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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


1. Che cosa è una città?

Le definizioni proposte da geografi, economisti, giuristi, sociologi, urbanisti, nella loro specifica prospettiva, non soddisfano, prese singolarmente, lo storico, che quando parla di città non intende parlare soltanto di un insediamento caratterizzato da una popolazione numerosa – quale che sia la cifra che si voglia prendere come base –, costituito da un complesso di costruzioni più o meno notevoli per mole e per valori architettonici, disposti gli uni accanto agli altri in un'area piuttosto vasta in modo da formare vie e piazze; né intende parlare soltanto di un agglomerato di individui, in prevalenza dediti non all'agricoltura, ma al commercio e all'industria, alle professioni libere, agli impieghi di varia specie, pubblici e privati; o di un centro in cui risiede un'autorità – individuale o collettiva – che amministra il territorio circostante fino ai limiti segnati dalla estensione di territori che fanno capo ad altre autorità. Parlando di città lo storico, caso per caso, mette l'accento su uno di questi aspetti, ma sottintende l'esistenza di una collettività umana le cui possibilità di sussistenza materiale e morale sono condizionate dalla continua, costante collaborazione reciproca: una collettività che ha personalità giuridica ed è capace di agire in conformità di decisioni prese in comune, in corrispondenza a precise esigenze comuni. Agli occhi dello storico sono da considerare come città tutti quei centri demici che hanno sentito se stessi come tali e come tali sono stati considerati dai contemporanei, accettando la lapidaria definizione di sant'Agostino: … est enim civitas non quorumlibet animantium sed rationabilium multitudo, legis unius civitatis devicta (Quest. evang. 2, 46), rincalzata da Isidoro di Siviglia che afferma: … urbs ipso moenia sunt, civitas autem non saxa sed babitatores vocantur (Etymologiae, XV, 2) [BRANI CRITICI 3, 4, 6]. Ma lo storico sa anche che il connotato materiale della città – il più antico, il più costante – è stato fino al secolo scorso la cerchia delle mura, con le sue torri e le sue porte, linea di separazione ed al tempo stesso di congiunzione fra due mondi, l’interno e l’esterno, la città e la campagna, tra i quali c'è un continuo ricambio di individui e di beni che fluisce lungo una rete di strade che fanno capo alle porte che si aprono nelle mura cittadine [BRANO CRITICO 8].

Sta di fatto che ogni società sedentaria, per quanto primitiva e rudimentale essa possa essere, comporta l'esistenza di luoghi di incontro di tutti i suoi membri per discutere e deliberare su questioni di interesse comune, per scegliere i suoi capi, per amministrare la giustizia, per celebrare atti di culto, per effettuare scambi di prodotti naturali o lavorati, per muovere guerra ai vicini. Ma ogni società sedentaria ha anche problemi di difesa locale a cui provvedere predisponendo dei luoghi di rifugio. L'etnologia ci illustra i luoghi di rifugio dei popoli primitivi; l'archeologia ci rivela quelli dei popoli dell'antichità.

Gli antichi oppida dei Latini e degli Etruschi, dei Galli o dei Celti o dei Germani, non erano stati originariamente altra cosa che luoghi di riunione e di rifugio. Erano generalmente situati in località naturalmente protette, rafforzate da un muro di cinta, da un bastione interrotto da porte, e l'accesso era lecito soltanto attraverso queste porte: scavalcare la cinta era un delitto punibile con la morte. Col progredire della civiltà, in questi recinti si formò un nucleo di popolazione stabile, ma gli altri membri della tribù, per cui quel recinto era stato originariamente costruito, continuarono a frequentarlo ed a prender parte a quegli atti ed a quelle cerimonie che interessavano tutta la comunità. Si spiega così come civitas per gli antichi significasse a un tempo il centro abitato e il territorio che vi faceva capo, ma significasse anche «diritto di cittadinanza» e indicasse tutta la collettività: popolo, gente, tribù.

Queste elementari considerazioni valgono per le città formatesi spontaneamente, ma valgono anche per quelle fondate ex novo da Greci, Etruschi o Romani, che ebbero – ovviamente – fin dall'origine popolazione stabile e personalità giuridica: erano cioè intese come un complesso organizzato di persone, che appunto in quanto tale costituiva un corpus capace di diritti nei confronti dei singoli componenti, nei confronti dell'autorità centrale e delle altre città, costituenti anch'esse persone giuridiche, e capace altresì di diritti patrimoniali [1].

Il fatto che le città godessero di un patrimonio costituito dalle vie, dalle piazze, dagli edifici d'uso pubblico, da vaste estensioni di terre coltivate o tenute a bosco e a pascolo, e collettivamente godute dai cittadini secondo norme precise, è cosa molto importante, di cui avremo occasione di parlare più volte in seguito.

Le città italiane che nel Medioevo i contemporanei hanno considerato città e che hanno sentito se stesse come città sono tutte antiche urbes romane, al centro di territori che, uniti con esse, formavano altrettante civitates organizzate in municipia. Queste città erano poi diventate sedi episcopali e la diocesi aveva assunto come propri confini quegli stessi del territorio municipale.

Fra il IV e l’VIII secolo d. C. non poche di queste città erano paurosamente decadute o erano addirittura scomparse, ma se ne erano formate anche di nuove e basterà ricordareVenezia, Ferrara, Comacchio, Amalfi – e più tardi Alessandria e l’Aquila – che tuttavia nel loro sviluppo politico-amministrativo subirono l'influenza e l'esempio delle città vicine [BRANI CRITICI 5, 8, 9, 10].

Per il resto d'Europa, il problema è assai più complesso, in quanto non si tratta soltanto di stabilire quali e quante antiche città sono sopravvissute e come sono sopravvissute nell'area che aveva fatto parte dell'antico impero romano, ma quali e quante – e come e perché se ne sono formate di nuove in quella stessa area e nelle regioni in cui, nel corso dei secoli, si sono progressivamente estese le istituzioni politiche, religiose, culturali proprie della cosiddetta «civiltà occidentale»; e ci si deve chiedere quando, come e soprattutto in che limiti queste nuove formazioni hanno raggiunto lo status di città. Sennonché uno studio d'insieme delle istituzioni cittadine europee è estremamente difficile, non soltanto per la straordinaria varietà delle situazioni locali, ma anche perché le prospettive degli studiosi che nei vari paesi se ne sono occupati sono molto diverse e chi tenta uno studio comparativo si trova a dover operare su dati che non sa mai  fino a qual punto siano completi ed effettivamente comparabili. L'esame è tanto più difficile quando si passa dall'Europa centrale, in cui più o meno vive l'eredità carolingia, alle zone periferiche – penisola iberica, isole britanniche, penisola scandinava, paesi slavi – dove gli insediamenti umani hanno avuto origini e sviluppo molto diversi tra loro e soprattutto molto diversi da quelli delle città italiane

[1] Ogni città dell'Impero godeva di uno statuto particolare, datole al momento della fondazione della colonia o al momento della sua costituzione in municipio: queste leges municipali definivano i compiti dei magistrati locali, fissavano le norme della polizia urbana e dell'amministrazione dei beni assegnati alle singole città.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08