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Fonti

L'ascesa della borghesia nell'Italia comunale

a cura di Anna Maria Nada Patrone

© 1974 – Anna Maria Nada Patrone


Sezione IV – La cultura borghese

Introduzione

Gli uomini d'affari avevano bisogno di saper leggere e scrivere, di saper calcolare, di conoscere e parlare lingue straniere, in particolare il francese, che era la lingua più diffusa, dall'Occidente all'Oriente latino.

Queste esigenze non potevano essere assolutamente soddisfatte dalle scuole religiose, il cui insegnamento aveva scopi e finalità completamente diverse [1], sicché sin dall'inizio del secolo XIII la borghesia cominciò a creare scuole laiche pubbliche, dove fosse insegnato ai suoi figli ciò che sarebbe stato loro necessario negli affari, cioè per prepararli sin dai loro primi anni alla futura carriera mercantile o amministrativa.

È fondamentale la constatazione che non solo i figli dei mercanti di Firenze, cioè della più grande città mercantile dell'Italia comunale, che nel 1304 andavano a «botteghuzza» – come viene felicemente e propriamente denominata, per una mentalità mercantile, la scuola primaria da Giovanni di Pagolo Morelli, uomo di affari fiorentino – dovessero apprendervi a leggere gli istrumenta, cioè gli atti notarili, che sarebbero divenuti il loro pane quotidiano nel loro futuro di lavoro; anche gli studenti di un piccolo comune piemontese, quale Bra, già nel secolo XIV, dietro loro esplicita richiesta, potevano essere istruiti dal maestro comunale nella Rolandina, cioè nel trattato Ars notarie del famoso giurista bolognese Rolando de' Passeggeri.

Lo scopo di queste scuole era quindi ovunque, nei grandi e nei piccoli centri, essenzialmente tecnico, idoneo per futuri uomini d'affari, a cui non si richiedeva certamente una preparazione classico-religiosa, quale veniva impartita dalle scuole religiose, ma bensì conoscenze di diritto, di calcolo, oltre naturalmente all'alfabetizzazione.

Era infatti il commercio il fondamento essenziale su cui il ceto borghese poteva vivere e prosperare: per questo motivo fu la stessa amministrazione dei comuni, ormai strumentalizzata dal nuovo ceto, a preoccuparsi dall'inizio del secolo XIII di creare scuole pubbliche, accanto a quelle private, laiche ed ecclesiastiche, di cercare i maestri, di assicurare una continuità all'azione didattica, di controllare materie e criteri di insegnamento, di stabilire il salario del maestro, a carico interamente del comune o, più frequentemente, anche delle famiglie degli scolari, di precisare i giorni ed i periodi di vacanza. L'istruzione dei fanciulli (anche se non è possibile stabilire il numero di quelli realmente scolarizzati) era infatti un servizio pubblico, ufficialmente a beneficio della collettività, in realtà a vantaggio unicamente della borghesia. Come già le scuole religiose, anche la scuola comunale è infatti una scuola classista, frequentata solo dai figli della media e della grande borghesia, anche se verso la fine del secolo XIV e gli inizi del secolo XV, le classi primarie vennero aperte anche a più ampi strati della popolazione, secondo un preciso piano di dominio politico-economico-intellettuale da parte della borghesia. Le tasse di frequenza sono infatti in costante aumento per i donatisti ed i latinanti, cioè per le classi superiori, mentre subiscono una netta diminuzione, quando non vengono addirittura annullate per gli scolari de tabula e de quaterno (cioè per le classi inferiori del ciclo primario, dove si imparava soltanto a leggere ed a scrivere). Questa presa di coscienza della borghesia che una scuola da lei gestita e programmata poteva essere un utile strumento di potere politico coincide con il periodo delle rivendicazioni popolari, delle rivolte urbane e rurali, cioè con un momento di crisi del potere borghese, che – nel desiderio di rimanere l'unico ceto dirigente al potere – cercò di influenzare la coscienza popolare attraverso i canali portanti dell'istruzione.

