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Agricoltura e società nel Medioevo

di Giovanni Cherubini

© 1972-2006 – Giovanni Cherubini


3. Signori, contadini e borghesi

1. La grande proprietà alto-medievale

Il «problema della continuità», cioè di quanto di romano sia sopravvissuto in Europa alle invasioni germaniche e di quale effettiva entità sia stata la rottura da queste provocata, è al centro delle discussioni storiografiche. La tendenza prevalente, almeno in Italia, è attualmente quella di sottolineare questa continuità. Il discorso è valido soprattutto per le strutture del mondo rurale, delle quali sono universalmente note la lentezza a modificarsi e la greve capacità di resistenza. Il tardo impero consegnò al Medioevo una serie di grandi proprietà coltivate attraverso l’opera di schiavi («servi») o di coloni. La tendenza in tali grandi aziende era già quella di produrre per il consumo piuttosto che per la vendita. È questo un aspetto e insieme un effetto della crisi economica del mondo romano. Aspetto della crisi politica, dell’insicurezza ritornata dopo secoli di pax romana, è invece il fenomeno parallelo che vide molti liberi accomandarsi a un potente, a un «patrono», cioè a un grosso proprietario, per diventare suoi coloni e suoi clienti; che vide molte villae e grandi proprietà fortificarsi.

Sostituitasi nel dominio della grande proprietà l’aristocrazia germanica a quella romana — quali dimensioni abbia avuto questo trapasso è impossibile sapere — e diffusasi in tutto il continente la proprietà ecclesiastica, l’alto Medioevo vide rafforzarsi queste tendenze e insieme lentamente modificarsi le strutture esistenti. Il sistema classico di conduzione diretta per mezzo del lavoro degli schiavi, del resto già parzialmente in crisi nel tardo impero, declina sempre più e viene sostituito poco a poco da un «sistema misto», in cui una parte soltanto della proprietà (pars dominica, la reserve dei francesi) viene gestita in economia diretta. Per la sua coltivazione più che il lavoro dei servi domestici (prebendarii, mancipia) vengono utilizzate le giornate di lavoro dei coloni stabiliti sulle terre tributarie. Curtis italiana o villa gallo-romana, il sistema determinò lente modifiche anche nella condizione giuridica personale delle classi rurali, deprimendo la condizione dei liberi coloni e innalzando quella degli schiavi, con la tendenza in definitiva a farne un’unica classe di «semiliberi». Si stabiliscono, dunque, in questi primi secoli del Medioevo, «le forme di una società, di una economia e di un sistema politico che comunemente, anche se confusamente, si chiamano feudali». Detto questo bisogna aggiungere che queste non sembrano altro che «tendenze dominanti», che man mano che gli studi avanzano diventano sempre più difficili «da misurare e da definire» (P. J. Jones). I limiti del periodo in cui furono prevalenti rimangono perciò incerti e si può oscillare dal III, IV, V secolo al IX, o anche al X e XI.

Le dimensioni di alcuni di questi grandi complessi, che comprendevano una parte più o meno estesa di terra incolta, possono darci un’idea di come essi costituissero un elemento dominante delle campagne europee. All’inizio del IX secolo l’abbazia di Saint-Germain-des-Prés possedeva 32.748 ettari di terra, raggruppati in venticinque villae. L’abbazia di Nivelles, nel Brabante belga, ricevette in dotazione, quando fu fondata subito dopo il 640, 16.000 ettari. Quella di Saint-Bertin a Saint-Omer possedeva, intorno all’850, circa 10.120 ettari. L’abbazia inglese di Ely, nella seconda metà dell’XI secolo, era proprietaria di terre in 116 villaggi di sei diverse contee. Dal monastero dipendevano altre 1200 persone in altri 200 villaggi. I suoi greggi annoveravano 9000 pecore. Non tutte le proprietà monastiche erano naturalmente così estese. L’abbazia di Tavistock, nel Devonshire, possedeva nel 1066 circa 1200 ettari, scesi a meno di 800 vent’anni dopo, cifre però tutt’altro che disprezzabili. Sulle proprietà dell’aristocrazia laica, che non teneva archivi, sappiamo infinitamente di meno, «ma è quasi certo» che anch’essa possedeva vastissime proprietà disperse a volte in un estesissimo territorio. Se un grande arrivava a donare a una chiesa una villa di un migliaio di ettari, «è evidente che ne conservava molte altre per la sua famiglia e per sé» (G. Fourquin). Un grande proprietario veronese possedeva, nell’846, oltre ad altri beni minori, otto corti. Le proprietà erano distribuite su un territorio che andava «dalla bassa pianura veronese e mantovana alle colline moreniche del lago di Garda». Il proprietario risiedeva nella corte di Erbé, quasi al limite inferiore della zona, «e qui doveva essere il centro economico e direttivo, e forse il nucleo originario della proprietà». Se nella formazione di questo vasto patrimonio un criterio ci fu, questo deve essere rintracciato anche nel desiderio «di ottenere nel campo dei prodotti agricoli una certa completezza, in modo da contribuire all’autosufficienza della proprietà» (A. Castagnetti). E il criterio doveva essere valido sia per i grandi proprietari laici che per quelli ecclesiastici.

