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Didattica

Fonti

Stato e società nell'ancien régime

a cura di Angelo Torre

© 1983-2006 – Angelo Torre


Sezione III - La nascita dell'assolutismo e il ricambio delle élites (1560-1660)

Introduzione

1. Abbiamo visto come nei decenni centrali del Cinquecento, e dietro la spinta di una molteplicità di fattori — dalla lotta religiosa alla guerra, alle difficoltà finanziarie che questa induce — gli apparati statali vadano intensificando la loro presenza nella società. È una presenza ancora sporadica, soprattutto nelle aree periferiche, dove necessita di autorità mediate per affermare il proprio potere politico; ed è una presenza non uniforme, poiché mentre, ad esempio, nella monarchia Tudor essa si limita alle strutture centrali del governo, nelle monarchie continentali l'espansione dell'apparato centrale verso la periferia avviene in modi disparati, che coinvolgono strati sociali diversi o, se vogliamo, impongono diversi tipi di mediazione. Inoltre, come vedremo nell'ultimo documento di questa sezione, l'espansione incontra diversi modelli di resistenza e di reazione da parte delle popolazioni soggette.

Da questo punto di vista il «secolo di ferro» (1560-1660) costituisce un elemento caratterizzante nella periodizzazione della storia europea: esso vede infatti svilupparsi processi di trasformazione sociale indotti dall'accresciuta presenza degli apparati statali, che possiamo per comodità identificare come processi di ricambio delle élites. Con questa etichetta vogliamo qui intendere sia i processi di sostituzione delle autorità sociali che agiscono in nome dello stato e del potere sovrano al centro come in periferia, sia le trasformazioni conosciute dalle élites tradizionali o preesistenti (ad esempio, la nobiltà) nel corso di tale sostituzione; in altri termini, sia la creazione di nuove élites, sia la crisi di quelle tradizionali. L'esame di queste trasformazioni non può in ogni caso prescindere da una constatazione di fondo: le vicende della prima metà del Cinquecento non pongono i tre centri di potere finora esaminati nelle medesime condizioni di potenziale espansione del proprio apparato; conseguentemente il processo di ricambio delle élites avverrà con modalità diverse a seconda della forza e della capacità di attrazione iniziale del governo centrale, e, anche nel caso di forti apparati costruiti dagli stati continentali, sarà segnato da esiti favorevoli o fallimentari, che — come vedremo — caratterizzeranno in modo specifico i tentativi di ristrutturazione del governo destinati a emergere ovunque nella prima metà del Seicento.
L'influenza che una diversa forza dell'apparato statale può esercitare su un processo di mutamento sociale appare in tutta evidenza se si esaminano le trasformazioni conosciute dall'aristocrazia. Per quanto riguarda la monarchia inglese, gli strati titolati della nobiltà conoscono una crisi che ne incrina la posizione nella gerarchia degli status (doc. 1/a). Essa è dovuta a una pluralità di fattori: primo in ordine di tempo è senza dubbio l'indebolimento del loro potere militare, legato alla disgregazione delle tenute signorili e alla conseguente perdita di potenziali fedeli armati. Risulta così indebolita sia la possibilità dei Pari di contrastare la politica della Corona, sia la loro medesima capacità di costituire lo scheletro di un esercito regio. Contemporaneamente, l'influenza dell'aristocrazia sugli strati gentilizi e sulla stessa popolazione rurale viene incrinata dall'assenteismo nobiliare, cui si aggiunge la tendenza generale all'erosione della rendita agraria sotto le pressioni dell'inflazione monetaria. Inoltre non giunge a buon esito il tentativo di riorientare la nobiltà in direzione della vita di corte e dell'amministrazione, poiché questa non riesce ad appropriarsi né della cultura giuridica né di nuovi modelli di comportamento aristocratico. In sintesi, l'aristocrazia si viene a trovare in una progressiva condizione di dipendenza dalla corte. D'altro canto anche l'analisi delle fortune materiali ne conferma il declino sociale: soprattutto la fine del regno elisabettiano vede l'aristocrazia perdere il controllo di parte delle proprie terre, in seguito all'aggravarsi delle proprie situazioni finanziarie e a causa principalmente di uno stile di vita e di un volume di spesa ormai condizionati dalla stravaganza della capitale del regno. Il salvataggio economico avviene in ogni caso a scapito dell'influenza e del prestigio familiare. Inoltre la politica di inflazione degli onori praticata dagli Stuart nella prima metà del secolo XVII accentuerà tale perdita relativa di influenza attribuendo a individui facoltosi ma ritenuti indegni il privilegio del titolo nobiliare, e contribuendo perciò a minare le basi di una gerarchia sociale basata essenzialmente sul rango (doc. 11/a).

Questo quadro sommario indica come la crisi dell'aristocrazia abbia consistenti legami con le scelte politiche della Corona, anche in un caso come quello inglese in cui questa non dispone di un forte apparato di governo. Si intuisce facilmente come l'azione di apparati estesi quali quelli continentali abbia avuto ripercussioni ben più complesse e articolate. Nella monarchia spagnola, ad esempio, il declino dell'aristocrazia appare netto e lineare solo dal punto di vista finanziario: la grande nobiltà spagnola si presenta infatti all'orlo del collasso economico, progressivamente indebitata da un processo di erosione delle entrate e di aumento delle spese imposte dal rango. Dal punto di vista politico-sociale occorre invece distinguere tra il secondo Cinquecento e la prima metà del Seicento. In particolare durante il regno di Filippo II la Corona tenta di ovviare a tali difficoltà con una serie di provvedimenti tesi a ridurre d'autorità l'ammontare del debito nobiliare e a consentire la vendita della terra. Ma si tratta di provvedimenti parziali, giacché al tempo stesso viene ostacolata la partecipazione nobiliare al governo, e le funzioni amministrative vengono in genere affidate alla piccola nobiltà dotata di cultura giuridica (letrados). Le sole eccezioni, costituite dalle missioni diplomatiche, che spesso comportano un aggravio di spesa, e dalle cariche viceregali, redditizie ma numericamente esigue, non consentono di soddisfare la domanda aristocratica. Per il periodo successivo si deve invece parlare di «reazione nobiliare»: l'aristocrazia spagnola continua infatti a rappresentare il modello egemonico di comportamento sociale, giacché la terra non cessa di rappresentare il bene rifugio più redditizio con il progressivo allontanamento dei capitali da tutte le altre forme di investimento imprenditoriale. La prevalenza della rendita si traduce inoltre in un inasprimento della pressione dei ceti privilegiati sulla popolazione contadina, dando luogo a una forma di «assolutismo barocco» nel quale le gerarchie sociali vengono ribadite in modo autoritario, e la Corona si identifica sempre più con gli interessi signorili, accordando il proprio sostegno a una società feudale dominata dalla nobiltà. Perciò il Seicento viene di solito presentato come un secolo di assoluto predominio aristocratico.

Ci si trova così di fronte a due processi — crisi dell'aristocrazia e reazione nobiliare — destinati a restare incompatibili sino a che non si esaminino le necessità finanziarie della Corona: il loro acutizzarsi nel trentennio corrispondente alla guerra dei Trent'anni determina, come vedremo meglio in seguito, una pressione politica sui nobili nel tentativo di trasformarli in un'effettiva classe militare e di ridurre i privilegi fiscali. Si tratta di pressioni che l'aristocrazia è in grado di scaricare sulle popolazioni contadine poste sotto la propria giurisdizione mediante un'intensificazione del prelievo. Entrambe le pressioni trovano in ogni caso una medesima direzione di sfogo, la rivolta — nobiliare e contadina —, dalle rilevanti conseguenze: mentre la Corona è costretta a riconoscere la necessità del sostegno politico della nobiltà, questa assume una sempre più netta consapevolezza della propria dipendenza dal sovrano, e consegue un'importante vittoria su di essa ottenendo, a conclusione di ogni movimento di protesta, consistenti diminuzioni del peso fiscale sui propri contadini. In ogni caso, il riconoscimento di mutua dipendenza tra Corona e nobiltà si risolve a tutto vantaggio della seconda, giacché implica l'intensificazione del controllo signorile sulla popolazione rurale: la crisi dell'aristocrazia si traduce in tal modo in una reazione nobiliare.

