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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XVIII
L'Europa alla fine del Medio Evo

11. La caduta di Costantinopoli
(A) Isidoro di Kiev, Lettera al cardinal Bessarione (1453), FV, pp. 69-79.
(B) …
(C) …

La presa di Costantinopoli da parte dei Turchi di Maometto II, il 29 maggio del 1453, rappresentò uno dei fatti più drammatici del XV secolo, ed è molto ben documentata; qui si forniscono le relazioni di alcuni testimoni oculari dei fatti. La prima è di Isidoro arcivescovo di Kiev, che, partito da Roma nel maggio del 1452 e giunto a Costantinopoli dopo cinque mesi di duro viaggio, fu catturato dai Turchi, ma riuscì in seguito a fuggire (A); la seconda è di Jacopo Tedaldi. mercante fiorentino che combatté sulle mura di Costantinopoli e che – una volta accortosi che i Turchi erano ormai in città – riuscì a salvarsi gettandosi a nuoto; la sua storia fu messa per iscritto in francese da un certo Jean Blanchin, sulla base del racconto fattogli dallo stesso Tedaldi a Negroponte (B); la terza è di Nestore Iskinder, un cristiano prigioniero dei Turchi che avrebbe partecipato nelle loro file alla presa di Costantinopoli (C). Testo quest'ultimo fortemente interpolato, ma interessante, perché nella sua conclusione (che potrebbe, tuttavia, essere un'interpolazione cinquecentesca) esprime l'ideale della “terza Roma”, rappresentata dal popolo russo che, caduto l'impero bizantino, deve prendere il posto di questo nella lotta contro gli infedeli.


