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Fonti

Antologia delle fonti bassomedievali

a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni

© 2002 – Stefano Gasparri per “Reti Medievali”


XVIII
L'Europa alla fine del Medio Evo

7. La decadenza dell'Impero / 1 La realtà Germanica
(A) Federico II, Costituzioni, CA 2, n. 171 (1232).
(B) Carlo IV, Bolla d'Oro (1348).
(C) Benessio di Weitmii, Cronaca, IV.
(D) Atti delle Diete imperiali tedesche, XI, pp. 503-505 (1434).
(E) Castell, Le Carte federali, pp. 35-40.
(F) Giovanni di Winterthun, Cronaca.

Dopo la morte di Federico II nel 1250, il crollo della dinastia sveva portò con sé quello stesso dell'autorità imperiale, che sprofondò nel “grande interregno”. Già Federico, del resto, per avere mano libera nella sua politica italiana aveva emesso nel maggio del 1232 la Costitutio in favorem principum, con la quale sanzionava lo svuotamento di fatto del potere centrale in Germania (A).
Nel XIV secolo l'impero, che usciva dall'interregno, nonostante i persistenti contrasti con il papato per la questione italiana [cfr. par. 8], si connotò sempre più come un corpo politico marcatamente germanico. In questo quadro si inserisce la Bolla d'Oro di Carlo IV di Boemia (B), che definiva la composizione del collegio elettorale imperiale, da allora in poi formato da tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia) e quattro laici (il re di Boemia, il conte del Palatinato, il duca di Sassonia e il marchese di Brandeburgo). Con Carlo il centro di gravità imperiale si sposta verso est, ed ecco quindi l'ascesa di Praga a grande centro culturale tramite la fondazione dell'università (C).
In un impero dove il potere centrale era molto debole, uno dei pochi punti di riferimento comuni era la dieta imperiale; nel XV secolo il secondo figlio di Carlo ad occupare il trono, Sigismondo (re d'Ungheria oltre che imperatore), tentò, invano, di far approvare da essa una riforma dell'impero – che doveva marciare di pari passo con la riforma della chiesa [cfr. par.9] – tendente a rivalutare l'autorità deI sovrano, come si vede dalle proposte da lui presentate nel 1434, che insistono con forza sulla necessità di obbedire alle sentenze imperiali e di garantire la pace interna; ma anche in questo testo sono evidenti le concessioni fatte al potere dei principi territoriali (D).
Fra le dinastie che nel basso medio evo si disputarono la corona imperiale, la più vitale fu quella degli Asburgo I per i suoi esiti successivi, [cfr. par. 6]; all'interno dei suoi domini essa dovette comunque scontare l'indipendenza dei cantoni svizzeri – dal patto del 1291 tra i tre cantoni originari alla battaglia del Morgarten del 1315 (E, F) –, e ciò spostò sempre più gli interessi della dinastia verso le terre slave e ungheresi.


(A) In nome della santa e indivisidua [non leggibile la correzione] Trinità. Federico II, con il favore della divina clemenza imperatore romano sempre augusto, re di Gerusalemme e di Sicilia.
L'eccelsa sede del nostro impero è esaltata, e con ogni giustizia e pace sono disposti i principali mezzi di governo del nostro impero, quando provvediamo con la dovuta sollecitudine ai diritti dei nostri principi e magnati, sui quali, come il capo si regge su membra onorevoli, così il nostro impero si sostiene e fiorisce […].
1. Pertanto concediamo e doniamo con conferma perpetua ciò che il nostro stesso figlio si sa aver concesso [1], stabilendo che nessun nuovo castello o città sia costruito nelle terre delle chiese, magari a causa di un'avvocazia [2], da parte nostra o da qualcun altro sotto un qualunque pretesto.
2. Che nuovi tribunali [3] non possano in alcun modo impedire gli antichi.

6. Ogni principe goda senza contrasti delle libertà, giurisdizioni, contee, centene di suia libera [proprietà] o a lui infeudate, secondo la consuetudine riconosciuta della sua terra.

12. Gli uomini dipendenti dei principi, dei nobili e dei ministeriali [4] delle chiese non siano accolti nelle nostre città.
13. Le proprietà e i feudi di principi, nobili, ministeriali e chiese, occupati nelle nostre città, siano restituiti e non più a lungo occupati.
14. Noi o i nostri uomini non impediremo o sopporteremo che sia danneggiata l'azione dei principi nelle loro terre, che tengono in feudo da noi.

