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Fonti

L'ascesa della borghesia nell'Italia comunale

a cura di Anna Maria Nada Patrone

© 1974 – Anna Maria Nada Patrone


Sezione V – L'etica borghese

Introduzione

Per delineare i caratteri dell'etica borghese, distinta in genere da una certa aridità mentale e da un habitus di ipocrisia moraleggiante, occorre sottolineare che nel suo fondo è condizionata dalla mens mercatoris, cioè da una mentalità puramente utilitaristica.

Gli aspetti qualificanti della mentalità borghese possono tuttavia essere precisati soltanto dalla fine del secolo XIII, allorché questo nuovo ceto ebbe assunto una più precisa e definita fisionomia sociale e politica e possono essere così sintetizzati: 1) rispetto esteriore di ogni tipo di gerarchia sociale, politica e religiosa, anche se intimamente fu spesso profondo il dissenso dai contenuti morali che tale rispetto sembra sottintendere; 2) desiderio esasperato di successo, sia nell'ambito domestico, sia nelle attività remunerative, sia in campo politico, successo che deve essere ottenuto ad ogni costo, senza rifiuto di qualsiasi mezzo, purché la reputazione e la buona fama risultino salve; 3) aspirazione all'ordine, al «ragionevole», come si legge in molti scritti mercanteschi.

Queste virtù e questi successi non erano poi ricercati come fini a se stessi, ma perché indispensabili all'individuo ed alle famiglie come mezzo di affermazione e di prestigio, e quindi di ricchezza e di potere politico, le mete ultime ed ambite da ogni buon borghese.

Prestigio, buona fama e ricchezza, secondo la pubblicistica borghese dei secoli XIV e XV, si potevano ottenere in primo luogo familiarizzando con gli uomini saggi, ma soprattutto con i potenti, dimostrando riverenza verso la Chiesa , le sue istituzioni, le sue dottrine ed i suoi uomini e adottando rispetto ed obbedienza verso il potere politico costituito (cfr. lettura 4). Tale posizione portava naturalmente alla ricerca di amicizie ed appoggi influenti, a manifestare ostentatamente opinioni identiche a quelle di coloro che erano al potere ed a dimostrare un'aperta ostilità alle fazioni, ai partiti, ai movimenti contestatori dell'ordine costituito, fossero questi a carattere sociale, o religioso, o politico.

Il borghese-mercante, una volta raggiunto il successo, non poteva infatti non aspirare ad una società d'ordine, lontana da ogni ulteriore innovazione, da ogni trasformazione più o meno violenta.

Il vangelo di questi homines novi fu quindi sempre ed unicamente la sanzione sociale, il giudizio del prossimo, non tanto – o almeno non solo – per conformismo, quanto perché il commercio, gli affari esigevano e sottintendevano la stima e l'approvazione dell'ambiente in cui agivano, così come la riuscita politica, che è il secondo fine a cui tendevano i borghesi del XIV e del XV secolo, non poteva essere raggiungibile se non attraverso l'accordo con l'oligarchia dominante nel quadro della città.

Le «virtù» che quindi vengono proposte come modello di vita furono unicamente mondane e, si potrebbe aggiungere, virtù facilmente rilevabili dall'esterno: educazione, cortesia, buona istruzione, successo nell'ambito familiare, prestigio economico e politico, accordo con i vicini, gli amici, i soci in affari, rispetto per le leggi cittadine, manifestazioni pubbliche di devozione. Tali virtù erano però soltanto esteriori, il comportamento morale era spesso nettamente diverso, anzi veniva addirittura codificato nei consigli che i padri ammannivano ai figli adolescenti un atteggiamento che era in aperto contrasto con la morale conclamata. Ad esempio la ricchezza, la «masserizia», come felicemente viene definita da Leon Battista Alberti, era sempre considerata un bene in sé, ma era doveroso velarla per non suscitare invidia e odio; similmente tale ricchezza poteva essere raggiunta con qualsiasi mezzo, anche se ignobile, purché sicuro: infatti la morale cristiana non aveva nulla a che vedere con gli affari. Se qualche affare era poco onesto, come l'usura o l'accaparramento di beni di prima necessità, era sufficiente dissimularne il vero carattere per evitare reputazioni dubbie, complicazioni, noie.

Tale desiderio di «ordine» trova una sua esplicazione nella letteratura moralistica borghese del '300 e del '400, dove abbondano le raccomandazioni di evitare le eccentricità in ogni campo, sia politico, sia religioso; di rinunciare ad ogni spirito di avventura per l'avventura, a cui devono sostituirsi l'amore per il quieto vivere e per l'ordine, il geloso attaccamento alle proprie fortune economiche, ai «beni» della famiglia, al benessere proprio e dei propri parenti, la fedeltà alle idee tradizionali ed al modello di cultura mediato dalla scuola tradizionale, ma approfondito attraverso esperienze personali.

