Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
5. La conclusione del conflitto
(A)
Enrico VI, Ordinanza (1423). (B) Thomas Basin, Storia
di Carlo VII, 11, I, 6. (C) Thomas Basin, Storia
di Carlo VII, II, 11. (D) Diario di un borghese
di Parigi sotto il regno di Carlo VII, pp. 264-265. (E) Thomas Basin,
Storia di Carlo VII, II, 21.
Nel 1422, con la scomparsa di Carlo VI e di Enrico V, si determinò
in Francia una sorta di duplice monarchia: al controllo del territorio
nazionale da parte dell'amministrazione inglese, con la reggenza del duca
di Bedford e di quello di Borgogna per conto del sovrano d'Inghilterra
Enrico VI, si sottrasse presto il centro e il sud dei paese dove i sostenitori
dei Valois appoggiarono il figlio di Carlo VI, il cosiddetto re di Bourges
(A). È in un tale contesto di confusione
politica e di incertezza che nel territorio francese, devastato da una
guerra fatta di sortite e saccheggi (B),
prende corpo un diffuso desiderio di pace, accompagnato da un' aspirazione
comune [incomprensibile la correzione] alla rivalsa contro il nemico che
trova un. interprete nella figura di Giovanna d'Arco (1412-1431). La sua
azione politica, che si espresse nelle forme mistiche di una religiosità
ispirata, si concretò nella liberazione della città d'Orléans
assediata dagli Inglesi (C) e nella
consacrazione di Carlo VII nella città sacra di Reims, secondo
la tradizione dei sovrani francesi (18 luglio 1429). Molte città
si dichiararono allora fedeli al re, ma Giovanna, che premeva perché
si conquistasse Parigi, ed era osteggiata dall'ambiente vicino al sovrano,
venne catturata dai Borgognoni e arsa sul rogo dagli Inglesi dopo un processo
che la condannava per eresia. I due brani usati qui a testimonianza della
condizione delle campagne francesi e della liberazione di Orléans,
sono tratti da un'opera del vescovo Thomas Basin, incaricato della conduzione
del processo che nel 1456 riabilitò Giovanna d'Arco; quello che
racconta il suo martirio sul rogo è tratto dal Giornale del borghese
di Parigi, un interprete dell'atteggiamento incerto e timoroso della borghesia
parigina del tempo (D). Alla scomparsa
di Giovanna d'Arco seguì quella del duca di Bedford, ma soprattutto
il riavvicinamento al re di Francia del duca di Borgogna Filippo il Buono,
che nel congresso di Arras (1435) si staccava dall'alleanza con gli Inglesi
(E). Furono le premesse di una tregua,
che permise a Carlo VII di operare una riforma militare che poneva l'esercito
alla diretta dipendenza del sovrano. Le vittorie francesi di Formigny
(1450) e Castillon (1453) ridussero i possessi inglesi sul continente
alla sola Calais. La guerra dei Cento anni si esauriva senza una conclusione
formale, che si ebbe solo con il trattato di Picquigny nel 1475, in cui
si sanciva ufficialmente la rinuncia dei sovrani inglesi alla corona di
Francia. L'affermazione della monarchia francese contro i nemici esterni
coincideva con il profilarsi di uno spirito nazionale e di un lealismo
dinastico; il successo della monarchia si traduceva all'interno in un
riordinamento legislativo che riduceva gli spazi di privilegio sottratti
alla sua giurisdizione e in una riorganizzazione del clero su base nazionale. (A) Abbiamo saputo che molti
dei nostri sudditi, sia Inglesi che Normanni e altri che ci devono obbedienza,
quando parlano o fanno menzione dei nostri nemici, ribelli traditori
e avversari indicati come Armagnacchi, essi li citano e li denominano
Francesi, e alcuni di loro chiamano re colui che si dice Delfino, il
che significa opporsi direttamente alla nostra autorità e signoria
regia, e per ciò noi abbiamo vietato e vietiamo a tutti i nostri
sudditi, tanto da questa come dall'altra parte del mare, che non siano
così azzardati o arditi da dire, chiamare, denominare re, a parole
o per iscritto, colui che si proclama Delfino, né Francesi coloro
che lo sostengono e che gli obbediscono, e nel caso in cui qualcuno
