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Didattica > Strumenti > Bisanzio. Società e stato - 8

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Bisanzio. Società e stato

di Jadran Ferluga

© 1974 – Jadran Ferluga


8. Il declino e la caduta di Bisanzio

La riconquista di Costantinopoli, nel 1261, non apportò mutamenti radicali nello sviluppo dell'impero bizantino. Gran parte degli antichi possedimenti era definitivamente perduta sia in Asia Minore che nei Balcani; alcune regioni si erano staccate e praticamente vivevano vita propria (Epiro, Tessaglia), altre erano ancora sotto il dominio franco (Attica, Beozia, parte delle isole). Costantinopoli, sempre grande centro urbano di importanza commerciale e culturale e riassunta al ruolo di capitale imperiale, era una testa troppo grande e pesante per un corpo statale indebolito, gracile e territorialmente molto ridotto. Quanto instabile sia un tale equilibrio e quanti problemi crei un tale rapporto ce lo ha mostrato ancora recentemente, dopo la prima guerra mondiale, una piccola repubblica che aveva per capitale un'immensa città sproporzionata al territorio statale quale Vienna. Il rientro trionfale dell'imperatore, della corte, del patriarca e dell'amministrazione bizantina nella riconquistata ma alquanto mal ridotta e spoglia capitale fu naturalmente accompagnato dalla resurrezione e dal risveglio dell'ideologia imperiale e universalistica, che era stata accantonata, almeno in pratica, per un mezzo secolo. I suoi punti essenziali non furono però mai abbandonati sino alla fine dell'esistenza dell'impero. Sostenitrice convinta del dogma dell'universalità dell'impero fu, fino alla sua caduta, la Chiesa, una delle poche forze ben organizzate e stabili.

Quando, verso la fine del XIV secolo, l'impero era ridotto alla sola capitale e circondato da ogni parte dai Turchi, il patriarca Antonio scriveva ancora al granduca di Mosca, Basilio I, rimproverandogli di aver dimenticato che c'era solo un impero e solo un imperatore e questi era quello dei Romei che risiedeva a Costantinopoli (vedi DOC. N. 28).

Dopo la riconquista della capitale, l'impero fece grandi sforzi per riaffermarsi sul piano internazionale ma inutilmente. Ancora sotto il regno dell'imperatore Michele VIII Paleologo esso s'immischiò negli affari mediterranei conducendo una politica attiva sì ma volta piuttosto alla difesa che alla conquista o espansione. Rimase quindi oggetto piuttosto che soggetto della grande politica e presto passò a stato di terzo rango; già alla metà del XIV secolo scadde a vassallo dei Turchi Ottomani e alla fine, quando era ormai ridotto alla sola capitale, tagliato fuori dal suo più prospero e splendido possesso, il Peloponneso o Morea, fu sommerso dai Turchi nel 1453. Non molto dopo, nel 1460, gli stessi Turchi entravano in Mistrà, capitale del Peloponneso bizantino, ponendo fine all'impero che da quasi due secoli era moribondo.

In quest'ultimo periodo le forze sociali, che dall'XI secolo erano in continua ascesa, raggiunsero il punto più alto del loro sviluppo e furono esse, non le vecchie strutture statali, a caratterizzare l'ultima epoca bizantina. I grandi proprietari fondiari avevano già alzato la testa negli ultimi anni dell'impero di Nicea. Con i Paleologhi trionfarono completamente, e fra essi soprattutto i membri della famiglia imperiale, che possedevano immensi latifondi. I grandi signori feudali avevano i loro seguiti armati e spesso furono essi, poiché lo stato non ne era più in grado, a formare o finanziare nuovi eserciti e flotte. Crebbe l'estensione della grande proprietà e con essa si acuì il processo di differenziazione in seno all'aristocrazia fondiaria e si formò uno strato sociale di grandi e potenti latifondisti. Ne trassero nuovo impulso le forze centrifughe, di espressione tipicamente feudale, che erano in opera da qualche secolo.