La didattica in queste scuole borghesi, per quel che riguarda l'alfabetizzazione e la cultura tradizionale, rimase sempre quella delle scuole religiose: vi si insegnava a leggere e a scrivere, a tradurre ed a comporre in latino su testi tradizionali quali i Distica di Catone (un'opera composta nel IX secolo e formata da brevi, sentenze moraleggianti d'ispirazione classica e cristiana), il Theodolus (ecloga del secolo X), il Facetus (poema di genere cortese attribuito a Jean de Garlande), il Liber Aesopi (raccolta di favole del secolo XII), il Grecismus (trattato di retorica in versi della fine del secolo XII). Rimanevano poi sempre validi gli antichi testi scolastici, che comprendevano in particolare autori classici: Cicerone, Grazio, Ovidio, Giovenale, Terenzio, Svetonio, Seneca, Tito Livio, Quintiliano. In Italia – e specialmente a Firenze dalla fine del secolo XIII, – appare spesso fra i testi scolastici anche la Divina Commedia: segno evidente che il volgare era tenuto in considerazione e si cercava di svilupparne la corretta conoscenza, in quanto il volgare era la lingua correntemente usata dagli operatori economici (come dimostra il fatto che il più antico testo in lingua italiana è un frammento di conto di un uomo d'affari senese del 1211).

L'insegnamento di discipline tecniche era particolarmente curato, anche se in genere veniva impartito con metodi antichi. Le prime nozioni di calcolo, che servivano per le esigenze quotidiane, già erano insegnate nel ciclo superiore delle scuole di livello elementare. Nelle classi secondarie, – e talora in veri e propri corsi speciali (cfr. lettura 4) – venivano poi insegnate l'aritmetica e la contabilità: gli alunni imparavano così a servirsi dell'abbaco, cioè di una scacchiera i cui settori avevano un valore convenzionale (unità, decine, centinaia) e sui quali venivano collocati dei gettoni di cui si faceva poi il totale. Accanto a queste nozioni di base (che servono a smentire la tesi del Sombart, secondo cui il mercante italiano sapeva a mala pena fare i suoi conti sulle dita), gli allievi imparavano anche elementi di geometria e di algoritmia e leggevano libri di mercatura (come risulta da un ordinato del consiglio generale di Siena del 1386).

Grande attenzione veniva usata dai comuni nella scelta degli insegnanti (anche se i risultati di tali scelte, a quanto risulta dai documenti che ci sono pervenuti, non erano sempre soddisfacenti); spesso le famiglie non esitavano a trasferire i figli da una scuola all'altra dove la presenza di insegnanti più famosi o almeno più qualificati offrisse più sicure garanzie per la buona riuscita degli allievi (cfr. lettura 3).

Chiaro indice della nuova mentalità che si andò in quel periodo diffondendo nell'ambiente scolastico è il fatto che i trattatisti di problemi pedagogici assunsero spesso atteggiamenti critici nei confronti della severità e dei rigori applicati nelle scuole di tipo tradizionale e si fecero assertori di sistemi educativi che permettessero un più libero sviluppo della personalità del fanciullo.