Non c’è alcun dubbio che, almeno all’inizio, i sovrani carolingi e, in Italia, quelli longobardi, fossero i proprietari più ricchi. Forse anche per questo le villae dei primi erano raggruppate in fisci. I cinque fisci il cui inventario dettagliato è stato conservato in uno dei Brevium exempla ad describendas res ecclesiasticas et fiscales [DOC. 3] devono aver costituito solo la dote di una figlia di Ludovico il Pio. Ciascuno pare comprendesse una grande villa con dipendenze molto più piccole. Uno misurava da 2800 a 2900 ettari, un altro 1867 ettari, altri due rispettivamente 1406 e 1855 ettari. Esclusi tuttavia i sovrani, non è improbabile che, per quanto la proprietà laica appaia in età carolingia complessivamente più estesa di quella ecclesiastica, chiese e monasteri fossero invece individualmente più ricchi. Il concilio di Aix-la-Chapelle, nell’816, ripartiva le chiese in tre categorie: quelle che possedevano 3000, 4000, 8000 mansi o più; quelle che ne avevano da 1000 a 2000; quelle che ne avevano da 200 a 300. Un capitolare del 779-780 parla invece di conti proprietari di 200-400 mansi, di vassalli che ne possedevano da 30 a 200. Cifre non certo da prendere alla lettera, ma comunque abbastanza significative nel loro complesso.

L’aspetto e il momento classico di quello che gli italiani chiamano il «regime curtense», i francesi il regime domanial, vengono comunemente identificati dagli studiosi nelle grandi villae delle regioni comprese tra la Loira e il Reno nell’età carolingia, per la quale, però, è bene aggiungere subito, disponiamo anche di una serie di documenti eccezionali, dai «polittici» al Capitulare de villis [DOCC. 2, 4], ai Brevium exempla. Non è escluso che la stessa importanza politica della zona del domain classique in questo periodo sia parzialmente riconducibile all’organizzazione e all’importanza delle sue grandi proprietà.

Difficile stabilire una media nel rapporto tra pars dominica e poderi tributari. Con maggior sicurezza si può affermare che le terre dominiche comprendevano una percentuale più alta di incolto. Nelle terre di Saint-Germain-des-Prés la pars dominica, boschi compresi, copriva un’estensione vicina a quella delle terre tributarie (rispettivamente ettari 16.020 e 16.728). La terra arabilis del dominico rappresentava invece solo un po’ più di un quarto dello spazio coltivato. In ogni complesso le terre dominiche potevano superare i 250 ettari. Per Saint-Remi di Reims la media era di 175 ettari, per Saint-Bertin di 155. A Staffelsee, in Baviera, la pars dominica misurava 247 ettari. Curioso il caso dell’abbazia di Lobbes, nell’Hainaut, che disponeva di blocchi di terre dominiche la cui porzione coltivata variava da 450 ettari a 30. I monasteri e i proprietari più piccoli, che poi dovevano essere la maggioranza, avevano terre arabili di estensione oscillante tra 5 e 50 ettari. Ad esempio quelle dell’abbazia di San Pietro di Gand misuravano 25 ettari. Nella piccola villa di Bousignies il monastero di Saint-Amand disponeva di una pars dominica di soli 14 ettari, cioè, grosso modo, l’equivalente di una azienda contadina.

