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Didattica > Strumenti > La città medievale italiana - 15

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La città medievale italiana

di Gina Fasoli e Francesca Bocchi

© 1973-2007 – Gina Fasoli e Francesca Bocchi


15. Aspetti della vita nelle città medievali italiane

È innegabile che nella storia delle città italiane il periodo comunale assume un fortissimo rilievo. La città era centro di attrazione per i proprietari, i feudatari e i castellani del contado, che vi trovavano possibilità di vita sociale e di attività politica confacenti alle loro ambizioni, ma anche per la gente delle campagne, che vi trovava la, possibilità di un lavoro più redditizio e meno ingrato; e certe città erano centro di attrazione per i mercanti forestieri che ne frequentavano i mercati e le fiere o addirittura vi si stabilivano o vi aprivano delle agenzie. La prosperità economica coincideva con l'ascesa sociale dei ceti economicamente attivi – favoriti dal fatto che i redditi professionali non erano soggetti alle imposte dirette – e dava luogo a un continuo rinnovamento delle strutture politiche e della vita culturale e artistica.

È il momento in cui i singoli hanno piena coscienza di essere membri di una comunità libera e autonoma; in cui rinasce il senso dello Stato, gli ideali di libertà e democrazia, concepiti secondo gli schemi della tradizione classica e realizzati nelle forme e nelle condizioni consentite dai tempi; in cui la città è sentita come comunità, attiva e operante in se stessa e nel confronto degli altri.

Che fosse obbligatorio accettare le cariche a cui si fosse stati eletti, così come era obbligatorio il servizio militare; che la libertà di associazione fosse controllata e limitata; che non ci fosse libertà di lavoro; che ogni attività produttiva fosse regolata da rigide norme, erano restrizioni unanimemente accettate, in quanto ritenute necessarie al bene comune, da individui che avevano un senso sociale più sviluppato e maturo di quanto si pensa. Così era accettato come un fatto naturale che diritti e doveri pubblici fossero proporzionati alle possibilità economiche, riducendo al minimo i doveri – e perciò spesso li diritti – dei nullatenenti, i quali non si sentivano per questo estraniati dalla collettività che garantiva loro la libertà personale e consentiva tutti quei progressi economici e sociali di cui fossero individualmente capaci. Anche se erano esclusi dalla partecipazione alla vita politica, i poveri sapevano di essere legati alla buona e alla cattiva fortuna della città e dei datori di lavoro, ed erano pronti – se le circostanze lo richiedevano – a scendere in piazza e a schierarsi sul campo di battaglia per difendere l'onore e la libertà della loro città, della loro patria, del loro partito.

Il patriottismo trovava la sua espressione formale nelle pagine dei cronisti che narrano eventi e descrivono monumenti e usanze [TESTIMONIANZE 36, 38, 39, 40, 41].

L'età comunale è il tempo in cui la lingua italiana definisce le sue forme lessicali e grammaticali e fornisce ai grandi scrittori trecentisti – e tra essi dobbiamo mettere, accanto ai poeti, anche i cronisti – il mezzo di espressione del loro mondo ideale. È il tempo in cui fiorisce lo studio del diritto, romano e canonico, e in cui nasce il «diritto comune», che associa princìpi di diritto romano e di diritto germanico ed e fondamento del diritto moderno; e il tempo in cui fra tutte le città italiane e tutti i paesi transalpini e transmarini c'è uno scambio continuo di uomini, di cose, di idee, di nozioni, di scoperte e invenzioni dirette a migliorare le varie tecniche di lavorazione e ad aumentare la produttività.