In termini più complessi si delinea invece il ruolo della Corona francese nelle fortune dell'alta nobiltà. Questa, come si è già accennato, viene di solito impiegata nei governatorati provinciali e locali, in una posizione costituzionale che garantisce ai grandi nobili la funzione istituzionale di patroni e di capi clientela. In altri termini, la forza della grande nobiltà è determinata non tanto dal più intenso esercizio dell'autorità signorile sui contadini, quanto dal potere derivante dal comando di casate locali (doc. 1/b). La debolezza del governo centrale all'indomani della morte di Enrico II (1560) pone fine al sistema politico basato sui governatorati su cui si fonda la monarchia rinascimentale, poiché interrompe l'esercizio dei poteri clientelari (nomine a uffici, difesa dei privilegi locali) esercitati dai Grandi in nome del sovrano: questi si sentono così autorizzati a esercitarli in proprio, in nome del controllo dell'ordine locale, attraverso la diversione di fondi rastrellati con il prelievo fiscale. Accanto a tale fattore di indebolimento, il declino progressivo della Gendarmerie tra 1560 e 1580 sottrae ai governatori la possibilità di fungere da patroni di un settore consistente della piccola nobiltà locale. Come vedremo più avanti, l'interrompersi del clientelismo militare legale determinerà soluzioni originali di controllo delle élites locali. Le fortune successive dei governatori — intesi come rappresentanti istituzionali della grande nobiltà — saranno determinate da un processo definibile in termini di centralizzazione sociale: con la pacificazione del regno a fine Cinquecento e con l'irrobustimento dell'assolutismo essi saranno attratti dalla vita nella capitale, e per ragioni molteplici: da un lato Parigi diventa la sede in cui più facili sono gli scambi matrimoniali, sia perché si intensificano le alleanze tra le famiglie dei governatori e gli esponenti principali della nobiltà togata parigina, sia perché duchi e Pari sempre più spesso ricercano l'assenso diretto del re all'unione dei propri discendenti. In secondo luogo cresce il ruolo del re nella composizione delle fortune, di duchi e Pari, che vedono intensificare la propria dipendenza dalle gratifiche e pensioni del sovrano. Inoltre a Parigi è più facile ottenere crediti poiché, in assenza di istituzioni bancarie, è la conoscenza personale del prestatore a consentire di ottenere un anticipo di denaro; parallelamente è l'abitazione parigina a divenire sempre più spesso la sede della gestione del patrimonio nobiliare. Infine la crescente importanza delle magistrature parigine fa sì che proprio nella capitale del regno si concentri l'attività giudiziaria della grande nobiltà: liti con fittavoli e appaltatori, ma soprattutto con altre famiglie nobili intorno a eredità e matrimoni contestati, assorbono infatti gran parte dell'attività di questo gruppo sociale. La gravitazione dei nobili intorno a Parigi non ha solo l'effetto di interromperne le funzioni governative istituzionali: piuttosto essa segna il trionfo della centralità assoluta del sovrano nel sistema di potere, poiché indebolisce il legame della grande nobiltà con le proprie giurisdizioni provinciali. Insieme con il tentativo di riacquistare la piena decisionalità politica invocando la partecipazione ai Consigli del re, il ripristino di tale influenza provinciale costituirà una delle principali rivendicazioni nobiliari seicentesche.

I tre modelli di organizzazione statale rappresentati dalla monarchia spagnola, inglese e francese producono dunque esiti diversi in un processo di crisi dell'aristocrazia che si sarebbe tentati di definire in termini unitari: mentre da un lato la crisi si delinea quale perdita di peso relativo e di prestigio della nobiltà inglese nella gerarchia degli status e delle fortune, dall'altro lato, nel continente, la crisi medesima può accompagnarsi sia a un'accentuazione del peso politico della grande nobiltà nei confronti dei contadini e della corona, sia a una perdita di potere — anche se non di prestigio — riflessa nella sempre maggior dipendenza dalle elargizioni della Corona e nel distacco dalle realtà politiche provinciali.


2. Altrettanto eterogenee si presentano le condizioni imposte al ricambio delle élites dalla diversa forza ed estensione dei singoli apparati statali. Decisiva e caratterizzante appare infatti la presenza di una burocrazia corposa nel determinare i comportamenti dei detentori della preminenza locale. Da questo punto di vista si accentua il contrasto tra le vicende della monarchia inglese e quelle, pur distinte, delle monarchie continentali. Nella prima, infatti, l'assenza di un forte apparato, quale si profila con il lungo regno elisabettiano, ha almeno due conseguenze cruciali: la debolezza dell'imposizione fiscale, in particolare sui proprietari fondiari, e l'impossibilità per la Corona di sostituire i giudici di pace, amministratori volontari appartenenti alle élites locali, con ufficiali regi retribuiti. Il periodo considerato, infatti, vede aumentare il loro numero e le loro prerogative, e il fenomeno può esser correlato all'aumento di peso numerico e politico della gentry, cui il fallimento già menzionato della strategia di Enrico VIII — la sostituzione dei magnati feudali con un'aristocrazia legata alla Corona — aveva consentito di appropriarsi di una quota sostanziale della terra sottratta alle istituzioni ecclesiastiche. L'ascesa di questo gruppo sociale non descrive un mero processo di mobilità sociale, poiché si accompagna alla distruzione dei precedenti equilibri sociali del mondo rurale: in particolare si assiste a un diffuso sgretolamento dei rapporti paternalistici e feudali tra signore e contadini concessionari, in direzione di una conduzione basata sulla massimizzazione dei profitti in un'economia progressivamente permeata dalla presenza del mercato. Va inoltre sottolineato come tale processo di riorganizzazione della proprietà si fondi su una massiccia espropriazione dei tenutari tradizionali ma non favorisca affatto, come nel continente, il dominio della città sulla campagna circostante: ciò è in particolare dovuto al fatto che lo sviluppo dell'allevamento ovino e della produzione dei panni di lana, oltre a sostenere l'espansione del commercio estero a partire dall'inizio del secolo XVII, si presenta come una forza di coesione corporativa che alimenta l'identità di interessi tra proprietari fondiari, braccianti, artigiani e mercanti rurali.

Possiede quindi un significato sociale preciso il fatto che il governo locale resti saldamente nelle mani della gentry e delle oligarchie cittadine: la loro lealtà richiede infatti che non se ne erodano interessi, privilegi e pregiudizi, e cioè che le prerogative del governo centrale non ne intacchino la forza e l'autorità locali. Ciò si traduce nel progressivo imporsi della contea quale quadro di riferimento politico dei gruppi superiori della gentry, la cui autorità e le cui funzioni amministrative si esercitano all'interno di tale circoscrizione.

A dare forza alle strutture politiche locali contribuisce una componente tipica della mentalità della gentry: la contrapposizione tra una «corte» corrotta e disordinata e una «campagna» virtuosa e pacifica. Tale posizione ideologica non è tanto un prodotto letterario destinato a definire in modo stereotipo l'antitesi con il centro fisico e politico del potere, quanto, più propriamente, l'espressione culturale di una contrapposizione tra le corti e il diritto di prerogativa regia, che contraddistinguono il potere della Corona, e le consuetudini giuridiche della Common Law cui si adeguavano invece le giustizie di pace. In realtà le istanze in favore del diritto comune contengono un richiamo alle tradizioni medievali che costituisce una vera e propria prospettiva politica di difesa delle élites locali dallo stato centralizzatore, e consente di elaborare il mito di una costituzione equilibrata e immune dalla prerogativa regia che quel passato incarnava. Espressione di questo stato d'animo delle élites locali è senza dubbio la tendenza a fare delle Quarter Sessions, nel secolo precedente il 1640, una sorta di Parlamento locale in cui i personaggi più influenti della contea sviluppavano il dibattito politico e giungevano a formulare il punto di vista provinciale sulla politica della Corona. In altri termini, la contea rappresenta la sede verso la quale convergono le lealtà della gentry, rigenerate e rinnovate dalla dissoluzione della fedeltà ai magnati locali, caratteristiche del feudalesimo bastardo.

Accanto alla regionalizzazione della struttura politica, in ogni caso, agiscono altri fattori di disgregazione della struttura sociale: da una parte il diffondersi dell'ideologia puritana tra le élites locali dopo la morte di Enrico VIII, e soprattutto con Elisabetta, sostituisce gli ideali cavallereschi dell'aristocrazia militare e disgrega una concezione della gerarchia fondata sul rango; dall'altra contribuisce a «santificare» il servizio amministrativo in virtù di una concezione della gerarchia sociale fondata sulla presenza della grazia divina.

È in ogni caso paradossale osservare come le solidarietà tra le oligarchie di contea non avrebbero potuto assumere un ruolo propulsore senza la crescente influenza dell'assemblea nazionale parlamentare, e quindi senza le soluzioni che il governo elisabettiano aveva trovato per ottenere il consenso da una crescente opposizione: nel secolo considerato, infatti, il Parlamento inglese, contrariamente alle istituzioni omonime del continente, riesce a sviluppare attraverso l'opposizione alla Corona e la discussione delle sue proposte politiche, straordinarie capacità di direzione del paese (doc. 6). Le ragioni del successo dell'assemblea vanno cercate senza dubbio nella struttura politica inglese del primo Cinquecento, caratterizzata da suddivisioni amministrative — le contee — troppo ristrette per assurgere a fulcri dell'attività politica, com'è invece il caso delle province francesi. Al contrario della Francia il Parlamento nazionale non deve competere con istituzioni rivali e più adatte a esprimere la coesione delle élites locali. E, tuttavia, altri sembrano i motivi decisivi del destino peculiare dell'istituzione rappresentativa inglese: in particolare il fatto che in essa agiscano quegli stessi membri delle élites locali che le accresciute responsabilità politiche delle giustizie di pace locali costantemente rafforzano. Attraverso lo svilupparsi di una sede centrale del dibattito politico, la gentry — o quanto meno i suoi strati superiori — acquista fiducia in se stessa proprio mentre declina quella dell'aristocrazia (doc. 7/a). È in ogni caso sintomatico della natura originaria dell'istituzione rappresentativa il fatto che le sue capacità politiche si siano sviluppate attraverso una lunga serie di crisi, e che siano state le soluzioni escogitate dai parlamentari per sottrarsi al controllo della Corona a consentire lo sviluppo di un'opposizione politica formale: in un primo tempo la contestazione di problemi specifici, successivamente la discussione di questioni di più ampia portata e infine la conquista dell'iniziativa politica. In questo processo la Corona ha giocato il ruolo di catalizzatore, poiché è indubbiamente la frequenza delle sessioni legate alle difficoltà finanziarie di fine Cinquecento, ad aver dato ai parlamentari quel senso di continuità necessario a elaborare un'esperienza collettiva. Decisive a questo riguardo appaiono alcune tappe: lo sviluppo di un sistema di lavoro per commissioni; la discussione di problemi politici generali, quali la politica religiosa, il matrimonio e la successione di Elisabetta; l'opposizione alla politica dei monopoli (doc. 14/d). In questo modo l'istituzione abbandona la pratica della mera opposizione di fronte a temi proposti dalla Corona, raggiunge la capacità di scegliere e imporre il terreno della discussione, per conquistarsi infine l'autorità di deporre un ministro inviso (doc. 7/b).

