Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
10. L'Europa Orientale (A) Codice Diplomatico Maggiore
di Polonia, III, pp. 425-427. (B) … (C) Annali di Jermolin,
anno 1380. (D)
Jan Dlugosz, Annali dell'inclito regno di Polonia, pp. 48-50.
In oriente, la potenza in ascesa del re di Polonia cercò l'appoggio
dell'impero – si veda il patto stipulato da Casimiro il Grande con Carlo
IV, del 1348 (A) – per poter fronteggiare
più efficacemente il nemico di sempre, i Cavalieri Teutonici,
e avere al tempo stesso mano libera per una politica aggressiva verso
est, verso i principati russi. Però già sotto il regno
del successore di Casimiro, Luigi d'Angiò, che era anche re D'Ungheria,
i nobili polacchi – tradizionale contraltare della monarchia – strapparono
importanti concessioni (1374); nel futuro della Polonia c'era più
il potere della nobiltà che quello dei re (B).
Ancora più a est, i principi russi approfittarono della grave
crisi interna dei dominatori mongoli [cfr. cap. 12, 6] per infliggere
all'“Orda d'Oro”, guidata dal khan Mamaj, una durissima sconfitta a
Kulikovo (1380), sotto la guida dei granduca di Mosca Demetrio (C).
Questa battaglia segnò l'inizio della fine del dominio mongolo
sulle terre russe e rafforzò al tempo stesso l'autorità
del granduca di Mosca sugli altri principi suol rivali.
Agli inizi del XV secolo, il maggiore avvenimento nell'Europa dell'est
fu senza dubbio il […incomprensibile la correzione] della dominazione
dei Cavalieri Teutonici, in conseguenza della disastrosa sconfitta subita
nel 1410 a Tannenberg (Grünwald) ad opera dei Polacchi e dei Lituani
(D): una battaglia che costituisce uno
dei momenti “fondanti” della storia nazionale della Polonia, […incomprensibile
la correzione] descritta nelle pagine di Jan Dlugosz, il maggiore cronista
medievale Polacco. (A) Noi, Casimiro, per grazia
di Dio re di Polonia, rendiamo noto a tutti quanto segue.
Riguardo alle controversie, ai dissensi e ai contrasti che si sono verificati
fino ad ora fra il serenissimo principe Carlo, re dei Romani sempre
augusto e insieme re di Boemia e noi, vi fu un amichevole incontro nella
città di Namslav, appartenente alla diocesi di Bratislava, nell'anno
e giorno indicati; dove si decise di appianare detti contrasti nel modo
seguente. Noi, con fede sincera e sotto giuramento, promettiamo senza
inganno al predetto imperatore e re di Boemia, nostro fratello, amore
perpetuo e fraterna amicizia, che osserveremo inviolabilmente in ogni
occasione futura, così come, d'altra parte, egli s'impegna con
analogo giuramento alla stessa amicizia e predilezione nei nostri riguardi,
conformemente al tenore delle lettere già da tempo scambiate
fra noi. A questa unione e amicizia ritenemmo opportuno includere anche
il nostro amato nipote Bolkon, duca di Svídnic, facendo in tal modo
cessare ogni materia di dissenso che finora aveva potuto tenerlo in
contrasto con l'imperatore, se si raggiungerà un accordo entro
tre giorni, a partire da domani, nei colloqui che si svolgeranno a questo
proposito fra il predetto duca Bolkon e il magnifico principe Alberto,
duca d'Austria, Stiria e Carinzia. In modo particolare, promettiamo
che, mentre attenderemo a recuperare i confini del nostro regno di Polonia
contro i Cavalieri dell'Ordine Teutonico o Bavari, con l'appoggio e
l'aiuto del predetto Carlo, imperatore dei Romani e re di Boemia, non
appoggeremo i nemici e i rivali del predetto re con il nostro aiuto,
consiglio o favore.
Quando poi avremo recuperato i predetti territori, promettiamo, con
la promessa e il giuramento sopra citati, di aiutare, assistere, affiancare
il predetto imperatore dei Romani e re di Boemia, contro ogni […mancano
pp.794-795] …slao e Casimiro, re di Polonia, avo e zio nostri.
Inoltre promettiamo che non sarà nominato nella carica di capitano,
detta in lingua volgare starosta, nessun barone, cavaliere, nobile o
uomo di qualsiasi altra condizione che sia straniero, eccezion fatta
per chi apparterrà al regno di Polonia o ne sarà oriundo,
purché non discenda dalla famiglia ducale.