Le terre dominiche contenevano di regola al centro una serie di immobili: l’abitazione («casa», «sala dominica») col granaio, le stalle e altri eventuali annessi agricoli, talvolta locali per il lavoro degli artigiani e delle donne. Il tutto era, nelle villae francesi, circondato da un muro. Un giardino, un frutteto, anch’essi spesso protetti di mura, si addossavano agli immobili. Dove il clima lo permetteva c’era anche un vigneto. Parte integrante del dominico erano il mulino e il frantoio. Essi potevano essere sfruttati in economia, ma anche affittati per un versamento annuale in natura.

La mano d’opera necessaria per coltivare le terre dominiche era fornita dai poderi tributari. I contadini dovevano al grande proprietario, oltre a un censo in denaro o in natura, un certo numero di giornate di lavoro, con o senza bestiame, nel corso dell’annata agricola. In alcuni grandi complessi si trattava, come abbiamo visto (3. Mutamenti nella dinamica degli investimenti), di una ingente mole di mano d’opera. Al proprio sostentamento i contadini provvedevano con le terre che avevano in concessione, di fatto ereditariamente, anche quando manchi — come avviene quasi ovunque — una regolamentazione scritta. Alle terre contadine erano connessi diritti d’uso su prati e boschi della corte o della villa o su prati e boschi comuni a più ville o più corti.

Il nome con cui il complesso delle terre di una famiglia contadina veniva allora designato era quello di «manso» (mansus), diffuso in tutta Europa, dalla Francia all’Italia, dalla Germania all’Inghilterra e ai paesi scandinavi (Hoba, Hova in lingua germanica = Hufe in tedesco moderno; hida per gli anglosassoni). Tralasciando il tormentatissimo problema delle sue origini, basterà dire che il manso era una «unità fiscale», perché designava «l’insieme delle terre gravate da certe prestazioni a favore del dominus»; era «nello stesso tempo una unità di coltura calcolata in modo da poter provvedere ai bisogni di una famiglia » (Ch. Ed. Perrin). Il manso rivela in età carolingia una notevole complessità. Intanto c’erano varie categorie di mansi: «ingenuili», «servili», «aldionali», questi ultimi due particolarmente diffusi tra Reno ed Elba. A Saint-Germain-des-Prés, invece, su un totale di 1646 mansi, 1430 erano ingenuili, 191 servili, 25 soltanto aldionali. Incerta la condizione di altri 35 mansi. I loro nomi diversi stanno a indicare le diverse categorie di coltivatori — liberi, schiavi, affrancati — che in passato si erano insediati nel manso. Ma nel IX secolo, ad esempio nelle terre di Saint-Germain, la corrispondenza tra la qualità del manso e quella di chi lo lavora non è più costante. Mentre le famiglie dei «servi», cioè degli antichi schiavi, sembrano essersi estinte o aver modificato il loro status personale, quelle dei «coloni» liberi appaiono insediate anche sui «mansi servili». La distinzione fra le categorie di mansi continua solo perché l’estensione e i gravami erano diversi: più estesi e meno oberati quelli ingenuili rispetto a quelli servili. Nelle terre di Saint-Germain il manso ingenuile misurava in media più di 10 ettari, quello servile solo 7,43.

Da luogo a luogo l’estensione del manso variava in misura molto notevole, in conseguenza, com’è logico supporre, della qualità del suolo e della densità demografica. In quattro differenti villaggi dei dintorni di Parigi, dipendenti da Saint-Germain-des-Prés, la misura media era rispettivamente di ettari 4,85; 6,10; 8,00; 9,65. I mansi dell’abbazia di Lobbes andavano da 15 a 38 ettari. A Poperinghe, nelle Fiandre occidentali, 47 mansi dell’abbazia di Saint-Bertin così si dividevano 1029 ettari di terra: dieci misuravano in media 30 ettari, dieci circa 25, dieci circa 19, dieci circa 17.