Questo sembra essere il carattere distintivo delle vicende dell'assemblea inglese: non soltanto un uso intensivo del residuo di un'istituzione tardo-medievale, ma la radicale novità di convogliare in una sede legale un dibattito politico non imposto dal sovrano. In assenza di un forte apparato statale le élites locali emergenti da processi di profonda trasformazione sociale trovano in una sede centralizzata di dibattito politico il fattore capace di garantire il controllo dell'operato della Corona: ma si tratta di un equilibrio precario che, come vedremo, condurrà a uno scontro frontale tra quest'ultima e i gruppi dirigenti generati dalla sua stessa debolezza.
Da questo punto di vista i meccanismi degli stati fondati su estese burocrazie venali sembrano offrire possibilità di ricambio dell'élites in apparenza meno pericolose: consentono infatti a famiglie provenienti dalla rottura di legittimare socialmente attraverso l'ufficio l'esercizio della propria influenza locale, spesso già tradottasi prima dell'acquisto dell'ufficio nell'accumulazione di proprietà fondiarie. In sostanza, garantiscono cospicue occasioni di mobilità sociale ai detentori della preminenza locale. Tale soluzione consente inoltre notevoli vantaggi agli ufficiali: anzitutto la possibilità di cumulare più cariche e di incrementare in modo teoricamente indefinito i poteri connessi a ciascuna di esse (doc. 4), ma soprattutto di sottrarsi alla giurisdizione dello stato attraverso le esenzioni e i privilegi legati all'esercizio della funzione pubblica — l'esenzione dalla taglia nel caso delle corti sovrane, dal banno, dal quartiere, dalla gabella (doc. 3/b). Soprattutto ai gradi più alti l'ufficio consente di godere di privilegi straordinariamente simili a quelli della dignità nobiliare: si può anzi affermare che, in una società di ordini, esso offre la possibilità di passare da un ordine all'altro. In tal modo lo stato si propone quale agevole veicolo di mobilità (docc. 3/a-b).

Di estrema complessità sono tuttavia le implicazioni del modello continentale di costruzione dell'apparato statale, che per comodità distingueremo tra economico-sociali e politiche in senso stretto. Dietro l'ascesa degli ufficiali è possibile infatti cogliere la legittimazione di nuove élites, dalla provenienza più varia (patriziati urbani, piccola nobiltà, giuristi, ecc.), che in ogni caso trovano nella proprietà fondiaria lo sbocco delle proprie strategie di preminenza. Se non è possibile assimilarli a una classe nel senso marxiano del termine, è pur vero, soprattutto nella Francia del secolo di ferro, che gli ufficiali accaparrano e concentrano terra — quella nobiliare ed ecclesiastica e, in particolare, quella dei contadini liberi concessionari. Di più, le strategie accumulative degli ufficiali — soprattutto se studiate nel loro contesto locale — costituiscono un fattore di polarizzazione della popolazione rurale, sempre più caratterizzata dalla presenza di lavoratori giornalieri senza terra in luogo dei pur modesti laboureurs indipendenti ancora dominanti nella prima metà del Cinquecento (doc. 14/c). Accanto a tale atteggiamento accaparratore, le famiglie degli ufficiali rivelano un netto orientamento urbano (doc. 5); inoltre, al contrario della gentry inglese, vanno considerati promotori di una «rifeudalizzazione» delle campagne piuttosto che embrionali capitalisti agrari: se è vero che da un lato dimostrano un notevole interesse per la produzione cerealicola destinata ai mercati urbani, è altrettanto vero che la loro anche modesta cultura giuridica li rende più propensi a raffinare il controllo — e il prelievo — sui contadini dipendenti più di quanto non li faccia intraprendere politiche di miglioria dei fondi.

Una simile attitudine rifeudalizzatrice e aristocratica va valutata alla luce della natura «bifronte» delle élites di ancien regime: si tratta infatti di un gruppo che, se agisce da forza trasformatrice delle campagne, è mosso da preoccupazioni di prestigio politico. Ciò emerge con chiarezza se si considera il comportamento della Corona nei loro riguardi. Per bisogni finanziari l'attività centrale istituisce uffici sempre nuovi, e con essi prerogative che si aggiungono alle esistenti, creando negli antichi detentori un'insicurezza spesso giustificata: quando non è il timore della comparsa sul piano locale di nuovi concorrenti e rivali con cui spartire l'autorità, è la minaccia di un «prestito forzato» o di un'inchiesta sui propri comportamenti fraudolenti — peraltro quotidiani — avviata dalla Corona al solo fine di estorcere altro denaro agli inquisiti. Sempre presente, infine, il pericolo di non veder giungere, a causa di una guerra o di una calamità naturale, lo stipendio pattuito. Non stupisce dunque che il mondo degli ufficiali sia lacerato da sordi conflitti di potere e di prestigio in cui si traducono le preoccupazioni di preminenza nei singoli settori: parlamentari, ufficiali delle magistrature cittadine e ordinarie, membri di assemblee rappresentative trovano nel confronto e nella competizione reciproca lo strumento di affermazione di un prestigio minacciato dalla stessa fonte che l'ha concesso.

Conseguentemente, l'invadente presenza dell'«impresa» statale è destinata a riplasmare l'immagine delle élites locali: alla robusta e resistente nobiltà «media» ai margini della vita cittadina, al settore signorile duramente colpito dalle trasformazioni della società feudale, si aggiunge una nobiltà di matrice urbana e togata in espansione, spesso erede delle dinastie di finanzieri e mercanti dominatori dell'espansione commerciale del Cinquecento. Ovunque, in ogni caso, la presenza dello stato accentua il carattere composito delle élites locali e afferma il prestigio delle capitali provinciali ove si dislocano le corti sovrane.

Inoltre, se si tengono presenti i privilegi connessi alle singole cariche, una siffatta estensione periferica del potere centrale si configura più come uno strumento che consente a famiglie preminenti di evitare il prelievo fiscale, che non come un'estensione effettiva dell'autorità politica dello stato (doc. 13/c). Non è questa tuttavia l'unica contraddizione generata dalla venalità: risulta infatti cruciale per l'autorità centrale esercitare un controllo diretto sulle nomine, che spesso è invece la grande nobiltà a detenere. Di qua trae origine un conflitto dagli esiti molteplici: mentre, ad esempio, la Corona inglese non disporrà mai pienamente di questa cruciale risorsa politica, e i pochi uffici saranno distribuiti dai più influenti personaggi di corte, nelle monarchie continentali la Corona perverrà a detenerla in tempi diversi. In Castiglia, in particolare, la reazione nobiliare del primo Seicento, cui sopra abbiamo accennato, si manifesterà anche nella concentrazione nelle mani dei magnati del controllo sulle cariche municipali. Ne risulteranno così rafforzati i loro poteri clientelari nei confronti delle oligarchie locali, radunate nell'ambigua etichetta dell'hidalguía, la piccola nobiltà dotata di limpieza di sangue. Ciò in contrasto con il regno di Filippo II, durante il quale l'espansione dell'amministrazione castigliana nei territori americani e l'aperto favore del sovrano ai giuristi urbani avevano assunto un chiaro ruolo antimagnatizio: con l'inizio del nuovo secolo gli uffici periferici (corregidores, audiencias), si chiudono alla piccola nobiltà provvista di cultura giuridica, mentre quelli centrali sono ormai monopolio di un sempre più ristretto gruppo di famiglie di nobiltà togata.

Simmetrico e inverso si delinea il processo francese, per tutto il periodo delle guerre di religione caratterizzato, come vedremo, dall'esercizio del controllo da parte della grande nobiltà. Con l'aprirsi del nuovo secolo, invece, la rinnovata autorità del potere centrale soffocherà l'influenza magnatizia con l'istituzione dell'ereditarietà delle cariche. In ciò si traduce un progetto monarchico tendente a separare il corpo degli ufficiali dall'influenza della grande nobiltà (doc. 9/b): l'ufficio, come funzione pubblica e come patrimonio, viene concesso dal sovrano in perpetuità alle famiglie degli ufficiali, cui non è più teoricamente necessaria la ricerca di protettori influenti dai quali ottenere il godimento indefinito dei privilegi connessi con la carica.

La pratica dell'ereditarietà, tipica del sistema francese di venalità, consente di chiarire un aspetto di ulteriore contraddittorietà insito in tale modello di espansione dell'apparato statale: essa fa dei funzionari un gruppo sociale specifico il cui apice viene a costituire una seconda nobiltà separata dall'aristocrazia tradizionale. Il problema è rilevante non tanto dal punto di vista dei rapporti tra questi due settori dell'aristocrazia, di cui ricerche puntuali stanno rilevando continui interscambi soprattutto matrimoniali, in contrasto con una diffusa immagine di tensioni e attriti anche ideologici. Piuttosto, in tal modo si colgono i limiti della mobilità reale consentita dall'espansione della burocrazia, giacché questa di fatto si risolve, oltre che in un fattore di aggravamento della stratificazione sociale — in particolare nelle campagne, che il processo di ascesa degli ufficiali subiscono direttamente — in una nuova polarizzazione dell'elite: la posizione nella gerarchia sociale e il «genere di vita» degli ufficiali delle corti sovrane e centrali si differenziano sempre più da quelle degli ufficiali periferici. Entrambi i poli della nuova élite, in ogni caso, assumeranno i contorni frastagliati di un ambito sociale sul quale sarà necessario per la Corona esercitare un controllo preciso.

