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La predicazione nell'età comunale

di Carlo Delcorno

© 1974-2005 – Carlo Delcorno


12. La predicazione francescana nel XIII secolo

Il più famoso predicatore francescano del Duecento è Antonio da Padova, personalità per certi aspetti isolata nella prima generazione dei Minori, ma anticipatrice della spiritualità e della cultura destinata a prevalere nell'Ordine. Questo infaticabile persecutore degli eretici (fu detto «malleus haereticorum», martello degli eretici), che conosce la Scrittura così perfettamente da meritarsi da Gregorio IX l'epiteto di «arca del Vecchio e forma del Nuovo Testamento», ricorda Domenico di Guzman più che Francesco d'Assisi. La somiglianza è dovuta a cause precise: proveniente come Domenico dalla penisola iberica, sant'Antonio ha avuto la stessa formazione agostiniana, basata sullo studio rigoroso della Scrittura. Fernando Martins (così si chiama quello che la pietà popolare conobbe come sant'Antonio da Padova) cresce nel monastero di San Vincenzo di Lisbona, e poi nel famoso convento di Santa Cruz di Coimbra, dove la tradizione agostiniana rivive filtrata attraverso un'esperienza viva e recente della spiritualità vittorina [1]. La conversione al francescanesimo di Fernando avviene sotto l'impressione enorme suscitata dall'arrivo a Coimbra delle reliquie dei martiri francescani del Marocco: cinque missionari trucidati dal sultano Miramolin il 16 gennaio 1220. Egli è affascinato dal programma missionario del francescanesimo: narra la Legenda Assidua di Tommaso da Pavia, la più antica delle biografie di sant'Antonio, che il suo ingresso nell'ordine, avvenuto a Coimbra, è subordinato alla promessa di venire inviato in Marocco. La missione africana fallisce e il campo d'azione di Antonio sarà l'Italia e la Provenza. La sua predicazione, che ha inizio in Romagna, è imperniata sull'invito alla penitenza, conforme il desiderio espresso da san Francesco nella Regula (v. TESTO N. 5), e tende alla conversione degli eretici e dei peccatori; essa non perde mai i caratteri di una dura e infaticabile missione interna. La confessione sacramentale del peccatore, la riforma concreta dei costumi sono scopi precisi dell'azione di sant'Antonio, che si mostra un acre e realistico pittore dei vizi contemporanei. «Mores destructi sunt – predica nel sermone per la IX domenica dopo Pentecoste. – Ideo moralitati, quae mores instruit, magis est inhaerendum, quam allegoriae quae fidem instruit» [I buoni costumi sono distrutti. Bisogna dunque attenersi soprattutto alla predicazione della morale, che insegna a ben vivere, piuttosto che all'allegoria, che fortifica la fede]. Con una fosca immagine che sembra preludere all'allegoria iniziale della Commedia, egli paragona la società contemporanea a una selva «fredda, oscura, piena di belve», infestata soprattutto dal «maledictus ternarius»: superbia, avarizia e lussuria (v. TESTO N. 14). Non c'è giunta neppure una reportatio dei corsi tenuti da sant'Antonio agli Studi di Bologna, di Tolosa e di Montpellier; ma è da credere che la sua lectio biblica fosse di tipo morale, il più adatto a preparare i futuri predicatori della penitenza. L'unica opera sicura sono i Sermones dominicales et de festivitatibus, raccolti negli ultimi anni in una povera casa presso Camposampiero (Padova), scritti, come dice il cronista Rolandino Patavino, «diu noctuque regirans Vetus Testamentum et Novum» [compulsando giorno e notte il Vecchio e il Nuovo Testamento]. Chi vi cerca l'eloquenza popolare che attrasse i contemporanei rimarrà deluso: si tratta di un vastissimo sermonario, normativo nella scuola francescana, costruito secondo le più raffinate regole della tecnica moderna, bravamente corredato di difficili prothemata.

