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La mercatura medievale

di Armando Sapori

© 1972-2006 – Armando Sapori


4. La figura del mercante

Nel parlare della crisi dell'economia nel mondo occidentale, verso la metà del Trecento, mi sono soffermato sui fatti e ho accennato fugacemente alla stanchezza del mercante italiano dopo la fatica fatta lungo un cammino di più di due secoli, irto di difficoltà materiali e di tormento spirituale. Questa stanchezza si riconosce in un mutamento quasi a un tratto della sua figura. Perso il mordente dei valori morali  è incapace di portarsi al di là delle mète raggiunte, per un poco mantiene le posizioni a cui era arrivato, e poi cede le armi. Da un confronto fra lo stato d'animo del mercante del primo e del secondo momento balzano a mio modo di vedere la portata e il senso della crisi.


1. Il mercante italiano dell'età eroica

a) PERSONALITÀ. Siamo abituati a considerare caratteristica del «Medioev » la solidarietà di gruppo, da quello familiare a quello corporativo, tanto forte da annullare i tratti personali di coloro che del gruppo facevano parte; a ritenere caratteristico del «Rinascimento» l'esplodere della personalità che il Burckhardt trovò nella elite dei tiranni, dei condottieri e degli uomini d'ingegno da loro protetti, i cancellieri e i segretari. Non conosceva, il Burckhardt, i mercanti dei secoli XIII e XIV – non li poteva conoscere perché un secolo fa nell'ambito dell'indirizzo storiografico dell'idealismo gli studiosi non comprendevano l'economia tra le espressioni della struttura di una civiltà –; è per questo che sarà di maggiore interesse presentare sinteticamente all'inizio di questo capitolo la figura del grande uomo di affari del Due e del Trecento non confuso nella anonimità del gruppo ma dal gruppo decisamente emergente con una poderosa e varia personalità: non soltanto mercante e banchiere e reggitore dei Comuni, ma anche tesoriere di principi stranieri, organizzatore dei loro eserciti e delle loro flotte, loro rappresentante diplomatico. Dico di più: non soltanto l'«uomo universale» che non si troverebbe prima del Quattrocento era una realtà di anni precedenti; ma in quegli anni si aveva addirittura la sensazione di tale universalità. Bonifacio VIII, per esempio, che nel giorno della incoronazione ebbe l'omaggio di tutti i signori della cristianità, constatando che tutti erano rappresentati da mercanti di Firenze, pronunciò la frase famosa «i Fiorentini sono il quinto elemento dell'universo». D'altronde, fu proprio per il precoce individualismo che nel campo corporativo la concorrenza fra singoli e fra Arti si iniziò di buon’ora, come si è visto, passando attraverso alle maglie di una legislazione a prima vista rigorosissima; che le prime crepe venarono il blocco già monolitico della famiglia, via via meno accentrato attorno al padre e al nonno capi assoluti della casata e, se c'era, della compagnia mercantile, la quale già dai primissimi del Trecento si scindeva alla morte del genitore per formarne altre a nome dei singoli figlioli.