Prima di affrontare questo problema, decisivo per l'evoluzione successiva dell'apparato statale, è tuttavia necessario riconsiderare la venalità come un fenomeno generale e costitutivo dello stato moderno, o meglio come un possibile elemento esplicativo del suo successo e della sua fortuna. Dove infatti l'autorità centrale non riesce ad avviare un simile modello di espansione, va incontro a esiti politicamente fallimentari, nel senso che l'assenza di questo canale di redistribuzione è destinato a far precipitare gli aspetti più squilibranti del mutamento sociale e soprattutto a impedire una saldatura e un'identificazione anche ambigua delle élites emergenti con il potere sovrano: è il caso della Catalogna, e in generale del regno aragonese, dove tale saldatura è bloccata dalla resistenza delle istituzioni rappresentative, che pur consentono al paese un «risparmio» economico giacché limitano il prelievo fiscale. In queste condizioni, ma più in generale laddove sopravvivono istituzioni rappresentative tardo-medievali, per i patriziati urbani come per la piccola nobiltà si contraggono le possibilità di accedere alle posizioni di potere offerte dal servizio regio, al centro come in periferia; spesso perciò il disordine sociale — banditismo, ecc. — si presenta loro quale esclusivo canale di manifestazione della preminenza locale. Considerata da questo punto di vista, la mancata diffusione della venalità delle cariche esprime davvero l'incapacità dello stato di scalfire il costituzionalismo contrattuale, e di assorbire entro nuove gerarchie le élites locali, rurali come urbane. Ne deriva perciò un progressivo indebolimento dell'autorità centrale, cui sfugge la prerogativa principe: il mantenimento dell'ordine.


3. È a questo punto possibile considerare le conseguenze dei diversi modelli di ricambio delle élites sull'esercizio del governo. Si è detto in precedenza come nel secondo Cinquecento il sovrano si avvii a concentrare nelle proprie mani l'intero processo di redistribuzione delle risorse promosso dallo stato (doc. 10); questo si attua attraverso un sistema di patronaggio dalle dimensioni inusitate, al cui vertice si pone l'autorità regia e dal quale promanano prerogative di nomina degli ufficiali e dei funzionari, di conferimento della nobiltà, di concessione di esenzioni di varia entità a famiglie influenti del centro come della periferia. Una parte di tali prerogative può in ogni caso esser concessa ai servitori più vicini e potenti, in una sorta di meccanismo di natura geometrica in cui la vicinanza al sovrano, ovvero il carattere più o meno diretto e naturale della comunicazione con esso, esprime la quantità di potere di cui un suddito o un gruppo di sudditi viene investito (docc. 12/c e 8/b). È evidente come ciò derivi dalla forza mantenuta dalla strutturazione per ordini della società, nel senso che i rapporti sociali, sebbene già parzialmente influenzati dalla presenza di una stratificazione di classi orizzontalmente disposte (signori e proprietari/contadini; città/campagna), sono vissuti come espressioni di una stratificazione di ordini verticalmente articolati. Intorno al centro fisico del potere istituzionale si vengono dunque a formare configurazioni verticali e piramidali, le fazioni, o i partiti, in diretta competizione per un potere che risiede ormai chiaramente nella capacità del sovrano di erogare risorse economiche, politiche e sociali. Le fazioni hanno una configurazione formale simmetrica: hanno un centro e un vertice nei dintorni immediati del sovrano — i Consigli, la corte, i segretari — e si dispiegano, abbassandosi e allargandosi a interi settori territoriali e sociali del paese (doc. 8/a). E tuttavia, a ben guardare, rappresentano l'espressione di un conflitto dalla natura, al contrario, nettamente asimmetrica: esse si conformano infatti a diversi orientamenti della politica interna ed estera, dalle alleanze matrimoniali della dinastia regnante alle questioni religiose (doc. 8/c) — tutti fattori che in qualche modo influenzano le leggi fondamentali della monarchia e possono determinare un diverso uso delle risorse politiche detenute dal sovrano.

Si può in generale sostenere come nel secondo Cinquecento la forza — coercitiva o consensuale — dei governi centrali sia fondata sulla capacità del sovrano di mantenere un equilibrio tra le diverse fazioni mediante una misurata distribuzione delle cariche e della loro reciproca influenza politica (doc. 11/a). L'esempio più chiaro a questo proposito è rappresentato dai Tudor e dagli Asburgo spagnoli. Nonostante la limitatezza del potere coercitivo di Elisabetta, il sistema di patronaggio esprime al tempo stesso la volontà della regina di raggiungere la più vasta cerchia di beneficiare senza tuttavia mettere in discussione la gerarchia sociale: così ella evita di minare il prestigio dell'aristocrazia enriciana con la creazione di nuovi Pari, mentre usa le licenze di esportazione e i monopoli non tanto per incoraggiare una determinata produzione, quanto piuttosto per ricompensare i servitori più fedeli. Inoltre il patronaggio elisabettiano si dimostra estremamente equilibrato: dai grandi ufficiali di corte e favoriti personali della regina, le cariche e i privilegi discendono per il tramite cruciale dei segretari e assistenti di entrambi (contact men) in direzione di membri della gentry, giuristi e semplici sudditi. Infatti il reclutamento del personale amministrativo centrale è affidato alle scelte dei detentori delle cariche superiori, che organizzano il funzionamento dei dipartimenti da essi dipendenti reclutando il personale inferiore responsabile solo nei loro confronti, e dipendente completamente dalle mance del pubblico per il proprio mantenimento.

Queste scelte esercitano una profonda influenza sulla struttura della politica: conducono alla formazione di più fazioni poiché vengono lasciati aperti tutti i canali per ottenere il favore regio, rappresentati dalle figure più eminenti del regno, e dà luogo a lotte incessanti tra i vari capifazione (doc. 8/a). Tale sistema «aperto» funziona fino ai primi anni novanta, anche per il fatto che nessuno mette in discussione il pluralismo del patronaggio regio o pensa di poterlo monopolizzare. Ancora una volta, in ogni caso, le necessità finanziarie imposte alla Corona dalla guerra con la Spagna, a partire dall'ultimo decennio del secolo XVI, riducendo l'entità dei favori a disposizione della regina, determinano l'intensificarsi della competizione per il patronaggio, la quale, insieme con l'esaurirsi dei margini di profitto per gli ufficiali inferiori, comporta a ogni livello un sensibile aumento della corruzione (doc. 7/b).

Nel continente la sola Spagna mostra nel secondo Cinquecento un sistema di patronaggio simile a quello elisabettiano, pienamente controllato dal re per il quale costituisce così uno strumento per rafforzare il proprio potere. Qui tuttavia le fazioni principali possiedono una natura specifica, in qualche modo legata agli schieramenti politici dell'aristocrazia nel corso delle guerre civili quattrocentesche o della rivolta dei comuneros. Accanto alla competizione volta a ottenere il favore del sovrano, e di qui il controllo del patronaggio, esse mostrano una diversa propensione all'apertura della Castiglia alle influenze culturali europee, ovvero manifestano legami più o meno stretti con il nazionalismo castigliano venuto alla luce con la rivolta urbana degli anni venti. Mentre infatti un gruppo propone la «castiglianizzazione» dell'Impero spagnolo, con tutti i conseguenti vantaggi finanziari offerti dall'ampliamento della capacità impositiva del sovrano, un secondo settore dell'élite sostiene invece la tradizione di un costituzionalismo monarchico che sacrifica i margini di manovra fiscale all'integrazione delle élites periferiche nella macchina statale. Per tutto il regno di Filippo II, tanto la sua educazione quanto la sua personale incertezza, non consentono al sovrano di operare una scelta definitiva tra i due orientamenti e i conseguenti sistemi di potere e di distribuzione clientelare delle risorse: la ricerca di un equilibrio tra queste diverse tendenze lascia così spazio all'esacerbarsi della lotta tra le fazioni, nessuna delle quali riesce a imporsi in modo definitivo.

Nel periodo considerato, tuttavia, non è solo il controllo del patronaggio a determinare la genesi di fazioni e il loro ruolo nel sistema di governo, giacché la lotta religiosa acuisce gli schieramenti dei singoli e dei gruppi sociali: in primo luogo infatti essa offre simboli capaci di irrigidire i confini tra i diversi gruppi di contendenti, ma soprattutto impone ai detentori della preminenza locale di orientare le proprie lealtà politiche al fine di controllare l'ordine sociale. Di più, la combinazione dei due fattori sopra menzionati — controllo del patronaggio e lotta religiosa — dà origine al processo di disintegrazione dello stato rinascimentale: è quanto suggeriscono, sia pure in direzioni divergenti, le guerre di religione francesi e l'esito della ribellione olandese.