faccia il contrario noi vogliamo che essi siano puniti nella maniera
e nella forma che segue dai balivi e dagli altri uomini e ufficiali
di giustizia: e cioè che il nobile che farà ciò
una prima volta pagherà dieci libbre tornesi, e chi non è
nobile cento soldi tornesi; per la seconda volta, il nobile cento libbre
tornesi e il non nobile cinquanta libbre tornesi se ne ha i mezzi e
se non li ha, abbia la lingua perforata o sia marchiato sulla fronte;
alla terza volta, tanto il nobile che il non nobile saranno puniti secondo
la prassi criminale e tutti i loro beni saranno confiscati. Enrico VI, Ordinanza (1423). (B) Dunque, dopo la morte
di suo padre, come è stato detto nel libro precedente, Carlo
VII successe nel regno di Francia, nell'anno del Signore 1422, all'età
di circa ventidue anni. Ai tempi di Carlo VII, sia per le continue guerre
civili e internazionali sia per la pigrizia e l'apatia dei principi
e duchi suoi sudditi, sia per la mancanza di ordine e disciplina nell'esercito
e la rapacità e corruzione dei soldati, il detto regno arrivò
ad una desolazione tale che dalla Loira fino alla Senna e fino alla
Somme, uccisi o cacciati i coloni, quasi tutti i campi rimasero per
lunghi anni e per molto tempo non soltanto senza coltivazione ma senza
la gente che potesse coltivarli, tranne alcuni piccoli poderi, ma, anche
se vi si coltivava qualcosa, non ci si poteva allontanare dalle città,
dalle città fortificate e dai castelli per le continue incursioni
dei predoni. […] Tutto quel che si poteva coltivare nella zona
in quei tempi era soltanto nei dintorni e all'interno delle città,
dei centri minori o castelli e si rimaneva ad una distanza da cui le
vedette dalle torri e dai posti di osservazione potessero vedere arrivare
i predoni; esse davano il segnale o con il suono delle campane o con
il corno da caccia o di altri strumenti per avvisare tutti coloro che
lavoravano nei campi e nelle vigne che dovevano mettersi in salvo. E
questo in moltissimi luoghi avveniva talmente spesso che quando staccavano
i buoi e le giumente dall'aratro, questi, sentendo il segnale delle
vedette, immediatamente, senza che nessuno li conducesse, veloci e spaventati,
condizionati dalla lunga esperienza, si rifugiavano al sicuro e anche
le pecore e i maiali solevano fare lo stesso. Ma, poiché in quelle
regioni, per la vastità dei campi, le città e i luoghi
fortificati erano rari, moltissimi subirono incendi, distruzioni e saccheggi
e furono privati delle abitazioni per le incursioni ostili; quel tantino
che quasi di nascosto si riusciva a coltivare attorno ai posti fortificati,
sembrava pochissimo o quasi nulla in confronto alle distese di campi
che rimanevano abbandonati e senza agricoltori. […] I soldati
di entrambi gli eserciti [1],
che continuamente attaccavano a vicenda i territori dei nemici, portavano
prigionieri i contadini ai castelli e alle fortificazioni, li gettavano
in tetri carceri e in spelonche, li sottoponevano a diversi supplizi
e tormenti nella speranza di poter estorcere loro somme di denaro per
il riscatto. Si potevano trovare nelle fosse e negli antri dei castelli
e torri poveri coloni strappati alle loro terre, talvolta cento in una
sola fossa, talvolta duecento, dove più, dove meno, a seconda
che ci fosse un maggiore o un minore numero di predoni; moltissimi di
coloro che non potevano pagare la somma richiesta per il riscatto, senza
alcuna pietà, erano lasciati morire di fame, di inedia e degli
stenti della prigionia. In vero, durante le persecuzioni e le torture
per estorcere loro le somme richieste con cui riscattarsi, i perseguitati
spesso venivano meno. Tanto era il furore dell'avarizia e della crudeltà
dell'animo dei predoni che non provavano nessuna specie di compassione
per i poveri che supplicavano. Anzi, addirittura a molti tra questi
predoni piaceva infierire come bestie ferocissime contro gli innocenti
coltivatori dei campi che li supplicavano. Oltre a quelli che dicevano
