predetti malati e confessarli dei loro peccati e dar loro penitenza secondo il volere … della divina giustizia erano colpiti dalla morte distruttrice al punto che solo alcuni di loro a mala pena sopravvissero nelle loro celle. Che dire ancora? I cadaveri erano abbandonati nelle loro case e nessun prete, figlio o padre e consanguineo, osava entrarvi ma pagavano una non piccola somma ai becchini perché dessero sepoltura ai predetti cadaveri. Le case del defunti rimanevano aperte e accessibili con tutti i gioielli, denari e tesori; in modo che se qualcuno avesse voluto entrare nessuno gli avrebbe impedito l'accesso. Infatti la pestilenza era esplosa in modo così improvviso che, in un primo momento gli addetti [alla sorveglianza] non erano sufficienti, poi non cerano proprio. E per ciò consci ormai di questo stato di cose terribile e straordinario, i Messinesi decisero di lasciare la città piuttosto che morire; e non soltanto era vietato a ciascuno entrare in città ma anche avvicinarsi. Fissarono le abitazioni con le loro famiglie all'aperto e nelle vigne fuori dalla città. Alcuni invero raggiunsero la città di Catania, confidando che la beata Agata, vergine di Catania, li liberasse da un tale flagello. L'illustre regina Elisabetta, regina di Sicilia, che era nella città di Catania, ordinò a suo figlio don Federico, che era allora nella città di Messina, di raggiungerla in fretta; e questi con le galee del Veneziani rapidamente approdò a Catania.

Michele Da Piazza, Storia sicula, 1, 27.