Nel caso francese, ad esempio, la disintegrazione dello stato rinascimentale può esser agevolmente letta attraverso le vicende dei detentori del potere istituzionale di controllo dell'ordine locale, i governatori. Con la morte di Enrico II (1560) si determina infatti un vuoto di potere che interrompe il flusso di risorse clientelari a disposizione della nobiltà proprio mentre lo scatenarsi della lotta religiosa tra cattolici e ugonotti accentua le pressioni sulla funzione d'ordine dell'istituto governatoriale. In questo contesto di debole presenza dell'autorità centrale le fazioni religiose si trovano a sostituire le tradizionali coalizioni di clan e clientela, poiché generano lealtà politiche e costituiscono nuove catene ideologiche di obbedienza capaci di consentire l'ordine. Per tali ragioni troviamo, a partire dagli anni sessanta, i governatori a capo di veri e propri partiti, omogenei per natura (sono formazioni che attraversano verticalmente tutti gli ordini e gli strati della società) anche se variamente organizzati. In ogni caso la lealtà al partito diventa un nuovo valore dell'aristocrazia, e sostituisce addirittura la fedeltà al sovrano. Il partito differisce tuttavia dalle coalizioni tradizionali per alcuni aspetti di fondo: ha una costitutiva vocazione autonomistica, nel senso che è uno strumento usato dai governatori per dominare e controllare le proprie regioni attraverso l'attrazione a sé dei detentori locali della preminenza (docc. 12/b, c). Una simile vocazione autonomistica appare in aperto contrasto con il potere centrale, e ciò non tanto perché prolunga e rafforza le strutture politiche provinciali, con cui fin dalla sua formazione la monarchia francese ha dovuto fare i conti. Piuttosto il potere dei governatori si fonda su un esercizio del patronaggio teso a rafforzare le lealtà dello schieramento da parte dei «notabili» locali, ma indipendentemente dal volere del re: non è un caso che il potere centrale cerchi, proprio in un simile periodo di debolezza, di intensificare l'uso della venalità con una politica di inflazione degli onori nel tentativo di incrinare la forza locale delle lealtà partitiche. Inoltre — ed è il punto centrale — un simile esercizio del patronaggio impone che i governatori si impadroniscano di risorse politiche e materiali: è a questo scopo infatti che i governatori levano imposte in proprio, o trattengono nella provincia i frutti delle imposizioni regie, oppure, soprattutto, riprendono le tradizioni della fiscalità medievale, fondandosi sul consenso di assemblee locali di partito, e destinando localmente le somme raccolte. Si determina in tal modo l'interruzione dell'uscita del surplus dalle singole province (doc. 9/a).

È questo, a ben vedere, il limite ultimo di un governo fondato sulle fazioni religiose, giacché la tendenza all'autogoverno e all'autotassazione, in cui esso tende a concretizzarsi, giunge infine a contrastare l'unificazione effettiva delle istanze autonomistiche e federative entro forme di governo centrale alle quali aspiravano invece le famiglie dei Grandi. Fattori d'ordine, i partiti esprimono alleanze ideologiche dettate più dalla paura del disordine e dell'insicurezza che dalla saldatura di interessi diversi. I partiti infatti, se vogliono rispondere alla ricomposizione delle lealtà personali, non eliminano affatto la lotta politica e religiosa, al contrario ne sono la conseguenza necessaria: così, e principalmente nei casi in cui gli atteggiamenti delle magistrature divergono da quelli del governatore, i conflitti giurisdizionali vengono spesso risolti da quest'ultimo con la richiesta di un «commissario» centrale, o «intendente», provvisto di poteri tali da risolvere le contese con i giudici locali (doc. 13/a). I conflitti che questo tipo di funzionario deve risolvere vertono sulle contese dei governatori a proposito delle imposizioni fiscali, della pacificazione religiosa e della necessità di reprimere l'indisciplina degli eserciti delle diverse fazioni. Ma soprattutto tali maîtres des requêtes compaiono sempre più spesso come negoziatori dell'imposizione fiscale regia agli Stati provinciali o presso i creditori della Corona, oppure come controllori dei conti degli ufficiali fiscali: tutti compiti, questi, che implicano una collaborazione con il governatore, a cui si offre del resto la possibilità di non assumere pubblicamente la responsabilità degli aggravi fiscali, in particolare sulle città, dove più forte è la loro base di consenso. Infine, il commissario, meno legato alle reti locali del potere, e inequivocabilmente rappresentante dell'autorità centrale, rafforza la legittimità delle ordinanze che è chiamato a far osservare. Così la necessità della conservazione dell'ordine nelle province impone di affiancare alla grande nobiltà un funzionario alle dirette dipendenze del potere sovrano; lentamente, come vedremo, questo diverrà l'asse portante di un'opera di centralizzazione amministrativa che farà del sistema di governo locale francese un modello di organizzazione assolutistica dello stato. In un altro senso poi il sistema di governo fondato sulle fazioni, nella congiuntura della lotta religiosa, giunge a favorire il modello assolutistico di governo da parte del sovrano: il loro inscindibile legame con il disordine, e l'uso regionale del patronaggio predisposto a fini di controllo sociale, determinano negli ufficiali — in particolare nei membri delle corti sovrane intorno agli anni novanta, all'apparire cioè di un'ulteriore acutizzazione della lotta religiosa — un distacco crescente dal radicalismo religioso dell'aristocrazia e del menu peuple urbano. È necessario sottolineare come un simile atteggiamento intermedio, o politique, tragga origine dal convergere sui patriziati cittadini della duplice pressione esercitata dal controllo dello schieramento ideologico da parte della grande nobiltà e dall'esigenza di controllo dell'ordine locale. Una simile ambivalente preoccupazione dei magistrati verrà pienamente colta dalla monarchia, che con Enrico IV riuscirà a rafforzare la posizione dei magistrati sottraendoli all'influenza dei magnati. Così il progressivo allontanamento di questi ultimi dal Consiglio del re si accompagnerà all'istituzionalizzazione dell'ereditarietà delle cariche, sia pure con modalità e privilegi diversi a seconda delle funzioni (doc. 9/b). In tal modo il potere regio perverrà a controllare pienamente il patronaggio, e ciò avrà due conseguenze di fondo: tenderà a eliminare, isolandolo, il potere dei magnati mentre genererà solidarietà e conflitti specifici nel corpo dei magistrati. Perciò il tradizionale antagonismo tra potere politico del centro e la struttura dell'autorità nelle periferie si complicherà di una conflittualità tra corpi — di funzionari, di ceto, di territorio — che costituirà la condizione essenziale per l'esercizio di un potere regio ormai assoluto, poiché capace di ergersi ad arbitro dei conflitti tra i diversi ma ormai rivali settori della società.

L'organizzazione assolutistica del potere statale non è tuttavia l'unica alternativa possibile alla crisi della monarchia rinascimentale. Le vicende della rivoluzione olandese, che qui non è ovviamente possibile seguire in modo dettagliato, illustrano in ogni caso come gli orientamenti del patriziato urbano possano imprimere un diverso esito costituzionale a fattori quali la strutturazione provinciale della politica e la conseguente tensione intorno all'autonomia fiscale. È opportuno a questo proposito partire dall'analisi del sistema politico da cui prendono origine le Province Unite: intorno alla metà del Cinquecento esse si presentano come un insieme eterogeneo di territori aggregati nel corso di secoli sia dai duchi di Borgogna sia dagli Asburgo, e dotati di un'assemblea rappresentativa nella quale non pare in ogni caso possibile trovare tracce di «coscienza nazionale» prima della rivolta del 1566. Piuttosto, sono le singole province a presentarsi con un'identità specifica, costituita dall'insieme dei propri privilegi politici e fiscali. Insieme eterogeneo che può venir inteso come una confederazione di leghe di città, di signorie laiche e di signorie ecclesiastiche, con un netto e contrapposto predominio delle prime due entità politiche. In questo confuso assetto costituzionale emergono le stratificazioni tipiche della metà Cinquecento: le città, alcune delle quali dominate da gilde mercantili, mentre altre, più numerose, sono governate da patriziati urbani, vengono a costituire un fronte comune contro una nobiltà che l'incorporazione nei domini imperiali (1506) aveva polarizzato nettamente. Da un lato si era formata un'aristocrazia di governatori provinciali legata alla corte, mentre la piccola nobiltà in declino si era divisa tra le diverse clientele dei Grandi. Dall'altro lato si era sviluppata una sparuta ma importante formazione di giuristi usati, secondo il modello già delineato nella prima sezione, dall'imperatore, principe territoriale, per imporre il proprio arbitrato attraverso una serie di corpi provinciali di giustizia sui forti conflitti tra nobili e patriziati urbani per il controllo delle campagne, investite dall'espansione delle manifatture cittadine. Non sorprende perciò come sia stata la piccola nobiltà a dimostrarsi più incline alla rivolta e a fungere da elemento detonatore (seconda sez., doc. 8/b): essa infatti aveva subito un evidente processo di perdita di funzioni, trovandosi a dipendere nella propria immediata sfera di influenza — la provincia — da giudici funzionari cui si sentiva superiore per rango e per importanza politica.