di combattere dalla parle dei Francesi e che, sebbene senza alcun vincolo
di disciplina e di stipendio, tuttavia risiedevano in centri fortificati
e in castelli che erano fedeli ai francesi e in questi mettevano in
salvo se stessi e la loro preda, ce n'erano di altri innumerevoli disperati
e scellerati, che, sia per viltà, sia per l'odio degli Inglesi
e per desiderio di rapinare i beni altrui o spinti dalla consapevolezza
dei propri crimini, per sottrarsi ai vincoli della legge, abbandonati
i poderi e le case, non si rifugiavano nei centri fortificati e nei
castelli dei Francesi né militavano nel loro esercito, ma a mo'
di belve e di lupi si ritiravano nel fitto delle foreste e in luoghi
selvaggi, da cui, sotto lo stimolo rabbioso della fame, uscivano, per
lo più nelle tenebre della notte, talvolta anche, ma raramente,
facendo incursioni nelle case dei contadini, saccheggiando i loro beni,
conducendoli prigionieri nei loro nascondigli segreti del bosco. Thomas Basin, Storia di Carlo VII, 11, I, 6. [1] Inglesi e Francesi. (C) Ella [1]
decise dunque di attaccare i nemici che erano nelle fortificazioni che
essi avevano costruito come cittadelle molto ben munite in numero di
sette tutto intorno alla città [2]
e di liberare e sciogliere dalla morsa dell'assedio gli abitanti della
città da tempo chiusi come in carcere, spossati dalla fame e
dall'inedia. Obbedienti ai suoi ordini, come se venissero da Dio, i
soldati, insieme alla stessa Giovanna d'Arco che era insieme comandante
e coraggioso combattente, attaccarono dall'altra estremità del
ponte quella munitissima cittadella che ritenevano la meglio difesa
dal vallo e dalla forza delle sue milizie, la espugnarono con impeto
e incendiata la torre, coloro che continuavano a difenderla nelle postazioni
superiori, avvolti dalle fiamme e dal fumo, furono costretti a gettarsi
o a calarsi con funi [3].
[…] Forti della vittoria, i Francesi, ritenendo di minor difficoltà
ciò che restava da fare, diressero le loro forze e le loro schiere
sotto il comando e le insegne della predetta pulzella e con l'aiuto
di Dio contro gli accampamenti e le macchine d'assedio degli Inglesi
dall'altra parte della città e del fiume per espugnarli allo
stesso modo.
E con grande alacrità e coraggio, coloro cui poco prima il nome
di Inglesi incuteva timore tanto che non solo non osavano attaccare
il nemico ma neanche perlopiù aspettarne l'attacco, anche se
lo sopravanzavano di gran lunga per numero e per forza di armamento,
così – come accadesse di ammirare ciò che Mosè
canta nel suo cantico: “Come ne perseguirebbe uno mille, e ne metterebbero
in fuga due diecimila?” [4]
– così allora [quei soldati Francesi], sotto la guida e le insegne
militari della pulzella Giovanna attaccarono e travolsero le fortificazioni
degli Inglesi in maniera tale che sembrò che un'opera così
difficile e magnifica fosse attuata quasi senza sforzo contro nemici
così potenti.
Espugnate così due o tre di queste cittadelle fortificate, battuti
e gettato scompiglio tra i i nemici, quelli che restavano nelle altre
decisero di mettersi in salvo con la fuga. D'altra parte, devastati
gli accampamenti degli Inglesi, le fortificazioni o le cittadelle che
essi avevano costruito di legno o di pietra quasi come piazzeforti o
castelli, vennero tutte bruciate e così la città, fiaccata
e colpita dalla lunga inedia, con il consenso e la misericordia divina
venne liberata dai pericoli e dalle tribolazioni sotto il comando della
suddetta Giovanna [5].
Quanto al resto degli Inglesi, si dispersero in diversi luoghi e città.
E a tal punto il nome e la fama della pulzella, che allora erano celebrati
per tutta la Francia sulla bocca di tutti, li riempivano di terrore
che nessuno sperava di potersi difendere ma ciascuno riteneva di potersi
salvare soltanto fuggendo. Thomas Basin, Storia di Carlo VII, II, 11. [1] Giovanna d'Arco.
[2] La città è Orléans,
ormai da tempo assediata dagli Inglesi.
[3] L'episodio data al 7 maggio
1429.
[4] Deuteronomio, 32, 30.