Promettiamo inoltre che non affideremo il comando di nessun castello
o fortilizio del regno di Polonia a nessun discendente di stirpe ducale,
né a duca, né a principe, e questo sarà valido
per sempre.
Promettiamo inoltre che non affideremo se non a Polacchi o a capitani
che prestano servizio in questo regno le seguenti città e castelli
[…]. Inoltre promettiamo di conservare in tutte le loro libertà
i baroni, i maggiorenti, i nobili, le città, i borghi […].
A testimonianza palese di tutte le promesse sopra citate, noi concediamo
questa nostra lettera, corroborata dal nostro autentico sigillo. Dato
a Kosice, il 17 settembre dell'anno dei Signore 1374, nel trentatreesimo
anno del nostro regno. Codice Diplomatico Maggiore di Polonia, III, pp. 425-427. (B)MANCA PARAGRAFO B
(C) Lo stesso anno [1]
il principe dell'Orda d'Oro Mamaj e con lui tutti i principi dell'Orda,
tutti gli eserciti tartari e poloviciani, più i reparti alleati
bessermeni, armeni, italiani [2],
circassi, burlassi e con loro anche Jagellone di Lituania e il principe
di Rjazan Oleg, tutti insieme attaccarono il duca Demetrio e il 1° settembre
apparvero sulle rive del fiume Oka. Oleg aveva infatti mandato Epifan
Korejev a chiedere aiuto a Mamaj e a Jagellone. Di tutto ciò
il granduca ebbe notizia nel mese di agosto quando il principe Oleg,
traditore come Giuda, invitò Mamaj a intraprendere una spedizione
militare contro il granduca. E quando il granduca sentì questo,
entrò nella chiesa di Maria Vergine e recitò molte preghiere.
Quando poi uscì, inviò un appello a tutti i principi e
condottieri russi e si recò a Kolomna con i suoi centomila combattenti,
senza contare l'esercito dei principi russi e dei condottieri locali.
Dall'origine del mondo non era esistito un esercito russo così
forte, in quanto tutti insieme i combattenti arrivavano quasi a duecentomila.
Con loro erano poi Andrej Olgerdovic, principe di Pskov, e il duca Demetrio.
Intanto Mamaj si era fermato con tutti i suoi eserciti sul Don e, siccome
aspettava Jagellone, rimase qui tre settimane e inviò al granduca
la richiesta di pagamento del tributo, così come sotto lo zar
Zelibek [3].
Il granduca era disposto a pagare secondo le possibilità dei
cristiani, ma egli non accettò. Oleg invece esaudì le
richieste e gli mandò anche rinforzi. Il granduca Demetrio pregò
allora nella chiesa di Maria Vergine il santo vescovo Gherasim, il 20
agosto lasciò Kolomna e si fermò nel punto dove il fiume
Lopasna si getta nell'Oka. Qui accorsero da lui anche il principe Vladimir
Andrejevic, principe di Serpuchov, e Timofej, entrambi con valorosi
eserciti. Passarono il fiume e il 6 settembre arrivarono al fiume Don.
Demetrio ricevette allora dal famoso abate Serghej una lettera in cui
gli ordinava di stare con i Tartari. Demetrio diede ordine agli eserciti
di prepararsi e rimase a lungo a riflettere. Alcuni dicevano: “Passa
il fiume Don!”. Altri non volevano e dicevano: “La forza dei nostri
nemici, Tartari, Lituani e di Rjazan', cresce!”. Quando poi Mamaj venne
a sapere dell'arrivo del granduca sul Don, si arrabbiò moltissimo
e disse ai suoi: “Ci dirigeremo verso il Don, lì Jagellone ci
verrà in aiuto”. II granduca ordinò poi di costruire ponti
sul Don e di cercare di notte dei guadi. La mattina del sabato 8 settembre,
il giorno della natività di Maria Vergine, diede ordine agli
eserciti di passare il fiume e di scendere in campo. Quel giorno c'era
una grande nebbia, poi però la nebbia scomparve e tutti passarono
il fiume Don. E c'era una quantità innumerevole di armati, come
se anche la terra si stesse mettendo in marcia. Uscirono in un'aperta
pianura presso lo sbocco del fiume Neprjadva e si schierarono in ordine
di combattimento. E quando furono le sei del mattino i maledetti Tartari
incominciarono a comparire nella pianura e a schierarsi contro i cristiani.