b) ISTRUZIONE [v. LETTURA 7]. Henri Pirenne, partendo dalla considerazione che ogni commercio appena un po' sviluppato presuppone necessariamente in coloro che lo esercitano un certo livello di istruzione – tanto che si può affermare che l'istruzione dei mercanti di una data epoca è determinata dalla attività economica dell'epoca stessa e nel medesimo tempo ne è un indice certo –, si è chiesto quali furono i mezzi di apprendimento del mercante. Nelle regioni nelle quali ha spinto a fondo le ricerche, le Fiandre, è risalito alla metà del secolo XIII; e, quanto all'Italia, ha avanzato la supposizione che ci si possa spingere addietro: «In Italia l'istruzione dei mercanti nel secolo XIII appare talmente sviluppata e superiore a quella delle regioni del nord che non si può fare ameno di ammettere che si appoggiasse su un lungo passato». Purtroppo mancano prove esaurienti, ma ciò che sappiamo – ed è molto di più di quello che era noto al Pirenne –, per il Due e il primo Trecento, autorizza a tramutare la supposizione in certezza. Comunque si passò dalla scuola presso il convento alla scuola comunale istituita non senza aspre lotte col vescovo e che procedeva in parallelo con la scuola privata: nella quale l'ortodossia degli insegnanti non doveva essere obbligatoria se col tempo ne troveremo a Firenze una in via Ghibellina di cui era titolare Gasparo di Ricco segnato per eretica pravità e fra gli esponenti del tumulto dei Ciompi. Era ordinata su tre gradi: Giovanni Villani così riferisce per Firenze nel primo trentennio del Trecento: «troviamo ch'e' fanciulli e fanciulle che stanno a leggere [sono] da 8 a 10.000; i fanciulli che stanno a imparare l'abbaco e algorismo in sei scuole, da 1000 in 1200; e quelli che stanno ad apprendere la grammatica e logica in quattro grandi scuole da 550 in 600» . Per immettersi nel giro degli affari occorreva infine il tirocinio presso il «fondaco» – laboratorio o negozio di vendita –, la scuola del lavoro pratico. Scrive Donato di Filippo Velluti del figlio Lamberto: «Venne crescendo e puosilo a squola: avendo apparato a leggere e avendo bonissimo ingegno, memoria e intelletto, e buono e saldo parlare, apparava e apprendeva bene; di che in poco tempo fu buono grammatico. Puosilo all'abaco, e diventò in pochissimo tempo buon abachista. Poi nel levai, e avendogli fatto una bottega di lana in prima con Ciore Pitti e poi con Manente Amidei, il puosi alla cassa. Stette parecchi anni senza avervi amore: poi cominciò a porvi amore, e eravi tanto sollecito e tanto sperto, quanto fosse giovane di questa terra; e avendogli messo in mano il libro del dare e dell’avere il tenea guidava e governava come avesse quaranta anni. E per lo suo intelletto e sua grande memoria, se ci fosse vivuto sarebbe stato de’ sufficienti artieri e mercatanti di questa terra». Dal che si ha che il «sufficiente artiere e mercante» era una persona dotata di intelligenza, di grande passione per il suo mestiere, di cultura tecnica.

Altro mezzo di apprendimento erano i viaggi. Ci sarebbe da pensare che il bisogno di spostarsi continuamente gli uomini di affari dei secoli della grande avventura l'avessero ereditato dai loro lontani progenitori girovaghi; ma c'era inoltre, in loro, e sempre più, la volontà di rendersi conto delle cose del vasto mondo per la consapevolezza che avrebbe giovato al migliore svolgimento dei loro negozi: ne fanno prova i carteggi ricchi di notizie di ogni genere, e che, portati a conoscenza nell'ambito cittadino, costituivano una delle fonti a cui attingevano gli stessi cronisti. Durante quei viaggi tenevano nota di quanto riguardava le varie piazze: merci richieste e merci offerte, monete correnti e cambi fra loro, pesi e misure e loro equivalenze, modalità delle contrattazioni, spese di trasporti e dazi pagati lungo le vie. Ecco le «pratiche di mercatura» sul modello del Libro delle bellezze dei commerci e la conoscenza delle mercanzie che avevano trovato presso i progrediti colleghi arabi, che è collocato fra i secoli IX e XII e attribuito a Ab-Dimisqùi. Il più noto di questi manuali a stampa, utilissimi alle aziende del tempo e ferri del mestiere per gli storici, è scritto nel terzo decennio del Trecento da Francesco di Balduccio Pegolotti, la cui vita oggi ricostruita quasi per intero fa prova di una di quelle personalità di primo piano di cui or ora dicevo. Fattore della compagnia dei Bardi dal 1300 al 1340, fu dapprima ad Anversa, diresse poi la succursale di Londra dal 1317 al 1319, poi ancora quella di Cipro dal 1326 al 1329; e in queste sedi svolse anche un'opera che si può dire diplomatica trattando condizioni di favore per tutti i mercanti fiorentini con i Signori di quei paesi: nel 1317 con il duca di Fiandra, nel 1324 e nel 1327 con il re di Cipro, nel 1336 col re d' Armenia che concesse addirittura l'esonero da ogni dazio e l’immunità dalle rappresaglie. Negli intervalli fra queste missioni, mentre curava gli affari della società al centro, si occupò di politica ricoprendo più cariche fino a quella di Gonfaloniere di giustizia. Il suo stipendio fu di  200 fiorini d'oro l'anno, dei più elevati tra quanti risultino dai libri contabili delle aziende del tempo, e di cui possiamo farci un'idea sapendo dal Villani che il «salario per i camarlinghi della Camera del Comune, dei loro ufficiali, e massai, e notai, e frati che guardavano gli atti pubblici» ammontava, appunto fra il '36 e il '38, complessivamente a 486 fiorini, e che «le spese di mangiare e bere dei signori Priori [sette più un notaio] e di loro famiglie [un piccolo esercito burocratico compresi gli armigeri e i trombetti]» ammontavano a tre fiorini il giorno.