In questo conflitto di potere la congiuntura di metà Cinquecento si rivela decisiva. Un più deciso orientamento assolutistico del sovrano spagnolo si concretizza nell'istituzione di un Consiglio segreto composto esclusivamente da spagnoli, che affianca e annulla il Consiglio di reggenza composto da fiamminghi; inoltre, per rafforzare l'organizzazione ecclesiastica locale, si istituiscono nuovi vescovati su cui la Corona esercita il diritto di nomina. Inoltre il mantenimento dell'esercito spagnolo mandato a sedare la rivolta scatena l'offensiva fiscale del governo centrale, tradottasi nell'introduzione di una serie di imposte indirette improntate a un modello prettamente castigliano, e che gli Stati delle Province Unite rifiutano (doc. 2). Così, intorno all'istituzione medievale degli Stati, provinciali e generali, si viene a esasperare il tradizionale diritto al consenso all'imposizione, consenso cruciale giacché il basso grado di burocratizzazione costringe il sovrano ad affidare alla stessa assemblea il prelievo del donativo. Nel corso del processo rivoluzionario diffuso dalla ribellione della piccola nobiltà, si rivela di cruciale importanza il ruolo assunto dal patriziato urbano. Su di esso convergono infatti due tipi distinti di pressioni: oltre a quella imposta dalle scelte religiose radicali della popolazione urbana, si determina una pressione dall'alto, incarnata dalla presenza anche embrionale di una burocrazia statale: questa intensifica i rapporti tra il nobile governatore della provincia e la corte di giustizia mentre indebolisce il legame tradizionale con gli Stati provinciali, e determina nei singoli patriziati la coscienza di veder minacciati i propri privilegi. Lo spostamento del canale di decisionalità politica esaspera l'isolamento dei patriziati, i cui membri non trovano nel patronaggio regio canali utili a consentire l'esercizio di un'influenza politica che il ruolo assunto dalle città olandesi nell'economia mondiale rende ormai legittimo.

Queste condizioni hanno un forte peso nel determinare l'assetto costituzionale della formazione statale che emerge dalla guerra contro gli spagnoli: una federazione di province storiche e di libere città controllate dalle rispettive oligarchie. Le prime hanno una grande varietà di statuti e di regimi, determinata dalla consuetudine o dalla struttura sociale: si va da province quali la Frisia e la Gheldria, territori poveri dominati dalla nobiltà, all'Olanda, in cui più netta è l'affermazione della supremazia borghese, che dispone di diciotto rappresentanti da parte di altrettante formazioni urbane, mentre la nobiltà non è rappresentata che da un deputato. Meglio sarebbe tuttavia definire i rappresentanti come delegati, poiché i Consigli dei reggenti che governano le città esercitano un controllo molto stretto su di essi. Ancor più caratteristica è l'organizzazione del governo, sia locale che centrale. Ogni provincia, infatti, vota attraverso gli Stati provinciali le proprie imposte e designa i propri governanti: un pensionario, giurista che funge da consigliere e segretario degli Stati provinciali e comanda la burocrazia locale; a esso si contrappone lo stathouder, erede dell'antico governatore locale designato dagli Asburgo, responsabile della flotta e dell'esercito nella provincia. Ogni assemblea provinciale invia delegati agli Stati generali con il compito di deliberare sugli argomenti di interesse comune, diplomazia, guerra e pace, ma con strettissimi margini di iniziativa, poiché a ogni votazione i delegati devono riferire ai propri Stati provinciali. Ciò indica l'esistenza di un controllo permanente da parte delle oligarchie locali teso certamente a indebolire il potere centrale ma capace di preservare il carattere federativo della repubblica. Ciò appare con tutta evidenza se si pensa ai condizionamenti gravanti sull'embrionale organo esecutivo centrale, il Consiglio di stato: esso si limita a ripartire i carichi fiscali delle singole province — ripartizione peraltro esplicativa dei rapporti su cui si fonda la vita dell'Unione, poiché una provincia, l'Olanda, esprime la propria supremazia contribuendo da sola a più della metà delle spese; inoltre è fiancheggiato da due figure contrapposte, uno stathouder nel quale si esprime l'influenza della nobiltà, e il gran pensionario d'Olanda, che rappresenta in modo permanente gli interessi e la potenza delle oligarchie urbane di quella provincia, e funge in realtà da primo ministro. La storia costituzionale dell'Unione si compendia così nella rivalità di queste due figure, nelle quali s'incarnano rispettivamente la supremazia dell'oligarchia dei reggenti e le sue aspirazioni a una struttura federativa di stato, e le istanze in favore di un'organizzazione monarchica e unitaria fondata sul legame tra grande nobiltà (in particolare la casa d'Orange, che spesso si trova a cumulare parecchi stathouderati provinciali) e classi popolari, cementato dalla comune ideologia religiosa calvinista (doc. 10/d).


4. Con l'aprirsi del secolo i diversi modelli di lotta tra fazioni — sia che si svolgano sotto il controllo del patronaggio regio, sia che ne travolgano al contrario il potere — vengono sconvolti dall'emergere di una figura specifica, il ministro, che in modo sempre più netto perviene a monopolizzare il favore del sovrano e a detenere gli elementi chiave della decisionalità politica. A partire almeno dagli anni venti la presenza schiacciante della funzione ministeriale sarà anzi uno dei fattori caratteristici delle principali strutture politiche europee, e si incarnerà nell'ascesa contemporanea del conte-duca di Olivares nella monarchia spagnola, del cardinale di Richelieu in quella francese, di George Villiers duca di Buckingham in quella inglese. Si tratta in ogni caso di un fenomeno di breve durata: con il 1660, infatti, il ministeriato è bandito dalle forme di governo delle monarchie occidentali e il suo repentino declino è legato alle reazioni violente scatenate dalla sua presenza e dalla sua politica, manifestatesi in tutto il continente negli anni quaranta. Quali processi si celano dunque nella presenza e nel potere del ministro?

In primo luogo non può essere sottovalutata la sua caratterizzazione sociologica. Non è tanto la crescente complessità del governo, infatti, a giustificare il predominio della funzione ministeriale: certo, la sua presenza è legata al fatto che sul principe tendano a concentrarsi responsabilità politiche alle quali l'educazione ricevuta non prepara né moralmente né intellettualmente (doc. 8/b), giacché tende a fare del sovrano un gentiluomo votato ad attività fisiche, militari e liberali più che ai problemi reali del governo. E non è certo questo l'aspetto del governo ministeriale ad aver suscitato le reazioni dei contemporanei. Piuttosto, è significativo come questi venisse indicato con un termine, valido o favorito, che suggerisce l'immagine di una sua interferenza nel normale modello di comunicazione tra sudditi e sovrano, in altri termini di un'usurpazione del potere del re a esclusivo vantaggio — personale, familiare o di clientela — del ministro (doc. 11/a). Espresso in questi termini il governo ministeriale si rivela ben adatto a cogliere le trasformazioni dell'aristocrazia e dei modelli di competizione tra le fazioni che sopra abbiamo delineato. Infatti il potere del ministro, pur essendo originato da un sistema di governo teso a sorreggere un'autorità sovrana negligente, debole (o troppo scrupolosa, come nel caso di Filippo II), a gestire periodi critici quali le reggenze, viene percepito come segno di tirannia sulla nobiltà — naturale destinataria del patronaggio regio — e di qui sul popolo. In realtà quel che si paventa è la capacità del ministro di popolare le istituzioni e i posti chiave del governo con una rete di «creature» proprie, provenienti dagli strati superiori della nobiltà di toga, in particolare dai membri delle corti sovrane, e ciò a scapito dell'ideale tradizionale della collegialità del governo. Perciò le accuse di «tirannia» di frequente rivolte al ministro, non investono tanto la subordinazione del sovrano — recenti ricerche, ad esempio, illustrano come questi ne abbia in genere condiviso le scelte politiche — quanto il fatto che dietro di esso si celasse una familia, composta di suoi parenti e clienti, che si contrapponeva ad altre formazioni simili e le escludeva dal potere di destinare pensioni, uffici e gratifiche, dal potere cioè di mutare lo status dei propri alleati e seguaci.

Interesse non minore presenta, in secondo luogo, uno sguardo anche sommario ai modi e ai contenuti della strategia del potere centrale espressi dal ministeriato, soprattutto se li si esamina alla luce del diverso impatto con un mutamento sociale che abbiamo visto dispiegarsi in forme differenti e molteplici. Infatti dietro l'impulso del ministro, e soprattutto negli stati continentali, l'azione dei governi presenta una dinamicità fino allora sconosciuta, nel senso che i favoriti si fanno promotori di impulsi decisamente riformatori, spesso in netto contrasto con il sistema di governo delle monarchie rinascimentali, delle quali propongono addirittura mutamenti costituzionali.

La dinamicità del governo ministeriale appare possibile alla luce di un processo di incalcolabile portata: la trasformazione del significato stesso della legge, in qualche modo conseguente all'affermazione del diritto romano che ha accompagnato e reso possibile in tutta Europa l'espandersi e il rafforzarsi delle prerogative regie. Nei primi anni del Seicento, infatti, è maggiormente percepibile come nella legge emanata dal sovrano si veda ormai non più una mera garanzia della sopravvivenza quotidiana, quanto piuttosto uno strumento potenzialmente capace di demolire la consuetudine. Ciò non vuol in nessun modo significare la praticabilità e la linearità di tale opera di erosione progressiva delle premesse consuetudinarie della police: soltanto, la presenza di tale consapevolezza dà ai ministri del primo Seicento una incisività senza dubbio nuova, che muta le connotazioni del quadro politico e dei conflitti innescati da tale riqualificata presenza del potere centrale.

