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Fonti

L'ascesa della borghesia nell'Italia comunale

a cura di Anna Maria Nada Patrone

© 1974 – Anna Maria Nada Patrone


Sezione II – La borghesia e la chiesa

Introduzione

L'emancipazione borghese in materia di fedeltà alla Chiesa avvenne per gradi e non si realizzò mai in senso assoluto, almeno formalmente.

La partecipazione della popolazione cittadina alla lotta per le investiture ebbe un duplice aspetto: religioso e civile e fu determinante per lo sviluppo delle autonomie cittadine. Non conosciamo, per l'estrema carenza di documenti, gli aspetti locali della lotta per le investiture; siamo unicamente a conoscenza di un confuso agitarsi di folle cittadine contro la simonia e il nicolaismo [1] del clero e nello stesso tempo contro la maniera con cui il vescovo esercitava le funzioni temporali.

Come ha ben sottolineato la Fasoli [2] i vescovi riformati «eletti dal clero locale o nominati dai pontefici, per il fatto stesso che vengono accolti con il favore di un partito e che si presentano come seguaci di una tendenza decisamente spirituale, non possono pretendere di ripristinare la propria autorità temporale in tutta la sua antica estensione e devono limitarsi ad affermare la propria supremazia spirituale». Questa permanenza di vecchie forme di potere suscitò spesso contrasti tra il vescovo, appoggiato da Roma, e la nuova classe dirigente cittadina che aveva tutte le intenzioni di abolire ogni influenza estranea nell'interno della città (cfr. lettura 1).

Tuttavia la classe borghese, specie nel secondo momento della sua politica caratterizzata, come si è detto all'inizio, da posizioni conservatrici, altre volte si appoggiò al vescovo locale per strumentalizzarne l'azione religiosa autoritaria ai propri scopi: condanne di scomunica vennero talvolta pronunciate non contro presunti eretici, ma contro una manodopera salariata sfruttata a sangue e che tentava inutilmente di sottrarsi agli arbitrii degli imprenditori (cfr. lettura 4).

Questa situazione spiega la presa di posizione della borghesia di fronte ai movimenti popolari ed ereticali: in un primo tempo questo ceto fu incline a unirsi agli eretici per una comune battaglia contro il potere temporale del clero, la sussistenza dei suoi beni fondiari, specialmente nel contado, e la sua intromissione nella vita economica. Invece verso la metà del Duecento la borghesia divenne progressivamente indifferente e neutrale, quando addirittura non parteggiò per l'ortodossia di Roma contro l'eresia, perché ormai le forze temporali della Chiesa erano state smembrate. Infine nel Trecento manifestatamente divenne ostile ai movimenti popolari religiosi, in quanto era ormai divenuta classe dirigente, senza più rivali e quindi non poteva che condannare tutto ciò che turbava l'ordine stabilito.

È pur vero che gli elementi borghesi aderenti ai movimenti popolari religiosi cittadini non si erano mai o quasi mai spinti apertamente e fino agli estremi contro la teocrazia papale: essi agirono ed in particolare favorirono gli aderenti alle eresie, ma mai teorizzarono in materia teologica ed in tal modo non furono mai considerati «fuori della Chiesa». Del resto la borghesia, assorbita dai suoi interessi pratici, non poteva, per sua stessa natura, permettersi di assumere decise prese di posizione, non poteva sentire aspirazioni radicali ad un cambiamento totale, non aveva tempo di concepire piani fantastici o fanatici per una chiesa pura ed ideale.

La sua adesione ai movimenti religiosi fu sempre condizionata da ben precisi piani politici. Se in un primo tempo artigiani e mercanti aderirono a moti religiosi, più o meno eretici (quale il movimento pataro) [3] ciò fu dovuto al fatto che nello stesso tempo e sullo stesso piano essi lottavano per le libertà comunali contro il potere del vescovo. In un secondo tempo troviamo molti mercanti tra gli aderenti del catarismo [4], ma ciò fu anche e soprattutto dovuto al fatto che i catari approvavano ed ammettevano l'interesse del denaro, quell'usura severamente condannata dal diritto canonico.

I catari non avevano infatti nella loro dottrina l'ideale della povertà apostolica e neppure la comunanza dei beni, non ponevano alcun ostacolo allo sviluppo dell'economia cittadina, anzi liberavano gli imprenditori dal tradizionale scrupolo cattolico relativo alla liceità dei guadagni ottenuti con il commercio ed il credito. Ci si potrebbe davvero chiedere con il Volpe «se le eresie di questi secoli non contassero tra le loro file variopinte più di un impenitente prestatore di denaro»!