Il problema dell'apprendere le lingue straniere, quando i mercanti italiani andavano all'estero, era pressoché inesistente perché il loro idioma era noto ovunque: anche nel secolo XV, dice Pirre Jeannin, «gli italiani si trovano nella posizione degli anglosassoni di oggi; la loro lingua è la lingua internazionale degli affari». E non fa caso che Giancarlo Affaitadi sia stato per quaranta anni della sua vita nei Paesi Bassi «senza servirsi seriamente di altra lingua che l'italiana».

Che cosa aveva imparato il mercante con questi strumenti di apprendimento? Assai più di quanto serve a smentire il  pensiero di Werner Sombart «essere un'idea del tutto moderna che i calcoli debbano considerarsi come necessari», mentre il mercante del Medioevo si sarebbe accontentato della «approssimazione». Quanto all'aritmetica, calcolava con estrema esattezza gli interessi composti – diceva «fare capo d'anno» –; l'adeguato di scadenza – diceva «ragguagliare in un dì» e contava anche per mezza giornata se la registrazione era effettuata la mattina o nel pomeriggio –; lo sconto – diceva «scomputo» e provvedeva sempre allo sconto razionale e non a quello commerciale che è più semplice –; nel rapportare infine tra loro le tante monete del tempo era così preciso da spingere le divisioni a molti decimali. «Approssimazione»? Oggi sì che si fanno gli arrotondamenti; non li faceva lui, che in cifre di migliaia e decine di migliaia di lire arrivava fino ai denari, la dodicesima parte del soldo, e la 240ª della lira.

Quanto alla contabilità, attraverso a molti libri, ancorché non nettamente caratterizzati, poteva stare al corrente della situazione dell'azienda e stabilire ai bilanci – li diceva «saldamenti» – gli utili e le perdite e attribuirli a ciascuno dei soci, sempre fino al denaro, in proporzione del capitale conferito nella società. Presi in mano i registri di una compagnia del 1318 e impostati tutti i dati entro gli schemi contabili moderni, sono giunto ai medesimi risultati degli «scrivani» di allora.

Ricordo infine, a prova della padronanza di tecniche avanzate, l'abilità con la quale già nel Dugento il mercante manovrava nel campo dell'arbitraggio: in una lettera del 5 luglio 1260 [v. LETTURA 8] – in un momento in cui occorrevano grosse somme per la famosa battaglia di Montaperti (del 4 settembre) – è descritta chiaramente una determinazione di convenienza economica per il procacciamento dei capitali fra tre mercati finanziari, di Francia, di Inghilterra e di Siena: il minor saggio di interesse corrente in Francia fa preferire l'indebitamento in quel paese alla utilizzazione delle disponibilità ottenute in Inghilterra (vendite di sterlini) e alla creazione di debiti in Siena dove, per la scarsità del denaro conseguente appunto alla guerra, l'interesse era particolarmente elevato.