Abbiamo visto come a partire dal XII secolo Cipro, Trebisonda, Filadelfia in Asia Minore, Epiro e Tessaglia e tante altre regioni si fossero staccate più o meno permanentemente dall'impero. Questo processo continuò ancora più vigorosamente sotto i Paleologhi con la distribuzione, da parte degli imperatori, degli appannaggi, cioè di regioni o province, ai membri della famiglia imperiale, appannaggi che, anche se non formalmente, erano di fatto indipendenti sia dal punto di vista amministrativo che politico. Ancora verso la fine del XIII secolo proposte di divisione dell'impero avevano sollevato scandalo. Cinquant'anni più tardi l'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354) elevò a sistema la donazione di appannaggi. Diede al figlio Matteo la Tracia occidentale e a Manuele la Morea, e riconobbe la Tessaglia come appannaggio della famiglia degli Angeli. Alla fine del XIV secolo non esistevano più né l'unità d'impero né un governo centrale: l'imperatore Giovanni V Paleologo (1341-1391) risiedeva a Costantinopoli (vedi DOC. N. 30) ma la Tracia, Tessalonica con la regione circostante e la Morea erano appannaggi, e quindi di fatto indipendenti, sotto i suoi tre figli Andronico, Manuele e Teodoro. Le forze feudali si espandevano e dominavano lo stato e nulla ormai poteva più frenarle o fermarle. L'effettivo potere era nelle mani dei grandi signori, in primo luogo dei membri della famiglia imperiale (vedi DOC. N. 27), mentre della vecchia autorità del governo centralizzato, con un potente ed efficiente apparato burocratico, era rimasta appena una debole ombra. Gli scrittori del tempo non riuscivano a ricordarsi o ignoravano quale fosse il contenuto di cariche quali «logoteta del dromo» o «eparco della città», importanti ancora tre secoli addietro; la maggior parte di esse sono ora vuoti titoli di corte.

Accanto alla grande proprietà laica, quella della Chiesa, e soprattutto dei monasteri, assunse proporzioni mai viste prima. È vero però anche che, proprio grazie alla continuità del possesso monastico e alla tradizione documentaria conservatasi fino a oggi, siamo molto meglio informati sui beni della Chiesa che non su quelli dei laici; ma è comunque manifesto che ambedue caratterizzarono lo sviluppo dell'ultimo periodo bizantino.

La pronia continuò a diffondersi anch'essa e a rafforzarsi. All'origine era stata un possesso temporaneo e condizionato; col tempo divenne ereditaria (e anzi questa rappresentò poi la regola), ma non fu mai resa alienabile e rimase condizionata dal servizio militare ereditario, così che modificò solo in parte il suo carattere originario. I cambiamenti quantitativi, per quanto di grande portata, non furono certo gli unici a influire sul possesso fondiario nel periodo tardo-bizantino. Altrettanto importanti furono quelli concernenti il potere dei signori feudali sui loro contadini, sui loro «parici». Crebbero i loro diritti immunitari, non solo sul piano tributario ma anche su quello giurisdizionale: lo stato rinunciò al controllo del numero dei «parici», le libertà dei contadini furono sensibilmente ridotte, furono date ai signori feudali nuove possibilità di prelazione sui beni contadini in certi casi (per es. di successione). D'altronde, non era in decadenza soltanto la proprietà contadina ma anche quella dell'aristocrazia media e piccola, le cui terre furono in parte assorbite dai grandi signori. La differenziazione sociale aveva fatto passi da gigante (vedi DOC. N. 24).

Questi cambiamenti evidentemente scalzarono anche i resti dell'organizzazione delle forze armate, che ormai erano nelle mani dell'alta nobiltà tanto sul piano personale che su quello finanziario. Quanto mal ridotte esse fossero, divenne evidente sotto il regno dell'imperatore Andronico II (1282-1328) allorché egli non riuscì, malgrado una riforma finanziaria, a mettere in piedi un esercito di 3000 uomini (2000 per il servizio in Europa e 1000 per quello in Asia Minore), né a formare una flotta di 20 triremi.

Le finanze erano in rovina e la situazione, invece di migliorare, divenne sempre più critica. La svalutazione precipitava: all'inizio del XIV secolo il nomisma bizantino, o come veniva chiamato sempre più spesso l'iperpero, conservava appena la metà del suo valore originario. Esso continuò a perdere livello e a peggiorare di lega, per cui i pagamenti si facevano a peso e non al pezzo. Nel commercio internazionale il posto del nomisma fu preso dalla «buona moneta» delle grandi repubbliche commerciali italiane.