È andata invece completamente perduta, se mai fu registrata dagli uditori, la primitiva predicazione francescana in Italia, che ebbe uno spiccato carattere popolare e carismatico; non abbiamo nessuna raccolta che possa paragonarsi ai sermoni in volgare di Bertoldo di Regensburg (1210-1272). Anche in questo caso la fonte più ricca di informazioni si rivela la Chronica di fra Salimbene, che presenta una vivace galleria dei più famosi predicatori del suo ordine. Il movimento del l' Alleluia, di cui si è già fatto cenno, suscitò uno stile inconfondibile di predicazione, ignaro di sottigliezze tecniche, strettamente legato al prestigio personale e alle doti mimetiche, a volte taumaturgiche, del predicatore. Registrando la morte di Barnaba de Regina, il cronista aggiunge che egli predicava al modo degli antichi missionari del tempo dell' Alleluia «quando intromittebant se de miraculis faciendis», quando cioè il sermone era efficace solo se siglato da un portento, vero o falso che fosse. Una figura tipica di predicatore popolare, sempre al limite della buffoneria, fu Ugo da Reggio, detto Ugo Paucapalea, maestro di grammatica prima di prendere l'abito francescano, famoso per una sua disputa con l'astrologo Guido Bonatti di Forlì. Egli si serviva degli elementi retorici più accetti al grosso pubblico: proverbi, favole, exempla, tutto stava bene sulla sua bocca «quia hec omnia reducebat ad mores, et habebat linguam disertam et gratiosam, et libenter audiebatur» (v. TESTO N. 6b). Figura centrale nella Chronica è quella del Generale Giovanni da Parma (1247-1257), noto per la sua adesione alle teorie gioachimite. Oltre che uomo di grande cultura, egli fu un instancabile predicatore: tra i generali francescani fu certamente il più vicino allo spirito del Fondatore, e il più amato dagli Spirituali. È probabile che Giovanni si rivolgesse soprattutto a un uditorio dotto: Salimbene riferisce che «predicava al clero e al popolo» commovendoli fino alle lagrime. Un suo socius, fra Bonaventura de Iseo, ha lasciato un'ampia collezione di Sermones de Tempore, purtroppo inedita: sarebbe interessante constatare fino a che punto l'influsso delle dottrine gioachimite fosse penetrato nella sua predicazione. Bonaventura da Bagnorea (1221-1274), successore di fra Giovanni da Parma, è la figura più eminente del secolo. A ragione fu detto secondo fondatore dell'Ordine francescano, poiché durante il suo generalato (1257-1272) il Francescanesimo ebbe l'organizzazione definitiva e si inserì stabilmente nella struttura della Chiesa ufficiale, trasformandosi, sul modello domenicano, in una comunità di studiosi e di predicatori. È sintomatico che nelle Costituzioni Narbonesi del 1260, decisive per tutta la storia dell'Ordine, si ponga come attività specifica dei francescani la speculatio, e si abbandoni il precetto del lavoro manuale,. raccomandato da san Francesco nella Regula Prima e nel Testamentum. San Bonaventura porta a compimento un processo già iniziato negli ultimi anni della vita di Francesco d'Assisi. La distinzione giuridica tra usus e possessio dei beni (introdotta dalla bolla Quo Elongati di Gregorio IX del 1229), riducendo la povertà a una finzione giuridica, viene accolta e approfondita dalla bonaventuriana Apologia Pauperum (1269). Ormai i francescani gareggiano coi domenicani nello splendore dell'architettura e nella costruzione della nuova filosofia, la Scolastica, alimentata dall'afflusso in Occidente dell'Aristotele arabo. Bonaventura è un uomo di scuola e una guida preziosa per chi tenta i più difficili itinerari dell'esperienza religiosa. La sua predicazione è destinata a un pubblico d' élite: gli studenti e i colleghi dello Studio parigino, i frati Mendicanti, alcuni gruppi di religiosi (Certosini, monaci di San Dionigi) e religiose (Beghine, Clarisse), il re di Francia e la sua famiglia, il papa e la Curia, i Sinodi e i Capitoli delle cattedrali. I sermoni rivolti al popolo sono ben pochi: ne conosciamo alcuni tenuti in Francia e in Italia, ad Assisi in particolar modo. Ovviamente la sua lingua era il latino, ma talvolta anche il volgare locale: in un celebre sermone per la festa di san Marco, tenuto ad Beghinas davanti agli studenti parigini, egli si scusa di non parlare perfettamente la lingua gallica. San Bonaventura curò personalmente la pubblicazione di un volumen sermonum distribuiti lungo le feste del ciclo temporale, e ciò per devozione alla Santa Croce, che lo aveva liberato da un assalto del demonio (v. TESTO N. 15). Tuttavia la maggior parte dei sermoni bonaventuriani (più di 400) ci sono giunti attraverso le reportationes di confratelli o di discepoli. La Cronaca dei XXIV Generali riferisce che un socius di Bonaventura, Marco da Montefeltro, aveva il compito di criticare duramente, ma anche di raccogliere, i sermoni del suo superiore. La predicazione bonaventuriana rifugge dalle più facili coloriture dell'eloquenza popolare e si mantiene sempre a un livello di grande compostezza. Il fulcro del sermone, sviluppato secondo le regole consuete del sermo universitario, è l'interpretazione del thema, quasi sempre in chiave anagogica o tropologica, la più adatta a un uditorio che attende dal grande mistico uno stimolo all'approfondimento dell'esperienza religiosa. Certi temi cari allo scrittore dell'Itinerarium mentis in Deo e del Lignum Vitae ricorrono in tutti i sermoni. Vi è in essi come Leit-motiv la sollecitazione prudente, ma ferma alla contemplazione, alla devozione della Croce; l'esaltazione della carità, superiore alla stessa povertà. Per un lettore moderno è difficile afferrare e gustare il meccanismo intellettuale del sermone bonaventuriano, reso più secco e arduo dalla brevità delle reportationes, ma l'opera nel suo complesso rappresenta per la densità dottrinale e per la tensione stilistica una delle vette dell'eloquenza francescana.