Dall'una e dall'altra parte c'era una moltitudine di armati, cosicché,
quando i due eserciti si scontrarono, coprirono il territorio per un
tratto lungo 13 verste [4]
[…incomprensibile la correzione]. Ebbe inizio una grande battaglia,
si combatteva accanitamente e il rumore risonava lontano: una cosa simile
non s'era ancora mai vista sotto i principi russi. Combatterono dalle
sei alle nove e il sangue scorreva a torrenti come se un violento acquazzone
l'avesse versato sulla terra e da ambo le parti caddero molti combattenti.
Verso le nove Dio rivolse il suo sguardo misericordioso sulla sua progenie
umana. Molti videro angeli e santi martiri aiutare i cristiani. Anche
i pagani guardavano con terrore i reggimenti che si libravano nell'aria
e sterminavano spietatamente gli eserciti pagani. Fu così che
ad un tratto i pagani si diedero alla fuga e i cristiani incominciarono
a inseguirli furiosamente fino al fiume Mec, battendoli, dando loro
la caccia e uccidendoli. I reggimenti del granduca irruppero nelle tende
dei pagani, presero i gioielli, condussero via le mandrie, uccisero
molti armati e altri ne spinsero in acqua dove annegarono. Allora furono
uccisi però anche molti combattenti dalla parte russa […]
e i loro nomi sono iscritti negli albi d'onore. Io ho potuto nominare
soltanto i principi e i boiari più anziani, i condottieri, ma
anche moltissimi altri rimasero uccisi. Lo stesso granduca ebbe tutta
l'armatura rovinata, ma pur essendosi battuto a faccia a faccia con
i Tartari in prima linea non riportò la benché minima
ferita. Alcuni condottieri gli dicevano: “Signore, non metterti così
davanti, vai piuttosto dietro o sull'ala o in qualche altro posto sicuro”.
Ma egli aveva replicato: “Come potrei allora, fratelli, condurvi avanti
se proteggessi me stesso e mi nascondessi dietro? Io voglio dimostrare,
come l'ho confermato con le parole e ora con i fatti, di essere deciso
a sacrificare la vita per il cristianesimo e sono convinto che gli altri,
vedendo ciò, prenderanno coraggio”. E come aveva detto, così
anche fece: durante il combattimento fu continuamente alla testa e intorno
a lui a destra e a sinistra c'era una quantità di pagani uccisi
che finirono col circondarlo tutt'intorno come una forte piena. E ricevette
molti colpi al capo e su tutto il corpo, ma Dio lo preservò da
ogni ferita. Il principe Jagellone di Lituania con tutti i suoi combattenti
lituani e polacchi venne in aiuto di Mamaj, ma arrivò con un
giorno di ritardo. Sentì che il granduca aveva sconfitto i Tartari
e che Mamaj si era dato alla fuga e allora con i suoi eserciti scappò
precipitosamente. Quella notte il granduca si fermò a guardare
i cadaveri e le ossa dei Tartari sconfitti e insieme con il suo seguito
si terse il sudore dalla fronte e rese grazie al gran Dio. Il giorno
dopo partirono dal campo di battaglia e tornarono nei loro paesi. Annali di Jermolin, anno 1380. [1] 1380.
[2] Genovesi delle colonie di
Crimea.
[3] Morto nel 1357, non era uno
zar nia un khan dei Tartari.
[4] 13 km circa. (D) Quando lo squillo della
tromba diede il segnale della battaglia, tutto l'esercito reale cantò
ad alta voce la canzone nazionale “Vergine Maria” e poi con le lance
alzate corse a combattere. Il primo a gettarsi sul nemico fu l'esercito
lituano, per ordine del granduca Alessandro, ormai impaziente a causa
degli indugi. Il vicecancelliere polacco Nicola lasciò allora
il re e con i cappellani e gli scrivani si diresse verso l'accampamento
reale. Uno degli scrivani però lo fermò e gli disse di
trattenersi ancora un pò a guardare lo scontro di eserciti così
enormi. “Sono convinto – disse – che sarà uno spettacolo quale
i nostri occhi non vedranno mai più”. Il vicecancelliere ascoltò
il suo consiglio, tornò indietro e cominciò a osservare
l'inizio della battaglia. In quello stesso istante, lanciando alte grida
– come avviene prima del combattimento – i due eserciti si erano già
scontrati nella pianura che li separava.