(A) Ci vollero ben sei mesi per il solo viaggio, finché con difficoltà alla fine giunsi alla sventuratissima città di Costantinopoli il 26 del mese di ottobre e la trovai bloccata e accerchiata da ogni parte dal nemico in armi. Quali discorsi quindi io abbia tenuto, che cosa abbia fatto e quali pensieri abbia rivolto nella mia mente, non potrei condensare facilmente né a parole né per iscritto. Nel giro di due mesi la flotta dei cristiani è stata raccolta, radunata e messa d'accordo in modo perfetto e saldo, come in altra occasione ho già scritto due volte a vostra Reverenza, in modo abbastanza ampio ed esauriente. Quando sembrava che le cose dei cristiani procedessero bene e con soddisfazione, benché non fosse venuta meno né la volontà dei Turchi di assalire la città, né il loro forte desiderio, né la loro brama insaziabile, scrissi a vostra Reverenza pure su ogni cosa, sulla mentalità dello stesso Turco [1], che pensa senza sosta di sottomettere al proprio potere tutto quanto l'orbe terrestre e di distruggere interamente il nome di Cristo. Ed è ciò appunto che il folle medita: prepara un forte schieramento, un esercito stimato tra fanti e cavalieri di circa trecentomila uomini ed una flotta grandissima, di duecentoventi navi fra triremi, biremi e uniremi, più una nave mercantile o rotonda; raduna e ammassa tutti gli artigiani, ogni sorta di proiettili, ogni genere di strumenti, di congegni e di artifizi che siano ritenuti adatti per assalire ed espugnare le città, ogni tipo di macchine da getto, bombarde, catapulte, in gran numero e di dimensioni enormi, le cui moli ti sarebbero sembrate delle cose mostruose e portentose: con questi mezzi alla fine si è impadronito di Costantinopoli. Tra le altre numerosissime macchine da getto, catapulte o bombarde, ce n'erano tre, di cui la prima lanciava proiettili di pietra del peso di quattordici talenti, una seconda di dodici e una terza di dieci. Mente le mura con il loro spessore e la loro solidità sopportavano bene i colpi di tutte le altre bombarde minori, non riuscirono invece a tollerare la forza dirompente di queste tre che le battevano in continuazione. Al secondo colpo la più gran parte dei muri e delle stesse torri veniva abbattuta e demolita. Allora abbiamo compreso che si compiva fino in fondo l'antica profezia che a lungo si è conservata nelle nostre storie e che dice: “Guai a te, città dai sette colli, quando ti assedierà un giovane, perché le tue mura fortissime saranno abbattute”. Il Turco riuscì dunque ad abbattere le mura nei pressi della Porta di san Romano ed anche quella parte di esse che si trova tra le Porte dette della Fonte, quella Aurea e l'antica Porta della Ventura, e quell'altra che pendeva il suo nome dalla Porta di Caligaria. Presso di essa, mentre si combatteva eroicamente, il fortissimo Teodoro Caristeno, al momento in cui i nemici irruppero nella città, cadde gloriosamente cercando di opporsi con coraggio e grandissimo valore: quella parte delle mura infatti era la più debole di tutta la cinta muraria.
Il giorno 29 del mese di maggio da poco trascorso al sorgere dei sole, quando i suoi raggi colpivano i nostri negli occhi, i Turchi investendo per mare e per terra la città assalirono quella parte di mura presso la Porta di san Romano che era quasi interamente distrutta, dove si trovavano molti uomini valorosi latini e greci, ma senza il loro re e imperatore [2], che era già stato ferito e trucidato e il cui capo fu poi presentato in dono al Turco, il quale alla sua vista esultò per la grande gioia, lo coprì di ingiurie e di insolenze e subito dopo lo inviò come trofeo ad Adrianopoli. Assieme a lui si trovava un condottiero il cui nome era Giovanni Giustiniani, che molti accusano di esser stato la causa prima della presa e di così grande catastrofe. Ma lasciamo stare. La scalata alle mura in quella parte era d'altronde facile, perché, come si è già detto, essa era stata buttata giù e quasi diroccata interamente dai colpi delle bombarde, per cui fu facile ai nemici irrompere nella città, non trovandosi nessuno lì in grado di contrastare l'impeto dei nemici e di difendere quel punto. Era così incredibile vedere la città che da una parte si difendeva tutta quanta all'interno delle mura e dall'altra all'esterno era assalita […]. Tutte le vie, le strade ed i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che colava dai cadaveri degli uccisi e fatti a pezzi. Dalle case venivano tratte fuori le donne, nobili e libere, legate tra loro con una fune al collo, la serva assieme alla padrona e a piedi nudi, per lo più, e così pure i figli, rapiti con le loro sorelle, separati dai loro padri e dalle loro madri, erano trascinati via da ogni parte. Avresti potuto poi vedere – o sole, o terra! – schiavi e servi turchi d'infimo grado portar fuori e spartirsi fanciulle giovanissime e nobilissime, laiche e religiose, e trascinarle fuori dalla città, non come buoi o pecore o altri animali domestici e mansueti, ma come se fossero un gregge indomabile di fiere spaventevoli, selvagge e crudeli, circondate tutt'attorno da spade, sicari, guardie e assassini […]. Appena fu loro possibile buttarono giù e fecero a pezzi nella chiesa che si chiamava di Santa Sofia, e che ora è una moschea turca, tutte le statue, tutte le icone e le immagini di Cristo, dei santi e delle sante, compiendovi ogni sorta di nefandezza. Saliti come invasati sul ripiano dell'ambone, sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto. Abbattute le porte del santuario, ghermivano tutte le cose sacre e le sante reliquie e le gettavano via come case spregevoli e abbiette. Preferisco passare sotto silenzio ciò che hanno fatto nei calici, nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d'oro con le immagini di Cristo e dei santi li usavano come giacigli in parte per i cani, in parte per i cavalli. Calpestavano coi piedi gli Evangeli ed i libri delle chiese, abbattevano monumenti di marmo lucido e splendente, tutto facevano a pezzi.

Isidoro di Kiev, Lettera al cardinal Bessarione (1453), FV, pp. 69-79.

[1] Il Turco è il sultano Maometto II detto Fatih, il conquistatore (1430-1481).
[2] Costantino XI Paleologo, ultimo imperatore di Bisanzio, sul trono dal 1449.