Terminato il ciclo delle scuole primarie e secondarie, gli adolescenti potevano fare due scelte. Se i parenti lo desideravano, se le possibilità finanziarie lo permettevano; e se le capacità intellettuali non mancavano, potevano intraprendere gli studi di diritto a Bologna o in qualche altro studio, sia per aprirsi la strada alla carriera del giure (avvocati, notai, magistrati), sia per maggiormente addottrinarsi nella conoscenza di quelle leggi, nell'ambito delle quali avrebbero poi dovuto operare diventando uomini d'affari. In caso contrario, – ed era il più frequente, – i giovani, appena usciti dalla scuola, entravano come apprendisti in un fondaco, una bottega, un banco, spesso anche in una filiale lontana dalla città natìa, dove acquistavano pratica nell'arte di amministrare e condurre un'azienda di tipo commerciale (cfr. lettura 3). Durante il periodo di apprendistato comunque, – come esplicitamente consigliavano i moralisti e pedagogisti dell'epoca, – non abbandonavano tuttavia del tutto la «pratica degli antichi autori», per «migliorare il proprio spirito» e per trarne suggerimenti sul modo di comportarsi di fronte alle varie esigenze della vita quotidiana. Giudicando anzi dai pur scarsi inventari che ci sono pervenuti di biblioteche private «borghesi» dell'epoca, ne potremmo dedurre che nemmeno negli anni della maturità i grandi mercanti abbandonavano completamente le letture, aventi per scopo il miglioramento delle loro cognizioni, l'elevazione della loro cultura e il conforto dello spirito. Accanto a messali, a esemplari del Vecchio e del Nuovo Testamento, a testi di autori mistici e moraleggianti, a biografie di santi (la cui presenza per altro conferma quanto già s'è detto sulla fedeltà del borghese alle dottrine tradizionali della Chiesa), accanto a trattati di aritmetica, di algoritmia, a testi giuridici (la cui presenza si spiega col desiderio del borghese di aver a portata di mano gli strumenti bibliografici necessari per la sua attività) troviamo trattati di medicina e di astrologia, canzoni di gesta, novelle popolari, romanzi cavallereschi.

L'influsso di queste conoscenze e di queste letture è evidente nei libri di mercatura, che ci sono pervenuti, soprattutto per quanto riguarda gli operatori economici toscani. Questi libri non costituiscono soltanto una fonte preziosa per la conoscenza del volume di affari che essi trattavano. Essi dimostrano anche le loro notevoli conoscenze di ragioneria e le loro capacità di calcolo. Di solito infatti ben nove erano i registri usati dalle aziende di un certo livello: il Libro grande o Libro dell'Asse, in cui erano indicati tutti i debiti ed i crediti, il Libro segreto, che conteneva i dati sulla formazione della Compagnia e sul suo regolamento, il Libro dell'Entrata e dell'Uscita, il Libro delle Compere e delle Vendite, il Libro delle Possessioni, il Libro delle Recate, cioè delle spedizioni di merce, il Libro delle Spese minute, il Libro delle vendite al minuto e il Libro dei Lavoranti.

Questi libri inoltre, con le corrispondenze di questi uomini e le memorie che essi ci hanno tramandate, nelle quali non si parla solo d'affari, ma di vicende personali, familiari e cittadine, dimostrano come ormai la forma mentis, la visione della vita, la cultura di costoro fosse profondamente diversa e, in altre parole, più moderna, più umana ed umanistica di quella dei loro antenati.

Nota bibliografica sulla cultura borghese

H. PIRENNE, L'instruction du marchand au Moyen Age, in «Annales d'histoire économique et sociale», I (1929); Y. RENUOARD, Affaires et culture a Florence, in Il Quattrocento. Libera Cattedra di Storia della Civiltà fiorentina, Firenze, Sansoni, 1954; CH. BEC, Les marchands écrivains à Florence 1375-1434, Parigi, Mouton, 1967; H. BARON, The Crisis of the Early Italian Renaissance, University Press, Princeton, 1955. A . SAPORI, La cultura del mercante medievale italiano, in Studi di storia economica, cit., pp. 53-93; G. GETTO, Storia economica e storia letteraria, in «Letteratura italiana», VII (1956), pp. 438-450; E. GARIN, Medio Evo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari, Laterza, 1959; F. BORLANDI, La formazione culturale del mercante genovese nel Medio Evo, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», n.s. III, 2 (1963); AA.VV., La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi, Accademia Tudertina, 1972 ; C. FROVA, Istruzione ed educazione nel Medioevo, Torino, Loescher, 1973, oltre naturalmente alla bibliografia indicata per la sezione III.

[1] Cfr. C. FROVA, Istruzione ed educazione nel Medioevo, Loescher, Torino, 1973, pp. 56-61.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05