Ho insistito sulla volontà della precisione, e poche pagine avanti ho detto della razionalità del mercante nell'organizzare gli affari perché ritengo che i dati acquisiti, elementi ormai sicuri alla mano, aprano non uno spiraglio ma una porta per renderci conto della importanza di una figura che, nello staccarsi nettamente dalla mentalità della massa dei contemporanei, si proietta nel futuro. Primo a pensare – attingo a Jean Le Groff – in termini di quantità e a misurarla, il numero, dapprima strumento di azione al servizio di interessi economici, sarebbe stato poi mezzo di speculazione alla ricerca di verità. Un apporto concreto, pertanto, a una sempre più estesa modificazione di mentalità, che mosse ben prima del secolo XVI, nel quale si è abituati a ravvisarla, il secolo che vide la nascita di Galileo. Misurazione che il mercante fece naturalmente anche del tempo, considerandolo – eresia di fronte al pensiero della Chiesa – non proprietà di Dio ma un bene a disposizione dell'uomo, per il che, appunto, era lecito all'uomo di affari di servirsene nel proprio lavoro; e che ha una espressione fondamentale negli orologi inseriti fin dal 1325 (prima fu Firenze) nella torre dei palazzi comunali per scandire, esattamente, le ore del lavoro. «La misura esatta dell'ora – scrive Marc Bloch – una delle rivoluzioni più profonde fra quante se ne siano mai verificate nella vita intellettuale e pratica delle nostre società» ; e il Le Goff : «Il conflitto fra il ‘tempo della Chiesa’ e il ‘tempo dei mercanti’ costituisce nel corso del Medioevo uno degli avvenimenti di maggior portata della storia del pensiero di quei secoli nel corso dei quali si elabora la ideologia del mondo moderno sotto la pressione del modificarsi delle strutture e delle pratiche economiche ». E Jean Dhondt: «In questo momento è in gioco il processo di laicizzazione dei valori umani essenziali e delle basi stesse della attività dell'uomo: tempi del lavoro, dati della produzione economica e della produzione intellettuale». Oltreché di istruzione tecnica il mercante era dotato di cultura letteraria, tanto che le sue «ricordanze personali» [v. LETTURA 9] sono testi di lingua a cui hanno attinto i compilatori di vocabolari a cominciare da quello della Crusca. E sono testi di lingua le cronache di Dino Compagni (titolare di una compagnia passata alla sua morte nel 1324 ai figli e che fu trascinata nel 1341 nella serie dei fallimenti che precedettero di poco il famoso crollo di tutte le più grandi ditte fiorentine), di Giovanni Villani [v. LETTURA 10] (socio dei Peruzzi fino al 1308 quando subentrò nel suo posto il fratello Filippo, e dal 1324 della compagnia dei Bonaccorsi di cui faceva già parte il fratello Matteo continuatore della Cronaca), di Marchionne di Coppo Stefani socio degli Acciaiuoli; ed erano mercanti Giovanni Boccaccio che a Napoli curò affari per la compagnia dei Bardi, e Franco Sacchetti esperto di cose mercantesche come risulta dai suoi Sermoni evangelici, nei quali si contengono tante notizie di carattere economico.


c) LA PATRIA. Ho detto che il mercante, nel dirigere la cosa pubblica, ebbe presente il proprio interesse; ma aggiungo non nel senso che, se si dava un contrasto, quel suo interesse lo facesse prevalere su quello della sua città. Di fatto, in ogni suo atto di governo, fosse un trattato di commercio o la dichiarazione di una guerra, cercò di raggiungere un duplice e concomitante beneficio per la certezza, così dice Cinzio Violante, che «la salvezza, la potenza, la gloria del Comune si identificavano con la salvezza e la prosperità delle sue aziende» .