I crociati [1]
avevano sparato due colpi di cannone e con un forte urto tentavano invano
di spezzare e distruggere le schiere polacche. L'esercito prussiano
si era infatti gettato nella mischia con grida ancor più alte
e da un posto più favorevole, su una altura. Sul luogo della
battaglia sorgevano sei alte querce su cui si erano arrampicati molti
uomini – non so se dalla parte del re o dei crociati – per poter meglio
osservare dall'alto il primo urto dei due eserciti. Non appena i combattenti
si furono scontrati, tutt'intorno, per un raggio di alcune miglia, risonò
il fragore delle lance che cozzavano le une contro le altre, lo strepito
delle armature, il fischiare delle spade. Si combatteva uomo contro
uomo, le armi si spezzavano con fracasso, contro i volti si precipitavano
le punte delle lance. In quella confusione e in quel clamore generali
era difficile distinguere i più forti dai più deboli,
i coraggiosi dai codardi, come se tutti a un tratto facessero parte
di un unica schiera. Nessuno si ritirava, nessuno indietreggiava di
fronte all'altro, e cedeva il campo soltanto il nemico ucciso che, buttato
giù dal cavallo, apriva uno spazio libero al vincitore. E quando
anche le lance furono spezzate, le due schiere si scontrarono con tale
violenza che ormai solo le scuri e le punte di ferro delle mazze si
incrociavano con tanto fracasso come quando nella fucina battono i martelli.
Anche i cavalieri erano tanto strettamente incuneati gli uni fra gli
altri che si attaccavano con le sciabole, e così erano la forza
e il valore dei singoli che decidevano della vittoria.
Da quando la battaglia era iniziata, i due eserciti combattevano da
più di un'ora senza un risultato. Siccome l'uno non cedeva terreno
all'altro, era difficile prevedere da che parte si sarebbe inclinato
il piatto della bilancia e quale sarebbe salito in alto. I crociati
si accorsero che le cose andavano male sull'ala sinistra dove contro
di loro combatteva l'esercito polacco e dove erano in pericolo anche
perché le prime file erano cadute. Rivolsero perciò tutte
le loro forze verso l'ala destra, costituita dall'esercito lituano le
cui file non erano così serrate, che aveva cavalli e armamenti
più deboli e sembrava un avversario più facile da sgominare.
Probabilmente pensavano che, una volta sconfitti i Lituani, sarebbero
potuti saltare addosso con tanta più decisione ai Polacchi. Tutti
questi loro propositi però fallirono. Non appena divampò
il combattimento con i Lituani, i Russi e i Tartari, i reparti lituani,
non potendo resistere alla pressione dei nemici, cominciarono a vacillare
e a ritirarsi. I crociati li attaccarono con tanta maggior violenza
e con moltiplicate forze, costringendoli alla fine alla fuga. Invano
il granduca di Lituania Alessandro cercò di arrestare i fuggiaschi,
invano si scagliò contro di loro gridando e percuotendoli. L'allarme
dei Lituani trascinò con sé anche una buona parte dei
Polacchi che combattevano nelle loro file. Il nemico intanto si era
lanciato per alcune miglia all'inseguimento dei fuggiaschi: li ammazzava,
li faceva prigionieri e credeva di aver raggiunto la vittoria completa.
I disertori erano in preda a un tale terrore che alcuni di loro si fermarono
soltanto in Lituania dove diffusero la notizia che re Ladislao e il
granduca Alessandro erano periti e che i loro eserciti erano stati completamente
annientati.
In questa battaglia combatterono eroicamente i cavalieri della regione
di Srnolensk, che rimasero fermi sotto i loro tre stendardi e non si
macchiarono dell'onta della fuga, ciò che valse loro la stima
generale. Dopo la fuga dei Lituani, quando si dileguò il fumo
in cui i combattenti non potevano riconoscersi e quando cadde un po'
di pioggia leggera e gradevole, in molti punti si scatenò una
lotta decisa e accanita. I crociati incalzavano, cercavano di trascinare
la vittoria dalla loro parte e nel furore della mischia finì
a terra persino il grande stendardo del re di Polonia Ladislao con l'insegna
dell'aquila bianca, portato da Martin di Wrocimovic, portabandiera di
Cracovia, nobile che aveva nello stemma mezza capra. Quando però
gli altri cavalieri che combattevano sotto la stessa insegna videro
ciò, immediatamente lo presero, lo rialzarono e lo portarono
via. Se non ci fosse stato il coraggio di quegli uomini che con il proprio
petto e con le proprie armi difesero lo stendardo, questo sarebbe andato
sicuramente perduto. Volendo lavare questa vergogna, la cavalleria polacca
attaccò quindi con grande slancio il nemico, sbaragliandolo,
e disperse e annientò tutti i nemici che avevano iniziato la
battaglia contro di loro. Jan Dlugosz, Annali dell'inclito regno di Polonia, pp. 48-50. [1] I cavalieri dell'Ordine Teutonico.
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