Perdite territoriali, guerre civili, svalutazione monetaria, concorrenza spietata di commercianti stranieri che affluivano ancora numerosi nel fiorente centro di Costantinopoli (vedi DOC. N. 25), provenienti dai paesi arabi o italiani, provenzali o spagnoli, russi o balcanici, ma in primo luogo da quelli veneziani e sempre più da quelli genovesi (vedi DOC. N. 29), tutto ciò contribuì a ridurre il bilancio statale a misere somme. Come prima nel cuore dell'impero e di Costantinopoli s'era insediata Venezia, così verso la fine del XIII secolo i Genovesi fondarono la loro colonia a Galata o Pera, dunque di fronte a quella veneziana, che fortificarono come se fossero in territorio nemico, e da dove controllarono sempre più il commercio e le finanze bizantine. Queste non bastavano né per l'esercito mercenario, anche se ormai minimo, né per le spese di corte spesso più che modeste. Se ancora all'inizio del XIV secolo si era potuto pensare a un esercito di 3000 uomini e a una flotta di 20 navi da guerra, verso la fine dello stesso secolo l'imperatore Manuele II, al momento di partire per l'occidente, lasciava a difesa della capitale 100 cavalieri francesi, 100 servitori armati, una compagnia di arcieri e otto galere, che erano state poste a sua disposizione dai Veneziani e dai Genovesi.

Neppure imposte nuove e straordinarie, o tasse prelevate due o tre volte l'anno, potevano riempire le casse dello stato. Gli imperatori ricorsero a donazioni di ricchi signori feudali, a prestiti all'estero, e per esempio alla ricca ma poco sentimentale repubblica veneta (vedi DOC. N. 26), per cui si trovano ancora oggi nella chiesa di San Marco i gioielli della corona depositati quale garanzia nel XIV secolo; o a pie oblazioni come quella inviata dal granduca russo Basilio II nella prima metà del XV secolo per eseguire ingenti riparazioni alla chiesa di Santa Sofia ma con grande scandalo dei contemporanei impiegate come soldo per truppe mercenarie. Nelle città, che si andavano riducendo sempre più a centri di regioni agricole, la vita era determinata dall'aristocrazia fondiaria. La politica imperiale di controllo sia dell'industria che del commercio, e soprattutto i sempre maggiori privilegi concessi a partire dalla fine dell'XI secolo alle repubbliche marinare italiane avevano soffocato l'iniziativa delle classi cittadine: fu così che Bisanzio divenne una specie di Hinterland economico dei centri commerciali italiani (Každan).

Nelle città bizantine non sorse mai una classe capace di incrementare lo sviluppo commerciale e industriale, come accadeva in occidente. Non si può dire che una tale classe mancasse del tutto; poiché anzi si sviluppò fino a un certo livello, ma non assunse mai forza sufficiente a inculcare nuove energie allo stato o a imprimergli una nuova direzione nella politica economica e sociale. Il tentativo più serio da parte delle nuove forze economiche e sociali sorte dallo sviluppo del primo capitalismo fu compiuto a Tessalonica, dove un partito popolare, quello degli «zeloti», poté assumere verso la metà del XIV secolo il potere nelle proprie mani per quasi un decennio. Ma le sue forze non ressero e l'alta aristocrazia poté ben presto riprendere le posizioni perdute. La mancanza di una giovane e vigorosa, intraprendente e audace borghesia bizantina fu certamente una delle cause, ma non la sola, che portò al crollo dell'impero. Il trionfo della reazione aristocratica feudale e la posizione privilegiata delle repubbliche marinare italiane, in primo luogo Venezia e Genova, con le loro immense privative commerciali, finanziarie, doganali, impedirono lo sviluppo di una borghesia quale si era formata in occidente. Forse una tale classe sarebbe stata una forza capace di opporsi alle tendenze centrifughe, separatistiche e smembratrici che indebolirono, scalzarono e rovinarono l'edificio dello stato bizantino dall'interno fino a un tal punto che cadde, come frutto maturo, in mani turche.

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UpUltimo aggiornamento: 02/07/05