È anche il tempo in cui l'aspetto delle città si rinnova e si trasforma: sorgono le grandi cattedrali, le grandi chiese degli ordini mendicanti, delle contrade cittadine, delle confraternite: le loro forme architettoniche si arricchiscono di pitture e sculture ad opera dei precursori e dei continuatori di Giotto e di Nicola Pisano; sorgono i grandi palazzi comunali, la cui pianta si articola intorno alla grande sala centrale, destinata ad accogliere, i consigli comunali, di cui fanno parte centinaia di persone; sorgono i palazzi delle corporazioni, strutturati in maniera analoga; sorgono i palazzi e le torri dei ricchi cittadini, nobili e mercanti. Le città assumono quell'aspetto che in parte è rimasto quasi intatto: strade strette e tortuose, portici, case sporgenti su beccatelli, archivolti, loggiati, piazzette con un pozzo o una fontana, e una gran piazza dominata dalla cattedrale o dai palazzi comunali. Le piante di molte città italiane dicono molte se a chi le sa interpretare: premesso che nessuna città era tanto grande che camminando di buon passo non si potesse traversarla da una parte all'altra in un'ora o poco più, le piante rivelano l'impianto ortogonale delle antiche città romane, il progressivo allargamento della cerchia murata, di cui l'andamento delle strade indica il tracciato anche se le mura non esistono più; mostrano le strade che uniscono la città al contado e che divergono a ventaglio alle varie porte. Ma e proprio l'ultima cerchia, rimasta quasi dovunque immutata per secoli nel suo perimetro, a dirci che l'incremento demografico verificatosi fra l'XI e il XIII secolo, e dovuto in parte all'accrescimento naturale della popolazione, in parte all'immigrazione dal contado, ad un certo momento si è arrestato ed è stato seguito da una contrazione dovuta al succedersi di carestie e di epidemie: la più famosa è la peste del 1348, che devastò l'Italia e l'Europa ed ebbe ripercussioni economiche e politiche notevolissime, ma che non fu né la prima né l'ultima.

La decisione di allargare la cerchia delle mura esistenti, costruendo una nuova cerchia, era ovviamente di competenza delle autorità comunali che si preoccupavano anche di regolare il crescere e l'addensarsi delle case per evitare che il suolo pubblico venisse arbitrariamente occupato, che la circolazione venisse ostacolata, che le case superassero una determinata altezza, che nelle piazze e nelle strade si accumulassero rifiuti, imponendo agli abitanti l'obbligo di pulizie periodiche, per lo più settimanali. Le autorità comunali avevano cura anche della pavimentazione stradale, della manutenzione degli scoli delle acque piovane e delle fognature; cercavano di allontanare dal centro le attività rumorose e maleodoranti, proibivano che per le strade circolassero capre e maiali, mostrandosi tuttavia tolleranti con le oche, le anatre, i polli.

Nessuna preoccupazione invece per il «verde»: fra una strada e l'altra, dietro alle case affiancate le une alle altre senza intervallo, si stendeva una larga fascia di orti e giardini, che in molte città, per lo meno in certe zone, esiste miracolosamente ancora. Molte prescrizioni invece per la prevenzione degli incendi. Il legname era largamente impiegato nelle costruzioni: pilastri di portici, solai, scale, balconi, pareti divisorie erano assai spesso di legno; molti tetti erano di paglia o di scandole, e in tutte le case, in tutti i cortili c'erano depositi di fieno e di paglia per i cavalli, per cui il pericolo di incendio era sempre imminente, e le cronache ricordano frequentemente la distruzione di interi quartieri divorati dal fuoco.

Le case dei ricchi, dei maggiorenti cittadini, erano concentrate – abbiamo detto – nel cuore della città, intorno alla cattedrale, al palazzo vescovile, al palazzo comunale. I vari rami delle famiglie più antiche s'erano sistemati gli uni vicini agli altri, e le loro case – protette materialmente da una torre che apparteneva a tutti e spiritualmente da una cappella su cui tutti esercitavano diritto di patronato – formavano quasi un’isola gentilizia, accanto ad altre isole simili. Si sceglievano come capo il più autorevole dei «consorti», avevano una bandiera con un'insegna intorno a cui si schieravano in guerra o nei tumulti cittadini, e la stessa insegna che figurava sulla bandiera era dipinta sulla facciata delle loro case sulle loro armi.