(B) Il giorno 4 di aprile di questo stesso anno i Turchi mossero verso Costantinopoli e il giorno seguente, il 5, la loro armata prese posizione di fronte alla città.
All'assedio c'erano in tutto duecentomila uomini, di cui forse sessantamila erano soldati, essendo trenta o quarantamila di essi cavalieri. Un quarto di essi era fornito di giachi o tuniche di cuoio; degli altri molti erano armati alla moda di Francia, alcuni alla moda di Ungheria e altri ancora avevano elmi di ferro, archi turchi e balestre. II resto dei soldati era senza equipaggiamento, a parte il fatto che avevano scudi e scimitarre, che sono un tipo di spada turca […]. All'assedio c'erano parecchie grosse bombarde e un gran numero di colubrine e altri strumenti per il lancio di proiettili. Tra l'altro c'era un'enorme bombarda di metallo, tutta d'un pezzo, che lanciava una pietra di undici spanne e tre dita di circonferenza, pesante millenovecento libbre. Le altre sparavano proiettili di ottocento, mille o milleduecento libbre. Ogni giorno la bombarda era caricata tra le cento e le centoventi volte; e l'assedio durò per cinquantacinque giorni. È stato calcolato che essi usarono mille libbre di polvere da sparo ogni giorno, così che in cinquantacinque giorni essi usarono cinquantacinquemila libbre di polvere. Si ricorda pure che oltre la bombarda c'erano anche diecimila colubrine. La flotta turca all'interno e all'esterno del porto consisteva di un numero che variava tra le sedici e le diciotto grandi galere, tra sessanta e ottanta galiotte con ciascuna dai diciotto ai venti banchi per remi e tra i sedici e i venti vascelli più piccoli fatti apposta per trasportare i cavalli di un tipo detto palendins, e un gran numero di altre piccole imbarcazioni di vario genere.
Dopo che l'assedio ebbe inizio e fu portato avanti dalla parte di terraferma, Zagan Pasa, vizir del sultano, un cristiano rinnegato originario dell'Albania, colui che era più temuto e che aveva più autorità nel suo seguito, aveva trasportato tra le sessanta e le ottanta galere e altri vascelli armati dal mare per due o tre miglia per via di terra nella baia di Mandraghi, nel luogo che è tra le due città. Questo era l'unico modo perché la flotta turca potesse entrare nel porto, poiché l'esercito cristiano era vicino ed essi avevano costruito un ponte di navi all'imboccatura del porto per andare da Costantinopoli a Pera, per portare aiuto quando occorresse […].
Costantinopoli è molto ben difesa, di forma triangolare. Le mura dalla parte della terraferma sono di seimila passi di lunghezza, le mura prospicienti il mare di cinquemila e pure quelle di fronte al porto e al Bosforo di seimila.

Nella città c'erano complessivamente tra i trentamila ed i trentacinquemila uomini [sotto le armi], e seimila o settemila uomini in grado di combattere, per un totale di quarantaduemila uomini al massimo. Nel porto, per difendere la catena, c'erano trenta navi cristiane e nove galere, e cioè dite galere leggere, tre galere mercantili veneziane, tre appartenenti all'imperatore e una al signor Giovanni Giustiniani Longo, un genovese al servizio dell'imperatore d' Oriente. Così Costantinopoli, assediata per terra e per mare e così duramente colpita dentro e fuori dalle frecce, dalla bombarda e da altre armi, si difese per cinquantaquattro giorni […].

Ogni giorno avvenivano scontri selvaggi in cui c'erano morti da ambo le parti. Ma per ognuno dei difensori che veniva ucciso, moriva un centinaio dei turchi che assalivano dal di fuori la città.
All'assedio dalla parte dei Turchi c'erano molti cristiani della Grecia e di molte altre nazioni. Sebbene essi siano soggetti al sultano, egli non li aveva costretti ad abiurare la loro fede, ed essi potevano adorare e pregare come desideravano. Inoltre c'erano alcuni capi e altri che erano avversari di Zagan poiché questi li opprimeva. Questi uomini avvisavano i difensori per mezzo di lettere che essi spedivano nella città in ogni modo possibile informandoli di ogni cosa che era stata fatta dagli assedianti e dal consiglio del sultano. Tra le altre cose i cristiani vennero informati che il sultano aveva tenuto consiglio con i suoi baroni, principi, nobili e consiglieri per quattro giorni consecutivi […].
Dopo che il sultano ebbe deciso di compiere questo ultimo assalto, diede ordine tre giorni prima dell'attacco di compiere un solenne digiuno nell'intero campo per onorare e mostrare riverenza al grande Dio del cielo, il solo che essi adorino […]. E di notte fecero luminarie con candele e legna che lasciarono bruciare sulla terra e sull'acqua, così che sembrò che il mare e la terra fossero infuocati, con grande quantità di strepito dei tamburi e degli altri strumenti; [essi avevano solo qualche tromba].
I Turchi iniziarono l'assalto gradualmente la sera del 28 maggio e le forze del sultano erano disposte come segue […].