(C) Ora, come voi avete in parte veduto e potuto comprendere, la moria fu inestimabile, e dicesi, e così fu di certo, che nella nostra città morirono i due terzi delle persone; ché era istimato che in Firenze avesse in quel tempo 120 mila anime, che ne morirono, cioè de'corpi, ottantamila. Pensate se fu fracasso! Non è da prenderne gran maraviglia perché questo fusse, che molte cagioni ci furono da incendere il malore.. e fu maggiore maraviglia, chi considerasse bene ogni cosa, di que' che camparono che di que' che morirono. E le cagioni furono in parte queste, cioè: in Firenze non si conosceva, diciamo pella comunità, questo male, perché a gran tempo non era apparito, era Firenze molto ripiena di gente e di più quantità che ella fusse mai, l'anno dinanzi era suto in Firenze gran fame, e credo non era nel centinaio venti che avessono pane o biada alcuna, e quelli cotanti n'avevono poco: vivettesi d'erbe e di barbe d'erbe e di cattive (non le conosceresti oggi), e beevano acqua, e tutto il contado era pieno di persone che andavano pascendo l'erbe come le bestie. Considera come i loro corpi erano disposti! Appresso, com'è detto, e' non aveano argomento [1] nè riparo niuno; e fu la cosa sì grande e sì aspra, che l'uno non poteva atare l'altro di nulla, e per queste cagioni e'si morirono sanza rimedio. Oggi è avvenuto, per esempio di questa e di molte altre che spesso sono di poi istate, che ci s'è preso assai ripari, non però che gran danno non faccia; ma pure credo che assai ne campano per virtù de' rimedi, che dicono e medici che le regole ch'essi danno per rimedio di questo veleno è uno armarsi alla difesa. Non è però che uno che sia molto bene armato non possa essere morto, ché gli fia dato d'una lancia o d'una ghiera [2] e d'una bombarda o prieta che l'ucciderà; così potrà avvenire al buon uomo, che fia provveduto contro alla pestilenza, e gli giugnerà una nebbia o un puzzo di corruzione o un fiato d'altro malato che fia più forte di lui e ucciderallo pure. Ma che è? Egli è assai chiaro che a una zuffa mortale ha che a una zuffa mortale ha un gran vantaggio chi è bene armato, e meno ne muiono che de disarmati; e però vo'dire che'rimedi sono buoni. Vuolsi avere consiglio con valenti medici e pigliare per iscritto loro consiglio o loro ricette, e quelle osservare diligentemente e non se ne fare punto beffe.
Da me voglio abbi questo cotanto consiglio. Tu udirai dinanzi che la mortalità sin nella città da li Firenze un anno o due, perché prima offende la Romagna o la Lombardia che la città nostra, e quasi per uso l'anno vegniente ell'è in Firenze, o almeno il verno dinanzi tu ne sentirai qualche isprazzo o nel contado o nelle pendici [3] della terra, il perché chiaro si prosume la mortalità dovere essere in Firenze. E sappi che di febbraio ella comincia a farsi sentire dentro, e così va crescendo tutto luglio; e da mezzo luglio in là ed ella s'appicca alle persone da bene e a quelli che sono vivuti regolati, e comincia a morire meno gente, ma de' migliori. E quest'è perché il veleno é tanto isparto e tanto t'ha combattuto, che t'ha rotte l'arme e passato dentro, e per la dura [4] della battaglia e' ti viene a straccare e a poco a poco a corromperti, e'nfine e' t'abbatte.
E però piglia questo riparo. Comincia dinanzi a governare te e la tua famiglia tutta per questa via. Prima, fa di guardarti dall'umido quantunche tu puoi e non patire punto freddo. Appresso, usa il fuoco ogni mattina prima che esca fuori e piglia qualche cosa secondo lo stomaco che hai: o un poco di pane e un mezzo bicchiere di buon vino o di malvagia, o una pillola appropiata a ciò, o un poco d'ubriaca [5] quando fusse piove o imidori, de'quindici dì due o tre mattine allato, su dì, e prima ti levi e dormi un poeo poi; e non mangiare nulla da ivi a ore cinque. Se ti venisse beuto o volessi bere un mezzo bicchiere e di malvagìa, sarebbe buono, ma non altri vini grossi, o se avessi lo stomaco debole o frigido, piglia degli otto dì una volta a tai tempacci una barba di gengiovo [6] in conservo e bei un mezzo bicchiere di malvagìa, e sta di poi cinque ore che tu non mangi altro.
O tu piglia un gherofano o un poco di cennamo o uno gughiaio di treggea [7] o quattro derrate [8] di zafferano o due o tre noci cotte e due o tre fichi sanza pane o qualche cosetta, secondo che se'consigliato. E quello vedessi ti facesse noia lascialo istare; e se lo stomaco istà meglio digiuno, non gli dare impaccio. Non uscire fuori troppo avacci: quand'è nebbia e piova istatti al fuoco. Desina all'ora compitente, mangia buone cose e non troppo; levati con buono appitito, guarti dalle frutte e da' funghi, non ne mangiare, o poco e di rado. Esercita la persona, ma non con fatica, che tu non sudi e non n'abbi a 'nsare o a sciorinarti de' panni; guarti dal chiavare e dalle femmine, non ti impacciare con niuna in quell'anno. Non mangiare e non bere se non n'hai voglia; e quando avessi in sullo stomaco, lascialo prima digestire e di poi istà un'ora prima mangi o bei. Guardi dalla cena, poco mangia e buone cose, non mangiare porco in niuno modo; se hai buono istomaco, l'aceto e l'agresto [9], ma non tanto ti desse noia a smaltire. Fa di stare sobrio del corpo e che tu esca il dì due volte il meno: se fussi istitico e duro del corpo, fatti uno argomento [10] degli otto dì o de' quindici dì. Non ti ravviluppare troppo nel dormire: levati al levare del sole. E'n questa forma passa il verno. E tenendo questo o migliore istile, tu verrai a purgare lo stomaco ovvero il corpo tutto, per modo che la currezione [11] dell'aria non troverà materia d'appiccarsi. Alla primavera, o veramente di marzo, tu sentirai dove è buono fuggire. Aspetta che de' tuoi cittadini si muovano: non volete essere de' primi, ma, partitone quattro o sei, piglia partito e va dove ne vanno i più e in sì fatta città che pel tuo danaio tu truovi ciò che bisogna alla santà del corpo. Non essere isciocco, o per masserizia o per niuna cagione, di rinchiuderti in castella o in ville o in luoghi che non vi sia e medici buoni e medicine, ché ne interviene che l'amico, si muore e spende nella fine due tanti che gli altri ed esserne fatto beffe, sanza il dolore e il ripitio dell'animo che mai te ne puoi dare pace. Non sono tempi da masserizia [12], ma da trarre il danaio d'ogni luogo che tu puoi; e spendi largamente nelle cose che bisogna, sanza niuna masserizia che sia, però che non si guadagnano se non per ispenderli per campare, o vuoi per vivere e per onore, o nelle brighe o in simili casi. E però ti conforto del fuggire presto: e quest'è il più sicuro iscampo ci sia. Fa d'avere de'denari: e non giucare, che potresti rimanere sulle secche, e que'tempi se ne truovano molto pochi che te ne prestassono per molti rispetti. Sì che sia savio: provvediti tanto dinnanzi rauni trecento fiorini il meno, e non ne toccare mai niuno se non abbisogni e non dire che tu gli abbia, ché ti sarebbono chiesti. E togli casa agiata pella tua famiglia, e non punto istretta, ma camere d'avanzo. E nella istante usa cose fresche: buoni vini e piccoli, de'polli e de'cavretti e de' ventri o peducci di castrone coll'aceto o lattuga, o de gamberi, se ne puoi avere. Istatti il dì di meriggio al fresco: non dormire se puoi farlo, o tu dormi così a sedere. Usa d'un lattovaro [13] che fanno fare i medici di ribarbero: danne a' fanciulli, ché uccide i vermini. Mangia alcuna volta la mattina un'oncia di cassia, così ne' buccioli, e danne a' fanciulli: fa d'averne in casa, e fresca, e del zucchero e dell'acqua rosa e del giulebbo [14]. Se hai sete il dì, bei di quello; rinfrescati i polsi, le tempie e al naso coll'aceto ben forte. None istare dove sia molta gente, e spezialmente in luogo rinchiuso, come logge o in chiese o in simili luoghi. Con chi venisse dell'aria corrotta o che avesse infermi in casa o fusse morto di sua gente, non istare con lui se none il meno che tu puoi, non dimostrando ischifarlo per modo s'avvegga, acciò non isdegnasse o non pigliasse isconforto. Fuggi quanto puoi maninconia o pensiero: usa dove si faccia cose da diletto e dove tu possa pigliare ispasso con piacere e con allegrezza, e non pensare punto di cosa ti dia dolore o cattivo pensiero. Come ti venisse, fuggilo, o in pensare ad altro o dove si ragioni di darsi piacere o dove si faccia alcuna cosa che ti piaccia o tu giuoca, quando tai casi t'avvenissono, e di pochi danari per volta: non passare di perdere uno fiorino; e se lo perdi, lascialo andare sanza pensarvi e non volere per quel dì riscuoterti, ché potresti, dove vuoi fuggire pensiero e dolore, andarlo cercando. Se hai cavallo, vatti a sollazzo e per la terra e di fuori la mattina pello fresco e la sera. Istà casto il più che tu puoi. Fuggi ogni cosa putidra e l'aria ivi appresso, non vi istare; tieni in diletto e in piacere la tua figlia e fa con loro insieme buona e sana vita, vivendo sanza pensiero di fare per allora masserizia, ché assai s'avanza a stare sano e sfuggire la morte.
Al presente non iscriverò più avanti sopra la detta materia, perché nel vero i medici fidati e che conoscono la tua natura sarebbono quelli che meglio t'ammaestrerebbono di tale provvedimento; e però, com'è detto, il consiglio si vuole avere da loro, nonistante che le sopra iscritte cose sieno utili e buone a osservalle ne'detti tempi.

Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, III, pp. 209-214.

[1] Rimedio adatto.
[2] Una specie di freccia.
[3] Periferia.
[4] Durata.
[5] Triaca: medicamento a base di 64 composti, famoso dal Medioevo.
[6] Radice di zenzero.
[7] Preparato.
[8] Porzioni.
[9] Succo spremuto dall'uva acerba, usato come condimento con l'aggiunta di sale.
[10] Clistere.
[11] Corruzione.
[12] Tempi in cui fare economie.
[13] Elettuario, preparato farmaceutico.
[14] Sciroppo denso di zucchero.


(D) Il distretto della città era allora [1] molto grande ed era fertile e abbondante di tutto il necessario; la città, poi, appariva popolosa e illustrata da magistrati e cittadini. La città era cinta come oggi, ma borghi popolosi si protendevano dalla porta di borgo San Felice fino a San Biagio, come oggi denunciano i resti degli antichi fossati; dal ponte di Santa Croce di Borgo Porta Nuova si estendevano fino a San Bartolomeo di Borgo Pusterla fuori porta. In Borgo San Pietro ancora oggi appaiono i valli degli antichi ordini di mura: questi erano cinti di spalti e muniti di battifredi, da ogni parte circondati da fossati grandissimi. Dentro le mura c'erano case e abitazioni egregie: in tutta la città sorgevano torri e palazzi dei potenti e nel distretto erano disseminati tanti castelli quanti erano i magnati (infatti in quasi tutti i villaggi sorgeva un castello, custodito da un nobile o da un potente della città), castelli che, a causa delle discordie e degli odi latenti che tra loro covavano, ora sono distrutti e abbattuti, sicché adesso quasi non si conserva più che il ricordo di quelli che furono, poiché sono ormai del tutto estinte le antiche cittadine.

Antonio Godi, Cronaca, RIS 8/2 p. 4.

[1] Il cronista vicentino Antonio Godi, che scrive negli ultimi decenni del XV secolo, si riferisce qui all'espansione della sua città attorno alla metà del secolo precedente.

 

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