Se questa è senza dubbio l'autentica novità dei governi della prima metà del Seicento, essa trova in ogni caso applicazione in realtà specifiche, trova ostacoli diversi e darà esito, nella seconda metà del secolo, a forme divergenti di riorganizzazione del potere. La prima e più importante direzione intrapresa dalla strategia politica ministeriale è rappresentata dal tentativo di superare il costituzionalismo contrattuale che ancora caratterizza la monarchia rinascimentale. Esso è determinato dalla necessità dello stato di avviare un processo di uniformazione del prelievo fiscale, ancora condizionato da regimi regionali specifici. Ciò pone problemi diversi a seconda delle monarchie prese in esame. Per la Francia il processo si profila come estensione del regime delle elezioni a quei paesi ancora dotati di assemblee rappresentative, ed è ovviamente legato alla restaurazione del potere fiscale dell'autorità centrale all'indomani delle guerre civili e alla partecipazione alla guerra dei Trent'anni durante il governo di Richelieu (doc. 10/a). Nella monarchia spagnola tale processo si presenta in forme più globali, giacché implica una ben più profonda uniformazione costituzionale, che i programmi riformatori di Olivares affrontano alla radice (doc. 11/b), individuando nella limitazione delle libertà politiche e dei privilegi fiscali delle singole componenti regionali della monarchia l'unica via per arginare l'esaurimento delle energie e delle risorse economiche della Castiglia, sulle cui sole forze si è fino a questo momento fondato lo sviluppo dell'apparato burocratico e militare dello stato. Sia nel caso francese che in quello spagnolo tale sforzo uniformatore provocherà reazioni anche violente: si tratterà nella maggior parte dei casi di rivolte a carattere provinciale e regionale (docc. 10/a, c) guidate dai detentori locali della preminenza, poiché l'abolizione dei privilegi fiscali tenderà a rafforzare le solidarietà tra grande nobiltà, nobiltà periferica e patriziati urbani.

Ma soprattutto si tratterà di resistenze in genere coronate da successo: i paesi d'États francesi e i diversi regni periferici della monarchia spagnola reggeranno all'urto innovatore dell'assolutismo regio. Identico esito avranno i tentativi della corona inglese, nonostante le asserzioni roboanti di Giacomo I Stuart (1604-25) e l'esperimento di governo extraparlamentare del figlio e successore Carlo I (1625-41) negli anni trenta, e nonostante l'esercizio sfrenato del potere clientelare dei due rispettivi ministri Buckingham e Strafford. Qui addirittura la forza dell'istituto parlamentare determinerà il progressivo porsi della questione fiscale in termini costituzionali, giacché i limiti imposti dal controllo dell'istituto rappresentativo al prelievo costringeranno la Corona a ricorrere a forme di imposizione palesemente illegali, quali l'estensione dello Ship Money (cioè del finanziamento della flotta regia in tempo di guerra) agli stessi periodi di pace. La reazione avrà qui la connotazione di una rivoluzione politica da parte di consistenti settori dell'élite (doc. 10/b).

Dalle diverse strategie adottate per superare il costituzionalismo contrattuale dipendono le divergenti politiche fiscali che caratterizzano il governo ministeriale. Le maggiori innovazioni si riscontrano a questo proposito nella situazione spagnola, dove il programma di Olivares prevede una redistribuzione dei carichi (e dei vantaggi, come vedremo oltre) derivanti dalla costruzione dell'apparato statale: in particolare, al fine di sostenere il costo dell'esercito il ministro di Filippo IV propone da un lato di sostituire la tassa sui beni di consumo (millones) con una contribuzione proporzionale delle municipalità castigliane, dall'altra egli si batte per una più equa ripartizione del carico fiscale tra le diverse province del regno, prevedendo un sistema di contribuzioni proporzionali per ciascuna di esse destinate ad assicurare il mantenimento di settori specifici dell'apparato militare (doc. 11/b). Ma si tratta di proposte generatrici di enormi pressioni sui diversi settori delle élites locali, principalmente preoccupate di difendere l'ordine sociale: mentre le città castigliane si opporranno all'introduzione della nuova imposta, le Cortes aragonesi, valenciane e catalane ostacoleranno frontalmente i progetti politici e fiscali castigliani, fino al punto da scegliere, sia pure con modalità e tempi diversi, la ribellione aperta (doc. 10/c).

Nella Francia di Richelieu, invece, la politica centrale tende ad appesantire notevolmente la fiscalità diretta sulle popolazioni contadine, favorendo il diffondersi di movimenti di rivolta popolare che mettono a nudo le sperequazioni territoriali del sistema fiscale. In particolare, il fatto che i responsabili della ripartizione del peso fiscale tra città e campagna, e tra le singole comunità, gli eletti e i tesorieri di Francia, sempre più spesso palesino collusioni familiari e clientelari tese a sfuggire all'esazione, conduce al dissanguamento delle località e dei gruppi sociali meno protetti (doc. 13). In generale, tuttavia, l'atteggiamento dei notabili denota una rilevante ambiguità: mentre all'inizio di ogni fenomeno di resistenza fiscale essi dimostrano favore e copertura, allorché la ribellione prende a dirigersi contro l'élite nel suo complesso tende a delinearsi un «fronte comune» dei detentori locali del potere. Perciò le difficoltà di esazione dell'imposta determinano la pratica di appaltare a traitants e partisans (finanzieri spesso appartenenti al ristretto gruppo degli affittuari delle tenute nobiliari ed ecclesiastiche, veri imprenditori rurali) che ne anticipano l'importo previsto. La strategia di intensificazione del prelievo perseguita dalla Corona, e le necessità poste dall'urgenza dell'esazione, impongono dunque di utilizzare gruppi sociali dotati di scarso consenso locale, col risultato che spesso le imposte vengono raccolte con l'aiuto dell'esercito (doc. 13/b). Non deve dunque sorprendere come in una tale situazione la politica del governo centrale abbia determinato conflitti anche aspri all'interno delle élites.

Un ulteriore elemento di caratterizzazione della politica ministeriale è costituito dalla strategia di controllo delle élites locali, che si affianca e accompagna il superamento del costituzionalismo contrattuale e le conseguenti innovazioni della politica fiscale che abbiamo sin qui delineato. Ad esempio, nel programma di Olivares il rapporto con le élites locali va considerato all'interno del processo di uniformazione costituzionale: si prevede infatti da un lato una riduzione di due terzi degli uffici delle città castigliane, mentre dall'altro si suggerisce al sovrano di troncare il proprio assenteismo mediante frequenti visite alle province periferiche; inoltre si proclama la necessità di impiegare aragonesi, italiani e portoghesi nelle funzioni più importanti della burocrazia imperiale. All'estensione del carico fiscale deve corrispondere una analoga apertura del patronaggio regio a settori delle élites prima esclusi dal favore del sovrano (doc. 11/b).

Di gran lunga più efficaci sono le innovazioni prodottesi nella monarchia francese. Qui infatti l'istituzionalizzazione dell'ereditarietà delle cariche riflette un progetto monarchico teso a separare il corpo dei funzionari dall'influenza della grande nobiltà (doc. 9/b), ma al tempo stesso l'affievolirsi dell'influenza nobiliare sul governo provinciale pone con urgenza il problema del controllo sulle élites periferiche: questo si dimostra così il settore più dinamico e innovativo del sistema amministrativo francese. È una direzione resa necessaria sia dall'ambiguità dello status sociale degli ufficiali, sospesi tra il secondo e il terzo ordine, sia, conseguentemente, dal carattere bifronte del loro comportamento politico, che spesso li fa agire da limite alla gestione assolutistica del potere sovrano, particolarmente in materia fiscale, proprio mentre funge da consenso all'espansione quantitativa del suo apparato di potere. Per questi motivi il potere centrale, a partire dagli anni trenta, si vede costretto a intensificare il controllo sulla gestione della fiscalità locale inviando nelle singole circoscrizioni — come già durante le guerre di religione — referendari di corte, o intendenti — quali suoi rappresentanti diretti (doc. 14/a). I caratteri delle missioni degli intendenti, temporanee e revocabili a piacere, così come la loro rapida diffusione, costituiscono un'autentica rivoluzione amministrativa: estranei alle reti locali di lealtà, e legati alla familia del ministro e delle sue créatures, cui devono la fortuna della carriera, gli intendenti, esponenti dei vertici della nobiltà togata, non sono in grado, al contrario dei governatori, di modellare solide alleanze locali capaci di opporsi alle direttive centrali. Al contrario, essi, in virtù della loro ideologia influenzata dalla «ragion di stato», sia in virtù della fedeltà al ministro, sia in virtù dell'estensione dei loro poteri, sono isolati rappresentanti locali del potere centrale, e la loro presenza innesta reazioni spesso violente (doc. 14/b).

Nella situazione inglese, al contrario, la presenza del duca di Buckinghan quale ministro favorito (doc. 11/a) appare soprattutto esprimere le ambizioni di governo dell'ambiente di corte sia di fronte all'emergere del potere parlamentare, sia di fronte al consolidarsi di un modello originale di amministrazione locale. Tale modello, sviluppatosi nell'età elisabettiana, appare principalmente diretto a controllare e attutire gli squilibri sociali prodotti nelle aree periferiche dai processi di ricomposizione della proprietà terriera, di orientamento capitalistico della sua gestione, cui sopra si è accennato. Un esempio classico è costituito a questo riguardo dall'organizzazione della Poor Law (doc. 15/b), con la tendenza ad affidare alle autorità locali, in questo caso alla gentry influente delle singole parrocchie, la gestione di un fondo per l'assistenza raccolto, caso unico in Europa, attraverso un'imposta regia. L'assetto amministrativo che ne deriva dimostra come l'organizzazione dei poteri dello stato sia ormai in grado di giungere agli aggregati minimi della struttura politica — la parrocchia, e attraverso di essa la comunità rurale —, e di presentarsi qui come garante dell'assetto tradizionale della società. In ogni caso tali misure assistenziali vanno comprese in una più ampia strategia conservativa da parte della Corona, che si è soliti denominare come paternalistica e che si esprime ai più diversi livelli dell'organizzazione sociale. Così, da un lato la Corona, attraverso il tribunale della Camera stellata, nel secolo che precede la rivoluzione del 1640-42, assume un atteggiamento dissuasivo nei confronti dei processi di concentrazione della proprietà fondiaria, nel senso almeno che mira a tutelare i diritti consuetudinari della popolazione rurale dalle aggressioni degli imprenditori locali. Dall'altro il governo centrale si propone un'articolata politica di regolamentazione delle attività economiche, e soprattutto dei settori più tradizionali dell'industria locale attraverso lo Statute of Artificers del 1562-63 (doc. 15/a). Tale strategia non può essere intesa altro che come il tentativo di assicurare la pace esterna e interna, ispirato non tanto da motivi umanitari, quanto dalla consapevolezza dell'impossibilità di far fronte alle spese del disordine per la rigidità di un sistema fiscale subordinato al consenso parlamentare.