Per secoli furono attribuiti a Bonaventura (a partire dall'edizione delle Opere stampata a Roma nel 1596) alcuni cicli di sermoni (il De proprio Sanctorum, il De communi Sanctorum, il De Beata Maria Virgine) che in realtà sono di un altro francescano: Servasanto da Faenza. Nato a Oriolo presso Faenza, egli entra nell'ordine francescano a Bologna, dove riceve gli ordini dal vescovo Giacomo Boncambi (1244-1260), ricordato in un exemplum del Liber de virtutibus et vitiis; ma il periodo più importante della sua vita si svolge nel convento di Santa Croce a Firenze, dove vive accanto a Tommaso di Pavia, autore della Legenda Assidua e di un massiccio volume di Distinctiones, chiamato il Bove; dove forse conosce Pietro di Giovanni Olivi. Servasanto è noto per una serie di opere che derivano dalla sua pratica pastorale e rispecchiano la media dell'omiletica francescana del Duecento: la Summa de exemplis naturalibus, la Summa de penitentia, il Mariale, oltre il già citato Liber de virtutibus et vitiis. Egli è forse, come sostiene l'Oliger, «il più grande moralista del secolo XIII»: sarebbe interessante indagare quali sono i rapporti effettivi tra Servasanto e quell'altro grande moralista in volgare del Duecento che è Bono Giamboni, al quale alcuni codici (ad esempio il Riccardiano 1775) attribuiscono una certa conoscenza dei sermoni del faentino. La predicazione francescana del XIII secolo, che muovendo da un livello popolare tende a diventare sempre più dotta e raffinata, conosce accanto ai sermoni universitari anche una sorta di prediche scritte a tavolino. È il caso dei Sermones de sancto Francisco e de B. Maria Virgine di Matteo d'Aquasparta (1240-1302), Generale dell'ordine tra il 1287 e il 1289, uomo politico di primissimo piano nella storia di fine secolo. Essi ci sono giunti in gran parte autografi, ma vi è fondato sospetto che non siano mai stati pronunciati. Il sermone si avvia ad essere un genere letterario svincolato dal contatto effettivo con il pubblico. Il cardinale d'Acquasparta affronta in questi dottissimi sermoni, soprattutto in quelli mariani, temi di grande impegno teologico. Il primo dei sermoni de Assumptione, come nota il moderno editore, il padre Piana, ebbe un grande influsso sulle teorie di san Bernardino da Siena, il «doctor Assumptionis».

[1] I maestri di sant'Antonio avevano contatti diretti col convento di San Vittore di Parigi, che ospitava gli studenti portoghesi.

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UpUltimo aggiornamento: 02/07/2005