Fonti
Antologia delle fonti bassomedievali
a cura di Stefano Gasparri,
Andrea Di Salvo e Fiorella Simoni
© 2002 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
0. Introduzione
La genesi della cavalleria va ricercata nel torbido periodo dell'anarchia
politica (X-XI secolo), soprattutto in Francia. Lì il ceto dei
milites fece le sue prime violente prove, e sempre lì
si tentò precocemente di irreggimentarlo – tramite il movimento
della pace di Dio – all'interno di una rete di divieti che ne imbrigliassero
le energie, pericolosissime in una società priva di autorità
regia [cfr. vol. I, cap. XIV, 3-6]. Questi milites erano ancora
personaggi armati di livello medio-basso, i signori dei castelli e i loro
uomini, in cerca di una promozione sociale con tutti i mezzi a loro disposizione.
Ma la cavalleria elaborò, con il passare del tempo, un preciso
codice etico, che le permise di recitare un ruolo primario, come abbiamo
visto, nell'epopea delle crociate [cfr. cap. V] e che le assicurò
anche una straordinaria fortuna, per secoli, all'interno dell'intera aristocrazia
militare europea, in tutti i suoi livelli, re e imperatori compresi. In
ciò consiste la sua grande importanza: qui, per motivi di spazio,
ci riferiremo comunque solo al primo periodo della fortuna della cavalleria.
Il momento fondamentale per la vita di un giovane aristocratico, nei secoli
centrali del medio evo (XII-XIII), era costituito dalla cerimonia con
la quale egli diveniva cavaliere, l'addobbamento (adoubement).
A conferire la cavalleria al giovane aspirante era sempre un cavaliere,
che gli dava la spada (con il cinturone: cingulum militae) e
poi lo colpiva con la mano aperta o con il piatto della spada sul collo
o sulla gota – e proprio all'antico verbo tedesco dubban,
«colpire», la cerimonia deve il suo nome. Il neo cavaliere
prestava poi giuramento di osservare gli obblighi, morali e comportamentali,
della cavalleria. A questo punto scattava il meccanismo della festa, strettamente
legata all'addobbamento in sé; e legato alla festa era il torneo
(1). Fu all'interno del lungo
e tormentato periodo della riforma della chiesa, accompagnato dal duro
conflitto con il potere imperiale noto come guerra delle investiture [cfr.
cap. 2], che le condizioni per una cristianizzazione della cavalleria,
in precedenza limitata alla benedizione delle armi e dei vessilli. L'idea
di una militia sancti Petri, che potesse costituire il braccio
armato della chiesa contro i suoi nemici – di una chiesa impegnata
anche in una difficile lotta per il rinnovamento di se stessa e dell'intera
società cristiana –, pose infatti le basi per l'elaborazione
di un preciso codice etico del cavaliere, espressione prima del reiterato
tentativo da parte ecclesiastica di controllare un fenomeno dalle origini
laiche (2). Nonostante questo
tentativo – che coinvolse anche la stessa cerimonia dell'addobbamento
– intorno alla cavalleria si elabora una forma di cultura laica
aristocratica che rimane sostanzialmente indipendente dai modelli ecclesiastici:
la cultura cortese, che cresce lentamente, arricchendo il materiale grezzo
fornito dalle antiche chansons de geste [1
(B, C)] con l'apporto della poesia trobadorica della Francia meridionale
(3). I trovatori, com'è
noto, elaborarono un complesso codice di valori, che aveva al suo centro
la devozione per la domina, la donna-signora (quasi sempre più
ricca e nobile), alla quale era dovuto un servizio amoroso paragonabile
a quello del vassallo per il suo signore. Era l'ideologia della piccola
nobiltà cavalleresca (ma anche i principi, almeno in gioventù,
ne condividevano i valori). Gli ideali della cortesia e della cavalleria
trovano la loro più completa esemplificazione nei romanzi del ciclo
di Artù e della Tavola rotonda, dai più antichi, quelli
di Chrétien de Troyes (che cominciò a scrivere verso il
1160), al più recente ciclo del cosiddetto Lancillotto in prosa,
autentica enciclopedia del sapere e del sentire cavalleresco del Duecento.
Contrariamente a quanto di solito si pensa, la cavalleria si diffuse ampiamente
anche in Italia (4). L'idea che
la cavalleria sia tipica della «società feudale» è
incompatibile con la realtà urbana – quest'ultima. com'è
noto, largamente dominante in Italia – è infatti superficiale
e schematica. Troppo profondamente la cavalleria aderì agli ideali
aristocratici laici poiché essa potesse rimanere estranea alla
cultura ed al modo di vita delle élites cittadine italiane. Inoltre,
nemmeno in Italia mancarono nuclei signorili importanti, le cui corti
furono centri efficaci di diffusione dei costumi cavallereschi: si pensi
ai Malaspina, ai da Romano, agli Estensi. ai marchesi del Monferrato [cfr.
paragrafo 3 (C)], ai Savoia, ai
marchesi di Saluzzo.
|