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Didattica > Strumenti > La città medievale italiana - 6

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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


6. Le città italiane nell'età carolingia

La conquista del regno longobardo ad opera dei Franchi e la creazione dello Stato della Chiesa, mentre l'Italia meridionale era divisa tra la dominazione bizantina e il ducato longobardo di Benevento, portò a una diversa evoluzione delle città, così che è necessario studiarle separatamente, cominciando dalle città dell'area carolingia.

I conti carolingi – come un tempo i duchi longobardi –  posero la loro residenza nella città che era il centro amministrativo del comitato a loro affidato e da quella presero il nome.

Nei capitolari carolingi emanati espressamente per il regno longobardo si trovano scarsissime disposizioni relative alle città, ai problemi di vario genere che per forza di cose si dovevano presentare alle collettività urbane e che evidentemente dovevano restare affidate agli organi locali, sia pure sotto il controllo del conte: quello che tuttavia appare evidente è che il conte era il rappresentante del re nella città, ma non era infeudato della città; la funzione comitale sarà ereditaria, passerà di padre in figlio, diventerà un feudo, ma la città in quanto tale non sarà mai infeudata, conserverà sempre la qualifica di regia (o publica), dipenderà sempre dal re, rappresentato dal conte, e conserverà anche la sua assemblea, i suoi funzionari, il suo demanio [1] .

La minaccia delle incursioni saracene e àvare, la mancanza di sicurezza nell'interno del paese, infestato da bande di ladroni, accentuavano il carattere militare, il carattere di centro fortificato che la città non aveva mai perduto – e l'onere della manutenzione o della costruzione delle mura gravava in parte sui cittadini –, ma non impedirono che innumerevoli fondazioni pie sorgessero fuori delle mura, in quella fascia che qualche città indica addirittura con il nome di «corpi santi» e che nel sentimento degli abitanti era considerata veramente come una cintura miracolosamente protettrice [TESTIMONIANZE 5 E 6].

La città con il suo suburbio costituiva una circoscrizione religiosa, la plebs, la pieve, che faceva capo alla chiesa cattedrale, presso la quale risiedevano il vescovo, nella domus episcopi, e il clero locale nella domus canonicorum. La cattedrale era il centro della vita religiosa e non soltanto perché i fedeli vi si recavano per assistere ai sacri riti e ricevere i sacramenti. Fin dai tempi più remoti il vescovo era visto come il simbolo – e l'agente – della collettività cittadina, religiosa e civile. La città si identificava con la sua chiesa cattedrale, con il suo santo patrono, con il suo vescovo, alla cui elezione direttamente o indirettamente partecipava; gli forniva funzionari, consiglieri, vassalli, chierici; si avvantaggiava dei privilegi e delle immunità concesse al presule, che viveva in città e che in città consumava le rendite di quei beni la cui amministrazione la città stessa in certi casi controllava. La comunità raccolta entro la circoscrizione della pieve formava veramente un corpus, in cui interessi spirituali e interessi materiali si compenetravano, in cui laici ed ecclesiastici, ognuno nel suo ordine, avevano le loro competenze.

I capitolari favorivano il concentramento delle forze locali intorno al vescovo quando prescrivevano che comites et iudices cum reliquo populo obedientes sint episcopo: questo non impediva che mentre con il favore sovrano l'autorità e il prestigio del vescovo crescevano accanto o addirittura contro a quello del conte, le popolazioni cittadine continuassero a svolgere la loro attività nel terreno che a loro era proprio.  

Intorno al vescovo e al conte, c'erano certamente dei vassi e dei milites; tuttavia la città appare come il tipico luogo di residenza degli elementi non feudali: proprietari di allodi e di capitali liquidi, investiti nel commercio e nelle industrie, nel senso che alla parola «industria» si può dare nel IX secolo. Nelle città italiane, artigiani e mercanti liberi non erano mai spariti; forse, continuando una tradizione romana, avevano sempre continuato ad avere le loro botteghe e i loro laboratori uno accanto all'altro, nelle strade che prendevano nome dalla loro attività e che si concentravano intorno al mercato, il quale si continuava a tenere là dove era stato il forum della città romana o nelle immediate vicinanze [TESTIMONIANZA 5]. Ciò che è discusso – a parte il volume dei beni prodotti e commerciati – è l'esistenza di associazioni fra artigiani e fra mercanti: si può tuttavia ritenere che all'epoca longobarda ci fossero ancora resti dell'antica organizzazione romana entrati a far parte del sistema amministrativo longobardo e utilizzati poi dai Carolingi, quando questi crearono una nuova organizzazione del lavoro che fu applicata anche nei paesi transalpini.

Comunque, artigiani e mercanti e proprietari di allodi avevano da dire la loro parola nel conventus civium, e su molte questioni: nelle città si tenevano mercati settimanali, fiere annuali che bisognava regolare e controllare; c'era da provvedere ai lavori pubblici per la parte che era di competenza dei cittadini e che gravava sul bilancio della città, alimentato, a quanto risulta, dai redditi delle terre appartenenti alla città stessa e dalla riscossione di imposte indirette; c'era da regolare lo sfruttamento dei beni appartenenti alla città; c'era da concedere o negare il diritto di cittadinanza a estranei che ne facevano richiesta. Inoltre i capitolari richiedevano l'esplicito consenso del popolo perché certe leggi avessero piena validità e prescrivevano che i funzionari minori fossero scelti dal conte e dal popolo congiuntamente. Quale che fosse l'applicazione pratica di queste ultime disposizioni, ci si trova davanti non a masse amorfe e passive, ma a collettività a cui il potere pubblico consente certe attività e chiede una collaborazione, una partecipazione che possono stimolare il desiderio di più larghi interventi; collettività che quando lo ritengono necessario si valgono del diritto di ricorrere al tribunale regio per difendere le loro prerogative [TESTIMONIANZE 7, 9].