D'altronde, nei momenti di vero bisogno, appunto soprattutto quando era in gioco la libertà, affrontò volontariamente il sacrificio di danaro ed espose la stessa vita. Mentre Siena si preparava al duello con Firenze, che si sarebbe concluso, come or ora si è detto, a Montaperti, Salimbene Salimbeni, capo di una delle grandi compagnie di Siena, e del tempo, regalò al Comune la grossa somma di 118.000 libbre d'argento promettendone altrettante appena fossero «logre», ossia spese. A Firenze nel 1336 un consorzio fra gli esponenti del mondo capitalistico mercantesco si impegnò «a fornire [il Comune] di moneta per la guerra di Lombardia contro Mastino della Scala», e in breve fu raccolto un buon terzo delle centinaia di migliaia di fiorini d'oro che occorsero per la campagna. Tanto normale era il compimento del loro dovere da parte di quei grandi uomini di affari che i cronisti non ricordano neppure quelli caduti in battaglia, e notizie si hanno piuttosto dai carteggi e dai libri di commercio. Così nella lettera dei senesi Vincenti del 5 luglio 1260 a Giacomo di Guido Cacciaconti in Francia (che si è richiamata, poco addietro, a far prova dell'esperienza del mercante nell'arbitraggio dei cambi) occorre il nome di Orlando Bonsignori, titolare della «Magna tavola», paragonata dal suo storico Mario Chiaudano con le imprese dei Rockfeller e dei Rotschild: «Anco intendemo da te, per tua cedola, che noi dovesimo pregare Orlando Bonsignore ch'elli dovesse mandare dicendo a' suoi chonpangni di chotesto paese, che quando tu volessi inpronto [prestito] da' suoi chonpangni, ch’elino t'el facesero, che i potrebe esare grande pro' per noi. Per la quale chosa ti dicemo chosì, che el detto Orrando Buonsignore non era a Siena quando a lui si scrisse, anzi era ne l'oste a Montepulciano: perciò, quando egli sarà tornato, sì saremo a llui e richordaremleli».

Il Bonsignori tornò sano e salvo; rientrò invece ferito, e poi mori, Arnoldo di Arnoldo Peruzzi dalla battaglia dell'Incisa contro Arrigo VII. Ne fa testimonianza questa scheletrica registrazione contabile: «…die 24 di settembre 1312, per fìor. cento d'oro ch'ebe contanti [li aveva tratti dal suo conto corrente presso la compagnia], i quali portò quando andò l'oste a l'Ancisa, quando venne lo 'nperadore; e per fìor. cinquantatre d'oro che si diero a' portatori che 'l rekaro a Firenze e a' medici che 'l medikaro; e fìorini ottantasei e mezo d'oro costò la spesa della sepoltura del detto Arnoldo, il quale morie die 23 di settenbre 1312; e per fìor. sette d'oro e soldi 21 a fìor. per bende e altre cose per la moglie: somma libre 358 s. 9 a fìor». Il Peruzzi, adunque, che poco prima, impersonando a così dire il Comune, aveva ospitato Roberto d'Angiò e trattato con lui l'alleanza contro l'imperatore, non si limitò ad affermare, come statista, che Firenze «non intende piegare le corna a signore alcuno», ma pagò, come soldato, di persona.