[5] La liberazione avvenne l'8 maggio 1429. (D) Ancora, ovunque ella
[1] fosse,
fece uccidere uomini e donne, tanto in battaglia, che con intenzione
di vendetta, difatti, per quanto potere avesse, ella faceva morire senza
pietà chi non obbediva agli ordini da lei emanati; e diceva e
sosteneva di non fare nulla che non le fosse ordinato da Dio per il
tramite del santo arcangelo Michele, di santa Caterina, santa Margherita
[…] che le avevano ordinato e le ordinavano tutte le cose che
faceva. Tali falsi errori ed ancora peggiori aveva in quantità
donna Giovanna, e questi le furono tutti contestati davanti a tutto
il popolo. Di ciò essi ebbero grande orrore, quando sentirono
raccontare i grandi errori, che ella aveva avuto contro la nostra fede
e in cui perseverava, perché, malgrado le fossero dimostrati
i suoi grandi errori e malefici, essa non se ne spauriva né vergognava;
anzi rispondeva arditamente agli articoli che le venivano proposti in
sua presenza, come colei che era tutta piena del nemico dell'inferno.
E bene ciò fu evidente, perché essa vedeva tutti i dotti
dell'università di Parigi che la pregavano così umilmente
che si pentisse e si ritrattasse da questo malvagio errore, e che tutto
le sarebbe perdonato mercé penitenza oppure, in caso contrario,
che sarebbe arsa davanti a tutto il popolo e la sua anima dannata in
fondo all'inferno. E le furono mostrati i preparativi ed il luogo, ove
il fuoco doveva essere fatto, per arderla ben presto, se non ritrattava.
Quando vide che ciò era certo, chiese grazia e ritrattò
verbalmente, e le fu tolto il suo vestito [maschile], e fu rivestita
in abito da donna. Ma appena si vide in tale stato, ricominciò
il proprio errore come prima, chiedendo il suo abito da uomo. E subito
fu condannata a morire e fu legata ad un palo che stava sul patibolo,
il quale era fatto di pietra da calce ed il fuoco al di sotto: e là
fu presto estinta ed il suo vestito tutto bruciato. E poi fu tirato
indietro il fuoco e fu vista da tutto il popolo nuda […], per
togliere i dubbi dei popolo. E quando l'ebbero vista abbastanza a loro
grado, tutta morta, legata al palo, il carnefice rimise il fuoco grande
sulla povera carogna, che presto fu tutta bruciata e le carni e l'ossa
furono ridotte in genere. Là ed altrove v'erano parecchi che
dicevano che era morta martire e per il suo legittimo signore [2];
altri dicevano di no e che male aveva fatto chi l'aveva difesa tanto
tempo. Così diceva il popolo; ma qualunque bene o male abbia
fatto, fu arsa in quel giorno. Diario di un borghese di Parigi sotto il regno di Carlo VII, pp.
264-265. [1] Giovanna d'Arco.
[2] Carlo VII. (E) Riflettendo dunque preoccupato
sulle possibilità della pace con cui egli pensava di poter soffocare
i feroci risentimenti e gli odi selvaggi che da così lungo tempo
dominavano Francesi e Borgognoni, al punto che quasi tutte le forze
del regno ne erano diminuite e quasi perdute avendo condotto alla rovina
e alla desolazione pressoché completa, il suddetto duca di Bourbon,
che pensava anche alla propria tranquillità e a quella dei suoi
domini, che avrebbe potuto difendere solo con grande fatica contro la
potenza borgognona, persuase il re di Francia ad impegnarsi, per suo
maggior profitto e per quello del suo regno a approntare, per quanto
fosse tardi, qualche rimedio per la pace del regno ovunque devastato.
Furono quindi fissati e accettati il giorno e il luogo, Arras, dove
dovevano riunirsi per trattare insieme della pace i delegati del re,
quelli degli Inglesi e quelli del duca di Borgogna.
Nel giorno e luogo fissati si riunirono i delegati di Carlo, re di Francia,
il suddetto duca di Bourbon, i conti di Dunois e di Vendôme e molti
altri grandi personaggi sia ecclesiastici che laici, con pieni poteri
di trattare, accordarsi e stabilire patti con ciascuna delle parti,
sia Inglesi che Borgognoni. Si presentarono in questo luogo anche molti
principi e prelati del regno d'Inghilterra, incaricati di salvaguardare
e difendere al meglio possibile i diritti che rivendicavano sul regno
di Francia, così come i loro interessi. Filippo, duca di Borgogna
vi fu presente di persona, con un seguito sfarzoso di prelati, principi,
personaggi nobili e potenti, che con le liberalità, le spese,
il lusso, rivelavano la potenza e la gloria di un principe magnifico.