Le città avevano anche una vita culturale: per qualcuna – Pavia, Verona, Ravenna, Roma – è variamente documentata la continuità di una tradizione scolastica che dall'età romana discende all'età franca e va oltre; per altre, la documentazione è frammentaria, discontinua, ma sufficiente per affermare che ogni centro politico o religioso – o politico-religioso – era anche un centro culturale, sia nell'Italia centro-settentrionale che nell'Italia del sud. Né ha significato negativo il fatto che gli esponenti della cultura locale siano per lo più chierici: gli ecclesiastici escono generalmente dall'ambiente cittadino e in quello vivono. L'ambiente cittadino nella varietà delle persone che lo compongono è in realtà un organismo unitario, in cui esigenze ed esperienze multiformi si intrecciano e si associano, influenzandosi reciprocamente e inscindibilmente, a tutti i livelli.

Ogni città aveva monumenti, devozioni, ricordi che gli abitanti conoscevano e intendevano più o meno esattamente, ma che sentivano come patrimonio a tutti comune [TESTIMONIANZA 6].

Secoli ed eventi erano passati tra le vie e le piazze delle città lasciando il loro segno: antichi edifici erano scomparsi, o erano stati variamente trasformati; altri ne erano sorti, chiese, conventi, qualche residenza signorile, umili case di povera gente, ma le città avevano continuato a esistere come complesso di edifici e di uomini legati all'ambiente da vincoli d'ogni genere.

È ben difficile rappresentarci una città del IX-X secolo. Anche se conosciamo edifici sacri sicuramente databili, non sappiamo tradurre in immagini i passi dei documenti che parlano di caminate, di laubie, di dormitoria, di refectoria, di viridaria, di mansiones, di stationes. Non riusciamo a prestare gran fede a certe rappresentazioni pittoriche – affreschi o miniature – che ci mostrano le città convenzionalmente irte di torri, campanili e pinnacoli che spuntano al di sopra delle mura, ai componimenti poetici che ne decantano le bellezze. Dal Versum de Mediolano civitate al lamento di Liutprando per l'incendio di Pavia, ciò che colpisce di più sono le notizie che vorrebbero essere precise, quanto lo spirito che anima queste celebrazioni: cioè un amore per il luogo natìo, un patriottismo locale in cui si incontrano e si fondono tutti gli aspetti, tutte le forme della tradizione cittadina; tutti i vincoli d'ogni genere che legano il singolo all'ambiente: la consapevolezza di appartenere a una comunità che ha dietro di sé un lungo passato, nel quale si perdono le origini delle famiglie che guidano la collettività e la impersonano di fronte alle autorità, in cui si perdono le origini dei monumenti che si ha l'abitudine di vedere, in mezzo ai quali si vive, secondo consuetudini che nessuno pensa di mutare.

Sono anzitutto consuetudini religiose, imperniate sulla chiesa cattedrale; su riti squisitamente civici, come le processioni propiziatorie intorno alle mura; sulla devozione ai santi locali: chi ne ha mai fatto il censimento? San Filastrio a Brescia, sant'Imerio a Crema, san Metrone a Verona, san Geminiamo a Modena, san Petronio a Bologna, san Frediano a Lucca, tanto per ricordarne qualcuno. Consuetudini dei rapporti tra concittadini, nei rapporti tra vicini; consuetudini nel modo di assolvere certi doveri di natura pubblica – chi non ricorda le vere e proprie zuffe, a scopo di esercitazione militare, a Ravenna e in tante altre città? –; consuetudini che ora diremmo folcloristiche nel modo di celebrare nozze e battesimi e funerali.

Altri aspetti della tradizione cittadina erano l'afflusso e il deflusso delle correnti di traffico in certe direzioni, lo svolgimento di fiere periodiche, la circolazione di monete coniate nella zecca vescovile, l'uso di misure locali, la specializzazione tecnica in certi settori, i rapporti personali e associativi fra artigiani, fossero o no sottoposti all'ordinamento dei ministeria [2] [TESTIMONIANZA 11].

Le generazioni si succedevano, ereditavano quanto gli antenati avevano creato o conservato, e lo tramandavano ai posteri insieme con il frutto delle loro nuove esperienze: sono tutti motivi di coesione di cui si deve tener conto quando si voglia intendere il vivere cittadino del Medioevo.

[1] Non è il caso di citare puntualmente dall'edizione dei «Monumenta Germanica Historica», Capitularia regum francorum, i singoli capitolari a cui si fa riferimento nel testo.

[2] Sull'organizzazione dei lavoratori in ministeria – da cui l'italiano «mestiere» – e sul particolare carattere di questi ministeria, v. le indicazioni bibliografiche relative al § 6.

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08