Intorno alle case dei ricchi c'erano case più modeste, sempre più modeste via via che ci si allontanava dal centro. La cattedrale non era la sola chiesa della città: c'erano chiese parrocchiali o piccoli oratori, c'erano conventi maschili e femminili, con le loro chiese aperte a tutti i fedeli; c'erano ospizi per i poveri e gli infermi, per gli orfani e i trovatelli: con tutti i loro difetti di organizzazione e funzionamento, spesso denunciati senza mezzi termini, questi ospizi, spesso fondati per iniziativa privata e alimentati da offerte individuali, attestavano l'obbedienza ai precetti della carità evangelica e della solidarietà umana.

Accanto a modeste scuole a livello elementare, in cui si imparava a leggere, scrivere e far di conto quanto bastava per tener dietro ai propri affari, c'erano scuole a livello superiore, più, o meno qualificate, e scuole a livello universitario, alcune delle quali antiche e famose.

Non mancavano gli alberghi, le osterie, i bagni pubblici, con le loro insegne pittoresche, né mancavano le bische e i postriboli, autorizzati e organizzati e strettamente sorvegliati dalle autorità comunali, sempre diffidenti di fronte ai forestieri e a coloro che esercitavano attività dichiarate «infami», sempre preoccupati di tutelare la pubblica moralità. Nel reticolato delle strade urbane si aprivano delle piazze: la piazza del comune, la piazza della cattedrale, la piazza del mercato quotidiano di viveri e commestibili, la piazza del mercato settimanale, dove si vendevano oggetti d'ogni genere e dove si tenevano fiere periodiche che vedevano gran concorso di mercanti forestieri. E c'erano anche spiazzi liberi di cui bambini, ragazzi e giovanotti – malgrado i divieti – approfittavano per i loro giochi, spesso violenti e rumorosi; e paurosi spazi nudi lasciati dalla demolizione delle case di coloro che si erano macchiati di gravi delitti [TESTIMONIANZA 26].

Le strade erano sempre affollate tanto dai viandanti quanto dagli abitanti, che svolgevano la loro attività sotto al portico della casa dove avevano la loro bottega, il loro laboratorio. Molti si raccoglievano vicino al mercato e la toponomastica cittadina li ricorda ancora: via degli Orefici, via degli Spadari, via dei Calzaioli, ecc. Altri – tintori, mugnai, conciatori – cercavano, come era naturale, una sede in cui poter usufruire di uno dei corsi d'acqua naturali o artificiali che traversavano la città. Malgrado tante inconsulte e inutili sostituzioni di vecchi nomi, la toponomastica, cittadina rievoca ancor oggi la localizzazione delle attività economiche e produttive, l'ubicazione delle case e delle cappelle delle grandi famiglie.

Sulla dislocazione di fondaci e di botteghe, sull'andamento delle strade ha inciso in maniera determinante e tuttora riconoscibile la presenza di porti marittimi o fluviali, la preminenza di certe vie di traffico in confronto ad altre. Tuttavia, se ci si vuol pender conto della vita di una città medievale, più ancora che dell'aspetto interno delle città, della struttura delle case, della distribuzione degli ambienti, della qualità e della quantità degli arredi domestici, si deve tener conto delle strutture sociali.

Le famiglie erano solidi organismi naturali e morali, sostenute da norme giuridiche dirette a salvaguardare il patrimonio comune ma anche a tutelare i diritti che su questo stesso patrimonio avevano i singoli componenti. La consistenza del patrimonio – beni immobili e mobili – condizionava la partecipazione dei singoli alla vita pubblica e il prestigio morale e sociale della famiglia nel suo complesso: si spiega così come la pena più grave che potesse essere inflitta a chi si macchiava di un grave reato o al nemico politico soccombente fosse la distruzione della casa.