Tra i consigli pratici per il «perfetto borghese» possiamo dire che predomini quello di difendere i propri diritti ed i propri interessi ad ogni costo: ad esempio è costante nei pubblicisti borghesi l'invito di sottrarsi in qualunque modo alla fiscalità cittadina, ritenuta troppo pesante: questa fuga dai doveri civici non è considerata un atto disonesto, ma è lodevole perché permette di non intaccare i propri profitti.

L'etica borghese è quindi un'etica di classe, una morale che tende unicamente a salvaguardare i propri vantaggi e che non può e non deve essere condivisa da elementi appartenenti ad altri ceti. Caratteristico infatti della mentalità borghese è l'atteggiamento sdegnoso che viene assunto rispetto a coloro che sono più in basso (artigiani e villani, che diventano spesso oggetto delle satire più violente nella letteratura comunale). Verso i rappresentanti dell'antica classe signorile, l'atteggiamento borghese è invece in realtà abbastanza ambiguo: da un lato ci sono gli antichi risentimenti, il non superato complesso di inferiorità, dall'altro c'è un amore invidioso, alimentato talvolta dalla riluttanza dell'aristocrazia a mescolarsi con il nuovo ceto.

L'aspirazione all'ordine si rivela nelle due virtù essenziali che dovrebbero contrassegnare ogni buon borghese: la ragione e la prudenza.

La ragione, nell'accezione di normalità, di conformità all'ordine delle cose, di logicità ineluttabile, è la virtù tipicamente umana che si dovrebbe contrapporre alla passione, al capriccio, apportatori di disordini e di azioni illogiche. La passione infatti nei moralisti laici dell'epoca comunale non viene soltanto considerata, secondo il modulo cristiano, come la forza che abbassa l'uomo al livello dell'animale, ma, secondo un criterio molto mercantile, come un vizio che arreca danno e disdoro ed ostacola il retto e proficuo funzionamento degli affari. La ragione deve presiedere non solo alla vita esterna, agli affari, ma anche alla vita familiare, affinché in casa non si distrugga quello che l'attività esterna ha prodotto. In questa concezione d'ordine prende risalto il ruolo della donna, che la mentalità borghese, indiscutibilmente contrassegnata da tendenze misogine, riconosce valido soltanto entro i limiti dell'attività familiare. La letteratura borghese porta ben raramente a qualche riflessione sulla donna come individuo autonomo, dotato di una propria personalità: essa è sempre vista in relazione al comportamento dell'uomo, come «oggetto» che può essere usato, bene o male, dal naturale capo della casa. È chiaro che anche per la donna viene adottata la doppia concezione che il Medioevo usò abitualmente per il fanciullo, ora segnato e tarato dal peccato originale, ora simbolo di innocenza e di purezza. La tradizione cristiana diede luogo anche per la donna a due visioni sostanzialmente contrapposte: da un lato c'è la figlia di Eva, incline per sua natura al male, incostante, facile preda dei vizi, tentatrice; dall'altro c'è la «Donna», la madre e la moglie, dolce, obbediente, religiosa, casta, buona amministratrice del patrimonio familiare, saggia educatrice dei figli. Naturalmente da questi presupposti teorici, sorgeva per l'uomo la possibilità di una ambigua disponibilità di fronte alle donne: rispetto, devozione, dolcezza, fedeltà (o almeno relazioni che non portassero troppo scandalo o peggio ancora, danno agli affari; cfr. lettura 3), ma anche severità e durezza che potevano materializzarsi in punizioni corporali, espressamente permesse da certi statuti comunali, purché fossero per il bene della moglie (cfr. lettura 8).

Altra virtù borghese indicata come modello di vita è quella della prudenza, virtù dei tempi di crisi, come affermò Raffaello Morghen (La dottrina di Machiavelli, in Umanesimo e scienza politica, Milano, Marzorati, 1951, p. 338). Tale termine però non deve essere inteso nell'accezione moderna, cioè come sinonimo di precauzione, ma con il significato di saggia accortezza da parte di colui che ben conosce le conseguenze, buone o cattive, dei suoi atti: è a questa «prudenza» che fanno capo i consigli sulle misure cautelative da prendersi nei rapporti con gli eretici, le prostitute, i faziosi, i ribelli, perché tali rapporti potevano mettere in questione, anzi danneggiare irremediabilmente, la buona fama di un onesto borghese.

In conclusione si può affermare che la morale borghese accoglie la prassi dell'azione, dell'utilità, e mira unicamente al dominio concreto del mondo ed insieme alla fortuna dell'individuo, senza badare a remore di carattere etico.

Nota bibliografica sull'etica borghese

E. R. LABANDE, L'Italie de la Renaissance. Evolution d'une société, Parigi, Colin, 1954; L. MARTINES, The Social World of the Florentine Humanists 1390-1460, Princeton, University Press, 1963; oltre naturalmente la bibliografia delle sezioni II, III e IV.

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UpUltimo aggiornamento: 01/09/05