L'assalto iniziò e i difensori diedero buona prova di se stessi in tutti i punti. La Porta di san Romano era il luogo più vulnerabile, e le mura erano le più deboli, da quando i Turchi avevano all'inizio distrutto una gran parte di esse. La bombarda era stata piazzata là, ed essi avevano raso al suolo una torre e la metà superiore delle mura per una lunghezza di duecento braccia come minimo […].
Nel frattempo i difensori cercavano di ostruire le brecce nelle mura, riempiendo le duecento braccia che erano state distrutte con botti e con terra e altri materiali e resistendo agli attacchi fino al limite delle loro capacità.
Il signor Giovanni Giustiniani, un genovese al servizio dell'imperatore, si trovava in questo punto e fu colui che qui si comportò più valorosamente. La città intera aveva fiducia in lui e nel suo coraggio.
Ora in questo luogo, per compiere il suo ultimo sforzo, il sultano si avvicinò con due compagnie di diecimila uomini scelti appositamente per proteggere la sua persona e molti altri con castelli di legno, ponti, scale e altri strumenti. Essi cominciarono a riempire i fossati ed a gettare ponti e scale e a scalare le mura. Là Giustiniani fu ferito da una colubrina, ed egli se ne andò per cercare le cure di un medico. Prima di fare ciò egli affidò la difesa del suo posto a due gentiluomini genovesi. Durante questo tempo i Turchi scalavano le mura sempre più in alto, e al vedere ciò i soldati che stavano difendendo all'interno della città vedendoli già dentro le mura in così gran numero e vedendo che Giustiniani si allontanava, credettero che egli stesse fuggendo, così abbandonarono i loro posti e fuggirono anch'essi. Con tali mezzi i Turchi entrarono in Costantinopoli il 29 di maggio mettendo a morte a fil di spada chiunque opponesse loro resistenza.
Pera non era stata attaccata e la maggioranza dei suoi abitanti si trovava a Costantinopoli per difenderla. Coloro che stavano a Pera, che non avevano perduto nulla delle loro proprietà, decisero di offrire le chiavi della città al sultano e si raccomandarono a lui prendendolo come loro signore e protettore, parlandogli in italiano e offrendogli la città, che conteneva ancora seicento uomini, per rimettersi alla sua misericordia. Comunque un gran numero di uomini e di donne si imbarcarono su una nave genovese per fuggire; e sembrò a Giacomo [1] che una nave che si stava avvicinando piena di donne provenienti da Pera fosse catturata dai Turchi.
L'imperatore di Costantinopoli fu ucciso. Alcuni dissero che gli fu tagliata la testa, e altri che morì nella mischia presso la porta: ambedue le storie possono essere benissimo vere.
Le grandi galere veneziane dei viaggi di Romania e di Trebisonda rimasero lì fino a mezzogiorno, nella speranza di poter soccorrere qualche cristiano. Le raggiunsero in quattrocento, tra cui questo Giacomo Daldi, che era stato al suo posto sulle mura ad una certa distanza dal punto in cui i Turchi entrarono. Due ore più tardi, quando venne a sapere che essi erano penetrati nella città, egli raggiunse il porto, gettò via tutti i suoi vestiti e nuotò verso le galere che lo presero a bordo; egli preferì il rischio di annegare che quello di attendere la furia dei Turchi […].
…[mancano le pp. 806-807]

 

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