L 'amore per la patria assunse altri aspetti all'estero dove i mercanti italiani erano esposti alla xenofobia delle popolazioni, testimoniata dai cronisti locali che li accusavano di avidità, di sfruttamento delle risorse locali, e li facevano responsabili della miseria del popolo: «divorano gli uomini e le bestie, i mulini, i castelli, i boschi e le foreste e prosciugano gli stagni e i fiumi; non portano mai con se un ducato, ma soltanto un pezzo di carta in mano e una penna dietro l'orecchio, e con le loro scritture tosano la lana sul dosso delle pecore indigene». In una situazione di psicologia collettiva di questo genere, i loro magazzini erano assaltati e devastati anche con «distruggimento delle persone» senza che potessero aspettare giustizia dai tribunali. I sovrani a loro volta, con la scusa che sarebbero stati usurai, li mettevano in prigione, sequestravano i loro beni, esoneravano chi doveva a loro dal rimborsarli, e alla fine li liberavano esigendo grosse somme a titolo di riscatto. Erano chiamati in blocco «lombardi» (si ricordino le denominazioni di Lombard Street e di Rue des Lombards date a Londra e a Parigi alle vie che erano il centro dei loro affari) e loro rispondevano istituendo un fronte comune, dimenticando le lotte fra le loro città. Nel 1288 appare l'«Universitas mercatorum Italicorum nundinas Campaniae in Regno Franciae frequentantium», che poco dopo, nel 1295, concluse con i conti di Borgogna un trattato di salvaguardia per i mercanti di Como, Firenze, Genova, Lucca, Milano, Orvieto, Parma, Piacenza, Pistoia, Prato, Roma, Urbino, Venezia. Per tal modo l'unità della Penisola, avvertita idealmente dai poeti, era sentita come realtà di interessi comuni da quei mercanti.

D'altronde, se il mercante amava la sua patria, la patria non si dimenticava di lui, dovunque fosse. Si può dire che dove c'era una balla di mercanzie provenienti dall'Italia, là si trovava un rappresentante politico, o almeno commerciale, di una città italiana: sollecito a preparare l'ambiente per i nuovi arrivati e a dirimere le eventuali loro discordie interne, e animoso nel minacciare rappresaglie se fossero danneggiati.

 