Nonostante queste osservazioni di fondo, si deve tuttavia tener presente che nella borghesia, negli uomini dediti ad attività mercantile, in rapporto continuo con mondi e culture diverse, poteva formarsi una specifica disposizione a maturare novità religiose o ad accostarsi ad esse. Ma, a parte queste specifiche disposizioni, sovente erano gli eretici a fingersi mercanti per potersi più liberamente spostare e spargere la loro dottrina senza destare troppa diffidenza. Agli uomini d'affari medievali non era del resto di gran vantaggio che le forze del Papato fossero troppo scosse rispetto alla forza dell'Impero, in quanto sarebbe venuto a mancare loro un forte appoggio ed una protezione intangibile. Mercanti, banchieri e prestatori seguivano i legati pontifici in mezza Europa, si munivano di lettere papali per ottenere dai principi la riscossione dei prestiti loro concessi, mentre invece erano spogliati dei loro beni e perseguibili dalle autorità laiche non appena Roma li scomunicava o ingiungeva misure repressive contro le loro persone e le loro ricchezze. Questo fu anche il motivo per cui la borghesia non si peritò di marchiare con il termine di «ghibellino» ogni nobile o plebeo suo nemico politico o economico, per poterlo avvolgere entro le spire di una legislazione che metteva i ghibellini e gli eretici sullo stesso piano. Conseguentemente la ricca borghesia nel Trecento e nel Quattrocento militò generalmente nelle file del guelfismo più conservatore, perché questo partito serviva a promuovere e mantenere i suoi affari. Del resto la borghesia non ebbe mai simpatia per quelle manifestazioni religiose popolari che esprimevano il malessere dei poveri premuti dai ricchi e che, specie nel secolo XIII, furono mezzo ed occasione di agitazioni artigiane e rurali di carattere sociale.

Se questo fu l'aspetto esteriore del cristianesimo della borghesia, un altro discorso si dovrebbe fare riguardo alla sua coscienza religiosa. Per ogni uomo del Medioevo le questioni religiose, prima o poi, in una forma o in un'altra, si ponevano con grande rilievo nella programmazione della vita quotidiana. Quindi anche per ogni mercante la questione del contrasto fra gli interessi della mercatura e i doveri morali e religiosi richiesti dalla Chiesa cattolica occupò un ruolo determinante. Non è che la morale religiosa tradizionale rifiutasse la figura del mercante nella società, ma lo indicava come minister diaboli, come elemento di corruzione e di peccato. Sono innumerevoli gli autori dal XII al XIV secolo che condannano, dal punto di vista morale e religioso, le attività speculative del mercante e del prestatore. Non c'è predicatore, non c'è novelliere che non insista sulla figura disgustosa e meschina dell'usuraio, che pecca contro Dio e contro la società. E non solo l'usura, condannata in base alla massima mutuum date nihil inde sperantes, ma anche tutti i nuovi espedienti finanziari e mercantili che lo sviluppo dei traffici portava con sé, in poche parole la conduzione capitalistica degli affari, venivano ufficialmente condannati dalla Chiesa. Già Raterio di Verona [5], nel X secolo, rivolgendosi al mercante italiano, ne esprime la condanna ufficiale: «Era tuo dovere non rubare, non accumulare con male arti, non raggirare nessuno negli affari… Avresti dovuto restare contento del vitto giornaliero, sperare tutto da Dio che pasce ogni giorno perfino gli uccelli; prendere per te ringraziando e spartire con gli altri quello che egli ti dava e non desiderare quello che egli non voleva darti».

Se queste condanne non costituivano di fatto un serio ostacolo allo sviluppo dell'attività mercantile, tuttavia determinavano spesso crisi di coscienza, specie nella vecchiaia, allorché il mercante risentiva più profondamente il drammatico contrasto tra la pratica di vita ed il terrore della punizione eterna per aver creato la sua ricchezza con mezzi poco scrupolosi: i borghesi infatti di solito sono, e malgrado tutto rimangono, cristiani, non solo nella superficialità delle pratiche religiose, quanto nell'intimo della loro coscienza.