16. Nessun uomo pericoloso per la regione o condannato da un giudice o proscritto sia accolto consapevolmente nelle nostre città; quelli che sono stati accolti, [la cui natura] sia dimostrata, vengano cacciati.
17. Non faremo coniare nessuna nuova moneta nella terra di un principe, a causa della quale la moneta [emessa] da quel medesimo principe venga danneggiata.
18. Le nostre città non estendano la loro giurisdizione oltre l'ambito della città, a meno che a noi appartenga una speciale giurisdizione [su quel territorio].

20. Nessuno riceva in pegno beni, dei quali qualcuno sia stato infeuato, senza il consenso e l'autorizzazione del signore principale [del feudo].
2I. Nessuno sia costretto a lavori cittadini, se non e' tenuto [a farli] per legge.
22. Gli uomini residenti nelle nostre città paghino i consueti e dovuti diritti sui beni fuori della città ai loro signori e avvocati, né siano molestati con esazioni indebite.
23. Gli uomini dipendenti [da un signore], sia da un avvocato sia da un feudatario, [incomprensibile la correzione] che siano in viaggio per andare dai loro signori, non siano costretti a rimanere da parte dei nostri ufficiali.

Federico II, Costituzioni, CA 2, n. 171 (1232).

[1] Enrico VII.
[2] Sfruttando cioè in modo indebito i poteri insiti nella carica di advocatus.
[3] Nova fora.
[4] Nel mondo tedesco i ministeriales, che pure erano persone di condizione non libera, al seguito di potenti laici o ecclesiastici (o addirittura dello stesso imperatore) potevano arrivare a ricoprire ruoli politici e militari anche molto importanti.


(B) Quando i detti elettori [1] o i loro rappresentanti saranno entrati nella città di Francoforte, immediatamente, il giorno dopo, la mattina all'alba, essi faranno cantare, nella chiesa di S. Bartolomeo apostolo, alla presenza di tutti loro, la messa dello Spirito Santo perché esso illumini i loro cuori e le loro menti per cui, da esso ispirati, riescano ad eleggere un uomo giusto, buono e adatto come re dei Romani e futuro Cesare, per la salvezza del popolo cristiano. Finita la messa, tutti gli elettori o i loro rappresentanti si accosteranno all'altare sul quale è stata celebrata la messa e lì i principi elettori ecclesiastici con il Vangelo di S. Giovanni “In principio erat verbum” [incomprensibile la nota] aperto davanti incroceranno le mani sul petto in segno di devozione; poi i principi elettori laici porranno le mani sul Vangelo; tutti dovranno essere completamente disarmati assieme a tutto il loro seguito. L'arcivescovo di Magonza darà loro la formula del giuramento ed assieme a lui tutti gli elettori o i rappresentanti degli elettori assenti presteranno giuramento in lingua volgare secondo la seguente formula: “lo arcivescovo di Magonza, arcicancelliere dell'impero romano per la Germania e principe elettore giuro sul santo Vangelo di Dio posto qui davanti a me di voler eleggere, nei limiti della mia prudenza e intelligenza, con l'aiuto di Dio, il capo temporale del popolo cristiano cioè il re dei Romani, destinato a diventare Cesare, in quanto adatto a tale compito, per quanto la mia prudenza e il mio intelletto mi ispireranno e in base a questa promessa; e darò il mio voto per questa elezione senza patti, ricompense o sussidi o qualsiasi altro nome abbia tale genere di lavori. Così mi assistano Dio e tutti i santi”.
Poi, dopo che gli elettori o i loro rappresentanti avranno prestato giuramento nella forma e nel modo suddetto, procederanno all'elezione – né potranno lasciare la città di Francoforte prima che a maggioranza non sia stato eletto il capo temporale del mondo, cioè del popolo cristiano, il re dei Romani, destinato a diventare Cesare. Se non saranno riusciti a procedere all'elezione entro trenta giorni dal giuramento, allora, trascorso il trentesimo giorno, essi non potranno nutrirsi che di pane e d'acqua, né potranno lasciare la città finché essi tutti o la maggioranza non avranno eletto il capo e la guida dei fedeli secondo le modalità sopra esposte.

Carlo IV, Bolla d'Oro (1348).

[1] Cfr. l'introduzione al paragrafo.