La vita delle famiglie e dei singoli si svolgeva nell'ambito della vicinia, cioè di quelle minori circoscrizioni territoriali in cui da tempo immemorabile si suddividevano i quartieri cittadini e che corrispondevano alle parrocchie, cioè agli organismi minori in cui si articolava la struttura ecclesiastica cittadina, che un tempo aveva fatto capo esclusivamente alla chiesa cattedrale [BRANO CRITICO 3].

La vicinia aveva le sue assemblee e i suoi capi elettivi, forniva all'esercito cittadino fanti e cavalieri già inquadrati sotto i loro comandanti, forniva sentinelle che vegliavano la notte sulle mura, guardie che facevano la ronda notturna per le strade; i più giovani partecipavano con entusiasmo a gare di ogni genere con i coetanei delle altre contrade a scopo di addestramento sportivo e militare. I capi della vicinia controllavano la manutenzione delle strade e dei pozzi, l'osservanza delle norme antincendio, provvedevano all'allontanamento dei lebbrosi e delle prostitute, denunciavano eretici, giocatori d'azzardo fuori regola, bestemmiatori e ladri notturni, controllavano il rispetto degli ordinamenti suntuari: tutte attività che sarebbe erroneo definire «decentrate», perché sono altrettanto antiche – se non più antiche – dell'accentramento dei servizi da parte dell'autorità che amministrava la città.

La curiosità, non sempre benevola, dominava i rapporti fra i vicini, ma in caso di necessità tutti erano pronti ad aiutarsi reciprocamente, come era imposto dalla carità cristiana, dalla consuetudine e dalla convenienza.

Coloro che lavoravano erano iscritti alle rispettive corporazioni, che erano modellate sulla struttura del comune: un'assemblea generale dei soci, un consiglio, degli ufficiali eletti con un sistema misto di estrazione a sorte e di votazioni,così che tutti in vita loro potevano sperare di entrare a far parte degli organi direttivi dell'associazione, di cui erano tenuti a osservare le regole nell'esercizio del loro lavoro e nella pratica dei doveri religiosi ed assistenziali comuni, e dalla quale potevano attendere solidarietà e assistenza per sé e per la famiglia in caso di invalidità o di morte. Chi non entrava nelle associazioni artigiane entrava nelle associazioni armate che, ordinate allo stesso modo, assolvevano a funzioni di polizia in caso di disordini e a servizi militari in caso di guerre esterne, e come le associazioni artigiane imponevano doveri religiosi ai soci, ai quali assicuravano aiuto e protezione in tutti i casi della vita e in caso di morte. Chi non si appagava delle manifestazioni di vita religiosa che facevano capo alla parrocchia, delle pratiche devote imposte dalle associazioni artigiane, delle associazioni armate che per natura loro avevano obiettivi del tutto secolari, entrava in una delle tante confraternite, modellate anch'esse sullo stesso schema. Ma per chi non voleva saperne di preghiere e di mortificazioni e di penitenze, c'erano anche delle brigate goderecce, più o meno organizzate, ma abbastanza impegnative per quelli che ne facevano parte.

I forestieri avevano anch'essi le loro associazioni, fossero mercanti o studenti universitari.

Ognuno faceva parte di almeno uno di questi organismi collettivi. Nessuno era ignorato e isolato, e sebbene le feste fossero molto numerose, non esisteva il problema del «tempo libero», perché tutto si risolveva in manifestazioni comunitarie. Feste religiose, civili, popolari, familiari, cicli di predicazione di frati famosi, catastrofi naturali – alluvioni, terremoti, epidemie – incendi, tumulti, espulsione di centinaia di avversari politici, rientro spettacolare di centinaia di esuli e clamorose riconciliazioni pubbliche; sacre rappresentazioni sul sacrato della cattedrale, spettacoli di saltimbanchi e declamazioni di giullari e cantastorie nella piazza del comune o in quella del mercato, corse di cavalli, diventavano manifestazioni corali, in cui tutti erano spettatori e attori a un tempo, e in questa partecipazione realizzavano pienamente se stessi. 

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UpUltimo aggiornamento: 02/08/08