Anche i canoni erano molto vari e non necessariamente limitati ai soli prodotti agricoli. A Bussy, nella Perche, dove il minerale abbondava, il monastero di Saint-Germain-des-Prés esigeva da ogni manso servile cento libbre di ferro. In una sua proprietà l’abbazia di Fulda riceveva complessivamente — da 594 aldi — 630 porci, 434 pezze di stoffa, 739 polli, 8194 uova, 189 montoni, 39 carrette di grano, 455 moggi d’avena. Un manso di Quillebeuf dava uno staio di luppolo, un pollo e cinque uova. A Lorsch, in Renania, i mansi ingenuili dovevano 5 moggi di orzo, una libbra di lino, e, a Pasqua, 4 denari, una gallina, 10 uova, 2 carichi di legna; i mansi servili una uncia, una gallina, 10 uova, un porco del valore di quattro denari.

L’aumento della popolazione si ripercuote molto presto sui mansi, che appaiono «sovrappopolati», indice quanto mai eloquente della impellente necessità di alzare le rese della terra e di allargare l’area coltivata. Già all’inizio del IX secolo in una delle villae di Saint-Germain a sud di Parigi vivevano in media, su ogni manso, quasi due famiglie. Anche nei casi in cui si fosse trattato di più famiglie povere associatesi per coltivare una unità di cultura originariamente destinata a una sola famiglia e corrispondere insieme al dominus i relativi censo e servizi, l’unità del manso era ormai solo fittizia. E infatti altrove, nelle terre di Saint-Germain come a Prüm, nella diocesi di Treviri, la divisione, sia per spartizione fra eredi che per altri motivi compresa la compravendita, si impose anche di diritto e si cominciò a parlare di «mezzi-mansi» o «quarti di manso». Non ovunque si affermarono le forme «classiche» della grande proprietà, ma tipi più o meno «bastardi». C’è altresì da precisare che Georges Duby ha probabilmente ragione quando parla del regime domanial classico come di una breve fase in una lunga evoluzione, come di una struttura in fondo transitoria.

Più che nelle zone comprese tra il Reno e l’Elba, dove le grandi proprietà, in particolare ecclesiastiche, pare superassero in estensione quelle francesi, dove la percentuale dei mansi servili era più alta e più bassa quella dei servizi per la presenza di un alto numero di servitori domestici (mancipia) [1] il regime curtense rivela forse maggiori diversità nell’ovest e nel sud. Neppure in Inghilterra, sebbene il termine manor sia d’importazione normanna, la situazione pare essere stata molto diversa da quella della Francia del nord. La Borgogna costituisce invece un terreno di transizione verso tipi di proprietà in cui la scissione dei mansi dal dominico è molto frequente. Anche nella Lombardia il ruolo delle prestazioni, almeno allo stato attuale della ricerca, appare un po’ più esiguo. Vi compare d’altra parte una fitta classe di libellarii, legati al proprietario da un contratto scritto — l’uso della scrittura si è meglio conservato in Italia — e in posizione, almeno giuridica, migliore rispetto ai coltivatori d’Oltralpe.

Resta da precisare quale fosse il rapporto tra la curtis e la villa da un lato, il villaggio dall’altro. Anche in questo caso le varietà sono notevoli e tendono, d’altro canto, a modificarsi con il tempo. Si può così parlare di una curtis e di una villa che si identifica con il villaggio; di altre le cui terre tributarie sono concentrate in un medesimo villaggio, che accoglie però anche terre di altre proprietà; di terre di una medesima proprietà distribuite in più villaggi, a contatto sempre con quelle di proprietà diverse (tipi, questi due ultimi, quanto mai adatti a evoluzioni semplificatrici). Potevano esserci infine corti con terre disperse in un gran numero di villaggi (poche terre tributarie in ciascuno). Proprietà di questo tipo erano prevalenti nella Germania occidentale, nei Paesi Bassi, nell’Inghilterra settentrionale e orientale (Danelaw).

[1] Di fronte ai quasi 2000 mansi di Saint-Germain-des-Prés stanno, ad esempio, i 4000 del monastero di San Gallo, gli 11.000 che nell’IX secolo possedevano sia un’abbazia sassone che un’abbazia bavarese. Ma ci sono anche problemi di cronologia che rendono difficili questi paragoni. Per esempio si ritiene che nella parte orientale degli attuali Paesi Bassi il regime domanial sia penetrato dalla Germania renana solo nel X e XI secolo.

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UpUltimo aggiornamento: 26/06/06