(C) Il re desiderava che in ogni cosa l'università di Praga fosse organizzata e regolata sul modello e a somiglianza dell'università di Parigi, dove, durante la sua giovinezza, egli stesso aveva soggiornato e studiato […]. Perché tutte queste disposizioni rimanessero inviolabili in eterno, il signore re dei Romani e re di Boemia, sostenitore e fondatore di questa università, confermò con una sua bolla d'oro tutti i privilegi e le libertà concesse agli studenti. Così fu fatta nella città di Praga un'università che non ebbe mai una pari fra tutte le università tedesche. Ad essa si veniva da paesi stranieri, e cioè dall'Inghilterra, la Francia, la Lombardia, l'Ungheria, la Polonia e da tutti i paesi vicini. C'erano figli di nobili e prelati di tutte le chiese. E la città di Praga divenne, grazie a questa fondazione, famosa e celebre nei lontani paesi stranieri, e il costo della vita si elevò un po' a causa dell'affluenza e del numero considerevole di studenti stranieri. Vedendo che questa università era in progresso notevole e soddisfacente, il re Carlo assegnò agli studenti le case degli Ebrei, e installò all'interno di queste il collegio dei maestri, incaricati ogni giorno di fare lezioni e dispute pubbliche. Egli creò per loro una biblioteca e donò in abbondanza i libri necessari allo studio; inoltre, in più rispetto alle entrate extra che ricevono dagli studenti, questi maestri hanno la loro agiatezza assicurata da emolumenti annuali.

Benessio di Weitmii, Cronaca, IV.


(D) 1. Che nelle terre di Germania sia stabilito un ordine tale, che la giustizia renda il suo diritto a ciascuno e che le guerre e le ostilità intraprese senza motivo siano abolite.
2. Che i banni imperiali siano rispettati ed obbediti.
3. Che le guerre e i dissensi esistenti attualmente nelle terre tedesche cessino, principalmente nella diocesi di Treviri e nelle terre di Gheldria, Juliers, Danimarca e Magdeburgo.

7. Che i principi elettori inviino i loro onorevoli ambasciatori al concilio di Basilea [1] presso quelli di nostro signore l'imperatore, perché siano con loro e lavorino in comune per impedire ai tribunali della chiesa di occuparsi di questioni temporali o di litigi fra laici e portarli a lasciare ai giudici laici la cura di giudicare le questioni temporali, come conviene.
8. Che la giustizia della chiesa venga in aiuto alla spada temporale, in modo tale che chiunque sarà stato messo al bando dall'impero per un anno e un giorno sia scomunicato dalla giustizia della chiesa, e che ugualmente chiunque sarà stato scomunicato per un anno e un giorno sia bandito dall'impero da un imperatore romano o da un re, cosicché le due spade si assistano e si aiutino vicendevolmente.
9. Che il concilio decida di non autorizzare i papi a disporre a loro piacimento dei vescovati nelle terre tedesche, specialmente di quelli appartenenti ai principi elettori [2].
10. Di avvertire il concilio di fare in modo che il papa sia aiutato.
11. Avvisare del denaro imposto [per la lotta] contro gli Ussiti [3], per il quale è necessario designare degli uomini per conoscere le dispense.
12. Che dei rimedi siano trovati contro le molteplici forme di usura elevata praticata dai cristiani nelle terre tedesche.
13. È necessario occuparsi delle monete, che di giorno in giorno sono indebolite.
14. Che nei tribunali laici non si facciano testimoniare che gli scabini, perché altrimenti numerosi processi criminali restano senza giudizio.
15. Che nessuno accordi dei salvacondotti ai ladri, agli assassini e ai rapinatori delle strade e delle chiese, se non per la concordia e l'unione delle parti e per il rispetto di accordi intercorsi tra esse, sempre che la parte avversa lo sappia e vi consenta, sotto pena di perdere feudo e libertà.

Atti delle Diete imperiali tedesche, XI, pp. 503-505 (1434).

[1] Apertosi nel luglio 1431 [cfr. par. 101].
[2] Su questi aspetti finanziari dell'organizzazione ecclesiastica, cfr. par. 8.
[3] Cfr. par. 10.


(E) Nel nome del Signore, amen. È compiere un'azione onorevole e proficua per il bene pubblico confermare, secondo le Norme consacrate, le convenzioni aventi per oggetto la sicurezza e la pace. Che ciascuno sappia dunque che, considerando la malignità dei tempi e per meglio difendere e mantenere nella loro integrità le loro persone e i loro beni, gli uomini della valle di Uri, la comunità della valle di Schwyz e quella degli uomini della valle inferiore di Unterwalden si sono impegnati, in completa buona fede, sulle loro persone e i loro beni, ad assistersi vicendevolmente, ad aiutarsi, consigliarsi, a mobilitare tutti i loro poteri e i loro sforzi, nelle loro valli e al di fuori [di esse], contro chiunque che, nutrendo delle cattive intenzioni verso le loro persone e i loro beni, commetterà verso di loro o verso uno qualunque di loro un atto di violenza, una vessazione o un'ingiustizia, e ciascuna delle comunità ha promesso all'altra di accorrere in suo aiuto in tutte le occasioni nelle quali ci sarà bisogno, così come di opporsi, a sue proprie spese, se è necessario, agli attacchi di uomini malvagi e di prendere vendetta dei loro misfatti; prestando effettivamente giuramento e rinnovando [così], da parte dei presenti, il tenore dell'atto dell'antica alleanza corroborata da un giuramento, e questo con la riserva che ciascuno, secondo la condizione della sua persona, sia tenuto, come si addice, ad essere sottomesso al suo signore e a servirlo. Dopo una deliberazione in comune e un accordo unanime, noi abbiamo promesso, stabilito e deciso di non accogliere e di non accettare in alcun modo nelle valli già nominate un giudice che abbia acquistato la sua carica con il denaro o in qualche altro modo, o che non sia un abitante delle nostre valli o un membro delle nostre comunità. […]
Le decisioni scritte qua sopra, prese nell'interesse e per il profitto di tutti, dovranno, se Dio lo permette, durare in eterno; a testimonianza di ciò il presente atto, redatto a richiesta dei prenominati [abitanti], è stato convalidato con l'apposizione dei sigilli delle soprannominate tre comunità e valli. Fatto nell'anno del Signore 1291, all'inizio del mese di agosto.