In questo quadro una politica di controllo sulle élites locali, quale si configura negli anni trenta con il governo extraparlamentare di Carlo I, non può che assumere i contorni di un'autentica reazione politica; questa si manifesta con il periodo di massima influenza dell'arcivescovo Laud, e con il suo tentativo di rifondare l'unità della Chiesa anglicana e dello stato, restaurando la dignità politica vescovile e, soprattutto, ponendo le premesse per la ripresa di un governo autoritario. Il tentativo di istituire la censura, la dissoluzione del Parlamento, l'aumento dell'imposizione fiscale, la restaurazione di istituti quali le tutele regie, la truffa sulla legittimità dello Ship Money sono i ben noti elementi di una reazione politica fondata sul prevalere di una fazione sempre più identificantesi con la corte di Carlo I e con il ritorno all'ortodossia cattolica. La reazione politica aveva pesanti implicazioni: il governo di Carlo I attacca le posizioni dei vertici della gentry sia sul piano parlamentare, come si è già visto, sia sul piano dell'autorità locale, rafforzando il controllo sull'operato dei giudici di pace attraverso l'istituzione di un Book of Orders che ne regolava strettamente le procedure, intensificando le funzioni di supervisione del Consiglio privato, e adottando pratiche funeste come i prestiti forzati.

In tutto il continente, in ogni caso, l'urgenza del controllo del governo periferico non si fa tuttavia sentire solo nell'ambito della burocrazia locale, ma investe, sia pure con diversa intensità, il mondo nobiliare (doc. 12). La tendenza prevalente è quella di neutralizzarne l'influenza sia sul piano locale che su quello centrale. Da un lato perciò si prendono misure tese ad allontanare le famiglie nobili dalla sfera del potere locale (doc. 11/b), favorendo, come in Spagna, una politica di alleanza matrimoniale tra le aristocrazie delle diverse province. Una simile strategia è tuttavia contraddetta dalle necessità fiscali della Corona, che è costretta ad accentuare la pressione fiscale sui nobili, il che innesta processi di rivolta nei quali vengono coinvolti sia i membri dell'aristocrazia sia le popolazioni contadine a essi soggette, e a cui abbiamo accennato in precedenza. Nel caso francese si tenta allo stesso modo di allentare i legami della grande nobiltà con gli altri settori delle élites provinciali favorendo un processo che abbiamo definito in termini di centralizzazione sociale (doc. 13/b). Con Richelieu tale strategia si precisa e si esplicita in direzione di una limitazione del ruolo politico della nobiltà e di una conservazione e ribadimento del suo prestigio sociale. Si sottolinea perciò la necessità del sovrano di disporre di una nobiltà obbediente e quieta (doc. 12/b), scopo che si cerca di raggiungere con lo smantellamento dei castelli e dei fortilizi nelle province e con la punizione esemplare dei nobili ribelli. Inoltre si scoraggiano con una certa decisione quei comportamenti nobiliari che turbano l'ordine sociale, come ad esempio il duello, che si cerca, anche se invano, di reprimere (doc. 12/a). Nella monarchia inglese la politica nei confronti della nobiltà è fortemente influenzata dalla forza dell'istituto parlamentare e dall'assenza di una burocrazia stipendiata attraverso la quale controllare il ricambio delle élites: perciò sarà lo status nobiliare a venir usato al fine di incanalare le strategie di mobilità sociale. Così, ad esempio, il monopolio del favore regio conquistato da Buckingham viene usato nella direzione dell'inflazione degli onori, nella creazione cioè di nuovi titoli nobiliari venali, quali il titolo di baronetto a partire dal 1625, e nella vendita dei titoli maggiori resisi vacanti per l'estinzione delle casate elisabettiane (doc. 11/a). Significativamente, tale politica si accompagna a una maggior enfasi attribuita al sistema di corte, che assumerà tutto il suo rilievo durante il governo extraparlamentare di Carlo I, allorché, accanto all'intensificazione del controllo sulle élites locali si manifesterà un'autentica reazione sociale filonobiliare richiamantesi alla tradizione medievale dei grandi Consigli dominati dall'aristocrazia, e avente come obiettivo un assolutismo deferente, rigidamente gerarchico, incline al paternalismo e alla stabilità sociale (doc. 10/a).
Tutte queste considerazioni conducono a una definizione variegata degli stessi caratteri del governo centrale. Nel caso spagnolo, ad esempio, appare evidente il tentativo ministeriale di aggirare gli ostacoli posti dalla stessa struttura della burocrazia all'ufficienza politica e amministrativa: la politica centrale mirerà perciò a neutralizzare l'influenza dei magnati, che fin dalla morte di Filippo II (1598) avevano ripreso il controllo dei Consigli centrali, con la creazione di strumenti elastici e pronti a favorire la volontà ministeriale, le juntas. Queste avevano infatti il compito di raccogliere le informazioni provenienti dai diversi Consigli, di fungere da filtro nella comunicazione dei pareri al sovrano; oppure, di deliberare su problemi specifici — in particolare le materie finanziarie —, oppure ancora di attuare i disegni politici generali, cui la routine dei Consigli non era in grado di far fronte. In altri termini l'influenza della grande nobiltà e il suo persistente legame con le realtà periferiche impongono una neutralizzazione dei corpi burocratici: ed è significativo che dopo il decennio delle rivolte provinciali degli anni quaranta il sistema politico spagnolo si attesti su una linea di compromesso con le élites locali, abbandonando non solo la figura del ministro e le giunte di cui questo si serviva, ma restituendo ai Consigli aristocratici il potere perduto durante il governo ministeriale (doc. 12/d). In tal modo si esaurirà il tentativo di accentramento della monarchia spagnola, e, con essa, la capacità di dominare il quadro politico europeo.

Nella monarchia francese invece, la soluzione del controllo delle élites locali (burocratiche quanto nobiliari) consente un diverso assetto del governo centrale: se infatti, da un punto di vista sociologico, le istituzioni centrali vedono ormai il predominio della nobiltà togata, è l'insieme delle sezioni del Consiglio del re ad acquistare d'altro canto decisionalità politica vera e propria, mentre vede aumentare il proprio peso politico il Consiglio delle finanze, che costituisce ormai il primo organo del governo.

Tale dunque è la complessità delle spinte uniformatrici che si delineano nel governo nel corso di quella che possiamo chiamare «l'età del ministeriato». Non v'è perciò da sorprendersi che le reazioni a esso possano assumere identica, se non maggiore articolazione. Senza aver la pretesa di costituire una «tipologia» delle reazioni all'estensione periferica del potere centrale, se ne possono forse ribadire alcune delle principali cause. In primo luogo esse rappresentano — prima ancora che reazioni alla singola iniziativa centrale — reazioni al manifestarsi medesimo di un orientamento «riformatore» che inevitabilmente si concreta nella spoliazione delle risorse locali: reazioni, dunque, nelle quali va vista in generale l'affermazione di una volontà politica da parte delle élites determinata dalla loro natura «bifronte» (doc. 16/b). È una condizione, questa, di carattere generale, la scena di un teatro nel quale cambiano di volta in volta gli attori: è probabile anzi che ci si trovi di fronte a fenomeni di ribellismo nel quale sono presenti settori diversi dell'élite a seconda della natura della pressione esercitata dal governo centrale, cui fanno eco segmenti delle popolazioni soggette in qualche modo legati al settore delle élites che si sente minacciato (docc. 12/c, d). In altri casi, tuttavia, saranno le pressioni esercitate dai gruppi dominanti sulle popolazioni soggette — più facilmente quelle rurali — ad esempio di fronte a un'intensificazione del prelievo, a determinare fenomeni di rivolta che troveranno favore e copertura in segmenti dell'élite contrassegnati da processi di perdita di funzioni (doc. 13/b). In altri termini, la stessa resistenza alla fiscalità o all'uniformazione, la stessa rivolta, costituiscono «risorse» politiche che settori di volta in volta diversi dell'élite sono in grado di sfruttare per imporsi quali interlocutori del potere regio.

Sono questi, per sommi capi, i caratteri delle «rivoluzioni» degli anni quaranta, quando una serie di rivolte regionali, urbane, politiche e sociali di varia natura e complessità minacciò ovunque l'impalcatura istituzionale eretta in questa prima fase della politica assolutista. Come vedremo nelle pagine successive, a esse sarebbero tuttavia corrisposti nuovi processi di ristrutturazione del potere centrale e delle sue mediazioni periferiche.

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Ultimo aggiornamento: 01/03/2006