Il mezzo più diffuso per cercare di sfuggire alle sanzioni religiose ed alle conseguenze morali del proprio mestiere era quello di elargire una parte di guadagno, il cosiddetto denaro di «messer Domeniddio» in elemosine, alla chiesa ed ai poveri. Altri cercarono di propiziarsi il perdono divino destinando nei propri testamenti una somma per le elemosine, per la costruzione di cappelle e di ospedali, per elargizioni a enti religiosi (cfr. lettura 5), o benefici (cfr. lettura 6, sez. IV) per la restituzione del maltolto. Altri ancora, nell'ultima parte della vita, si ritiravano dagli affari e si dedicavano quasi esclusivamente alle pratiche religiose: così il padre del cronista Donato Velluti nel XIV secolo, abbandonate le cure dei propri interessi, cercò di guadagnarsi il «perdono divino» e di giovare all'anima sua con l'affaticare il corpo in digiuni, ascoltare prediche e stare continuamente in chiesa. «E levandosi ogni mattino alla campana, andava prima per tempo a Santo Spirito a udire una messa e, uditala, se ne andava al Carmino e dal Carmino a San Friano, a San Sepolcro a piè del Ponte Vecchio per lo perdono e se ne andava a San Miniato al Monte e per Arcetri ne tornava a casa sua».

In conclusione con Dio, come con gli uomini, i borghesi adottarono un complesso sistema di sotterfugi. Essi considerarono i loro affari come una questione personale, riservata, retta da esigenze e da un'etica tutta particolare. È vero che «messer Domeniddio» appare sempre nei libri della ragione [6] e nelle corrispondenze dei mercanti, è vero che ogni nuova società commerciale veniva posta sempre sotto la sua protezione: ma la funzione di Dio è puramente epidermica, formale; lo slancio mistico è ridotto ad una religiosità superstiziosa (cfr. lettura 9) e tariffata, per non dire contrattuale. Per il borghese Dio non è più un essere trascendente, ma una comparsa, il cui appoggio è utile nelle lotte della vita. Per renderselo favorevole il borghese stabiliva con Dio una specie di contratto (cioè adottò nei suoi rapporti con lui il contratto sinallagmatico do ut des) nel quale elemosine, preghiere e messe erano un segno di gratitudine o meglio un compenso materiale per i favori ottenuti. Insomma il borghese versava il dovuto a Dio per attenderne profitti ed aiuto. Correlativamente il mercante fece dei suoi traffici un dominio riservato, in cui tese ad eliminare la funzione della Provvidenza e soprattutto la morale cristiana. Insomma l'etica borghese, anche in campo religioso, fu una morale laica, da uomini d'affari, che tutto condizionavano agli interessi materiali.

Nota bibliografica sulla borghesia e la chiesa

AA.VV. Hérésies et sociétés dans l'Europe préindustrielle. 11e-18e siècles, Parigi, Mouton 1958; J. LE GOFF, Au Moyen Age: temps de l'Eglise et temps de marchands, in «Annales ESC», XV (1960), pp. 417-33; M. B. BECKER, Florentine Politics and tbe Diffusion of Heresy in the Trecento: a Socio-Economic Inquiry, in «Speculum», 34 (1959), pp. 60-75.

AA.VV., Movimenti religiosi popolari ed eresie nel Medio Evo, in «Relazioni del X Congresso di Scienze Storiche», Firenze, Sansoni, 1955, pp. 305-541; G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Firenze, Sansoni, 1922¹, 1962², 1967³, 1971.

[1] Nell'età della riforma della Chiesa nicolaismo è sinonimo di disordine dei costumi e del concubinato del clero.

[2] G. FASOLI, Dalla «civitas» al comune nell'Italia settentrionale, Bologna, Patron, 1969, p. 137.

[3] La pataria è un movimento religioso popolare sorto a Milano nella seconda metà del secolo XI in reazione alla simonia e al nicolaismo del clero; cfr. C. VIOLANTE, La pataria milanese e la riforma ecclesiastica. I. Le premesse (1045-1057), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1955.

[4] Il catarismo fu una eresia caratterizzata da una profonda tensione spirituale, fondata sull'antitesi tra Bene e Male, spirito e materia (secoli XI-XIII); cfr. R. MANSELLI, L'eresia del male, Napoli, 1963.

[5] Raterio di Verona (Liegi 890 – Namur ca. 974) fu vescovo di Verona dal 932; fu cacciato più volte dalla sua diocesi per la sua aspra posizione critica contro il clero ricco e concubinario e per la sua rigida e intransigente condanna di ogni forma di peccato e di debolezza umana.

[6] Il «libro della ragione» era il più importante registro di contabilità di ogni grande azienda medievale.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05