Castell, Le Carte federali, pp. 35-40.


(F) Nell'anno del Signore 1315 una popolazione contadina che abitava le valli chiamate Schwytz, protette da ogni parte da montagne quasi inaccessibili, confidando nel vantaggio della loro disposizione geografica, si sottrasse all'obbedienza, ai tributi, alle prestazioni consuete e ai servizi dovuti al duca Leopoldo [1] ed organizzò la resistenza. Il duca non volle lasciar correre e, adirato, raccolse prima del giorno di S. Martino un esercito nei paesi a lui sottomessi e in quelli confinanti che erano tenuti ad aiutarlo: 20.000 uomini, si dice, ben equipaggiati per la guerra con il proposito di sconfiggere, saccheggiare e soggiogare quei montanari che si erano ribellati. In questo esercito il duca Leopoldo aveva una truppa di uomini robusti, scelti, addestrati e risoluti a combattere […]. Venuti a conoscere questi progetti e temendo per i punti più vulnerabili del loro territorio che potevano offrire un facile accesso, gli Svizzeri costruirono delle fortificazioni con mura, fossati e con tutte le altre opere che poterono apprestare e con preghiere, digiuni, processioni e litanie si affidarono a Dio; essi occuparono innanzitutto le cime, a tutti venne dato l'ordine di difendere gli accessi dei monti che si potevano varcare facilmente e di disporre dei posti di guardia su tutte le strade che conducevano al loro territorio nei punti dove i passaggi erano più stretti […]. Gli Svizzeri, usando le armi che sono loro proprie, si disposero nei punti che controllavano i valichi, si avviarono lungo le piste delle loro montagne e si tennero pronti all'agguato giorno e notte. Il giorno di S. Othmar, il duca Leopoldo e il suo esercito si proposero di invadere il paese passando tra una montagna [2] e un lago chiamato Egrersew […]. Prevedendo che sarebbero stati attaccati in quel punto e conoscendo gli impedimenti e gli ostacoli che i loro nemici avrebbero incontrato per la difficoltà di accesso ai loro territori, risoluti e prudenti, gli Svizzeri, presi dall'amore per la loro terra, legatisi assieme con delle corde, scesero dai loro nascondigli, li sorpresero come pesci nelle reti e li massacrarono senza che potessero opporre alcuna resistenza. Poiché gli Svizzeri, secondo il loro uso, erano tutti appiedati ed equipaggiati con corde e chiodi poterono facilmente avanzare e arrampicarsi sulle montagne mentre i nemici e i loro cavalli erano appena capaci di muovere un passo. Gli Svizzeri avevano nelle mani uno strumento di morte chiamato in lingua volgare “alabarda” che produceva un effetto terribile perché fendeva le migliori armature come un rasoio e le riduceva a pezzi. Non fu una battaglia, ma piuttosto, data la situazione dell'esercito di Leopoldo, una specie di olocausto di un gregge condotto al macello. Nessuno fu risparmiato e non ci si preoccupò di fare dei prigionieri, ma tutti indistintamente furono colpiti a morte; coloro che in verità non furono uccisi annegarono nel lago avendo sperato di sottrarsi alle mani del nemico attraversando a nuoto.
Altri fanti ancora, avendo visto gli Svizzeri mettere a morte così crudelmente i più valorosi combattenti, presi dal terrore di una morte così orrenda, persero la testa e si gettarono nel lago, preferendo annegare nelle acque profonde che cadere nelle mani di nemici così terribili. Si calcola che nel massacro caddero 1.500 uomini senza contare quelli che erano annegati nel lago.

Giovanni di Winterthur, Cronaca.

[1] Leopoldo d'Asburgo.
[2] Il massiccio montuoso di Morgarten.

 

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