d) LA FEDE [v. LETTURE 11-12]. Come quegli uomini di affari, nel caso di guerra, non lesinavano danaro per la loro città, così non poco ne sottraevano agli affari – e così si coglie un altro aspetto della loro personalità – destinandolo alla erezione di templi e alle spese del culto, nonché alla creazione di ospedali a soccorso degli «infermi bisognosi», i prediletti da Dio. Il cui nome, per la certezza che era arbitro del loro destino sulla terra e nell'aldilà, lo invocavano in ogni loro atto. I libri di commercio li aprivano tutti con la sua invocazione. In un libro del 1336 di Banchello e Banco Bencivenni fiorentini residenti in Venezia: «Al nome di Dio e della sua benedetta Madre Madonna Santa Maria, e del Beato messer Giovanni Santo Battista Evangelista e del Barone [santo protettore di eccezionale potenza], messer Santo Niccolò, e di tutti i santi e sante della Corte di Paradiso che ci deano guadagno in mare e in terra con salvamento dell'anima e del corpo, amen». E in uno dei Covoni pure fiorentini e dello stesso anno: «Nel nome di Dio e della Vergine Sua Madre Madonna Santa Maria e di tutti i santi e sante di Paradiso e di tutta la Corte del Cielo che ci dieno grazia di ben fare e di ben dire e di guadagno per l'anime e per gli corpi». Sempre in quei libri si trova che in ogni grande società si faceva «compagno» «Messer Domeneddio», assegnandogli una o più quote (oggi diremmo azioni) del capitale sociale, in base alle quali al bilancio gli utili sarebbero distribuiti ai poveri. Altra pratica costante, e stabilita per legge, era il versamento del «danaro di Dio» (altrove denier à Dieu, Gottes Pfennig e cosl via), un'elemosina simbolica di un solo denaro fatta al termine delle trattative per la conclusione di un contratto al quale Iddio era chiamato come testimone: dopodiché, ossia dopo avvenuto il versamento, l’accordo non poteva essere modificato, e tanto meno annullato – «nec moveri nec infringi» –. Ho detto simbolico; ma i contratti erano tanti che si formavano grosse somme: nel 1331 gli ufficiali del Comune di Firenze trassero dalle apposite cassette 24.000 denari pari a 1000 libre che devolsero alla fabbrica del Duomo. Si potrebbe pensare che si trattasse ora di pure formalità e ora di astuti e insieme ingenui accorgimenti, suggeriti del resto dalla stessa Chiesa la quale, nel tumulto di eventi economici non dominabili, si accontentava di salvare almeno le forme. Avendo questo presente si potrebbe sospettare anche la insincerità dei testamenti, che tutti portavano lasciti a enti religiosi, e alcuni anche l'obbligo fatto agli eredi che accertassero le usure commesse dal de cuius e le restituissero alle vittime. Insincerità, tanto che si è detto di «assicurazione con Dio». Certamente, se è possibile dedurre l'amore per la patria dai sacrifici per essa, non è altrettanto facile inferire dalle formule stereotipe dei notai che rogavano i testamenti la religiosità dei testatori; eppure qualche sfumatura dovuta alla dettatura diretta di loro rompe talvolta la monotonia del formulario e apre brevi spiragli di luce sull'animo, appunto, del mercante, facendo pensare a veri atti di pietà e a un pentimento sincero. È il caso, ne riferisco uno, di Scaglia Tifi, di cui ho potuto ricostruire tutta la vita. Da ragazzetto, esule da Firenze in Francia perché di famiglia ghibellina perseguitata dai guelfi al potere dopo Montaperti, aveva portato nel cuore la nostalgia della sua città e l'immagine di una fanciulla che amava. Messosi come «garzone» presso una «compagnia», si fece strada con la volontà e con la intelligenza tanto che divenne tesoriere dei conti di Montbeliard e, assetato di guadagno, distrasse danari dalle loro casse per «applicarli ai propri negozi»: confessò il mal fatto nella cattedrale di Parigi, e ciò nonostante quei signori, ai quali era indispensabile, lo confermarono nel delicato incarico, mantenutogli anche da Filippo il Bello quando la Borgogna fu annessa alla Francia. Nella quale occasione, pochi giorni prima della firma del trattato che lui stesso aveva negoziato, ottenne per i«Lombardi» l'annullamento di ogni restrizione ai loro traffici e la concessione di tali privilegi che, assicurandoli dalla concorrenza, li rendevano padroni della vita economica del Paese. Raccolta una fortuna tornò a Firenze e sposò la bimba, ora donna, che lo aveva atteso, e che purtroppo morì senza dargli i figli che aveva sperato. In quel momento, in cui tutto gli era crollato da torno, provò disgusto per il suo operato, lasciò gli affari, si ritirò in un convento dove morì come San Francesco sul pavimento della chiesa mentre i frati pregavano per il suo trapasso, e fu seppellito ai piedi dell'altar maggiore. Che dettando il suo ultimo testamento dimenticasse del tutto la mentalità del mercante non si può dire quando si legge che, avendo disposto in perpetuo una messa nell'annuale della morte, e avendo stabilito il compenso per i cantori, specificò che se qualcuno fosse fioco il compenso lo passasse a un altro dalla voce robusta «che salisse veramente a Dio». Che però a furia di peccati e di dolori il cuore gli si fosse ingentilito sì da offrirlo a Dio « meglio che l’ho avuto in questa terra», appare dall'ordine che nel giorno della sua morte fosse distribuito un pane, la «cena del Nostro Signore», a ciascun povero della città, e che annualmente in perpetuo, prima dell'inverno, il «maestro» della chiesa dello Spirito Santo comprasse per 25 libbre di moneta «stefanense» «panni pesanti di sargia o di altra stoffa che siano adatti a confezionare vestiti e mantelli per i poveri del detto ospedale scelti fra i più bisognosi».

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UpUltimo aggiornamento: 19/11/06