Assisterono anche a questa assemblea persone reverendissime e illustrissime,
dotate di sapere e di virtù insigni, il cardinale della Santa
Croce [1],
dell'ordine e osservanza della Certosa, legato del seggio apostolico
(di cui il papa Eugenio IV era allora il capo), e il cardinale di Cipro
[2], così
come normalmente lo chiamavano, inviato dal santo sinodo generale, allora
riunito a Bâle.
La santa chiesa romana universale deplorava in effetti, a buon diritto,
come una madre pia, la sfortuna e desolazione di questo cristianissimo
regno, un tempo così nobile e potente, e di un tale popolo cristiano,
che nel passato, più di tutti gli altri, era stato abitualmente
difesa e riparo per la cristianità intera contro i nemici della
religione cristiana. Così mettendo in pratica ciò che
secondo ragione esigeva il suo ufficio, essa inviò i suddetti
reverendissimi padri a concludere e sanzionare e confermare una così
grande opera, dalla quale avrebbe dovuto derivare una grande consolazione
e profitto per l'intera cristianità. Essi dovevano vantare le
benemerenze della pace alle parti presenti e, nel caso in cui ciò
fosse stato necessario per la salvezza dell'intero mondo cristiano e
per la chiesa di Dio, ricorrere senza riserve alle censure spirituali,
al fine di costringerli; non trascurando nulla di ciò che fosse
sembrato loro poter essere utile a un obiettivo così necessario
e profittevole; superare infine, per quanto gli avvenimenti lo reclamassero
e lo imponessero, gli ostacoli che potevano impedire la conclusione
di questa pace.
Le parti dunque si riunirono e durante molti giorni scambiarono tranquillamente
tra di loro molte domande, proposizioni, affermazioni, allegati e pareri.
Ma il duca di Borgogna era condizionato nel raggiungere un accordo con
il re di Francia dal solenne giuramento del trattato restrittivo che
aveva concluso con il re d'Inghilterra se non fosse stato soddisfatto
anche il suo alleato, e indirizzò tutte le sue attenzioni e i
suoi sforzi a servire da conciliatore dopo aver distrutto e abbattuto
il muro di odio inveterato che non soltanto lo separava dal re di Francia,
ma si interponeva tra i due re e i loro regni, pensando bene così
di riaffermare e consolidare la sua propria pace.
Questo sforzo non diede frutti che dopo molti giorni, dato che gli Inglesi
domandavano al regno di Francia così tanti e grandi sacrifici
e portavano nelle loro rivendicazioni uno spirito di ostinazione e di
perseveranza tale che si disperava di ritrovare una base di riavvicinamento
tra i re e i regni. L'illustre duca di Borgogna era consapevole di questa
cattiva volontà e del fatto che molte offerte perfettamente ragionevoli
fatte dai Francesi agli Inglesi per amore della pace venivano rigettate
e rifiutate con disprezzo da questi ultimi, ma tutti dicevano di aver
fatto tutto ciò che dipendeva da loro per arrivare alla pace
e alla concordia. Infine, su consiglio e seguendo l'autorità
dei reverendissimi legati egli ottenne per se stesso, i suoi domini
e i suoi sudditi, il beneficio della pace con il re di Francia. Le condizioni
offerte da questi erano in effetti tali e così oneste che rifiutarle
avrebbe significato passare giustamente agli occhi di tutti come contrario
non soltanto alla giustizia, ma anche all'umanità. Ciò
nonostante, prima di firmare alcunché, egli ricevette la dispensa
dei reverendissimi padri legati, per l'autorità del seggio apostolico
e del sinodo generale della chiesa, riguardo alle clausole e giuramenti
che lo legavano al re di Inghilterra. Fatto ciò, il trattato
fu concluso, confermato con giuramento, sanzionato e corroborato dall'autorità
dei detti legati. Quanto agli ambasciatori inglesi, essi se ne tornarono
senza aver ottenuto niente, mantenendo il loro risentimento e la loro
inimicizia nei confronti dei Francesi, e al tempo stesso animati da
un nuovo odio contro i Borgognoni, a causa di questo trattato. Thomas Basin, Storia di Carlo VII, II, 21. [1] Nicola Albergati, vescovo
di Bologna.
[2] Ugo di Lusignano, vescovo di
Palestrina, figlio di Giacomo re di Cipro.
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