Fonti
Antologia delle fonti altomedievali
a cura di Stefano Gasparri
e Fiorella Simoni
con la collaborazione di Luigi Andrea Berto
© 2000 – Stefano
Gasparri per “Reti Medievali”
0. Introduzione Dopo la deposizione di Carlo il Grosso, l’Italia entrò in un
periodo complesso e ricco di interessanti trasformazioni. Di solito
però questi decenni – utilizziamo per comodità la scansione
politica: 888-961 – hanno una pessima fama storiografica. Su di essi
grava l’etichetta di “secolo di ferro”, convenzionalmente
attribuita al secolo X (e poco importa se questo periodo non coincide
esattamente con il secolo): un’etichetta che, al di là delle
sue lontane radici – che affondano nella polemica antipapale degli studiosi
protestanti dell’età della riforma, i quali puntarono l’indice
in particolare sulle degenerazioni politiche del papato (5),
estendendo poi tale giudizio negativo all’intera epoca – è in
effetti tutt’altro che ingiustificata, se soltanto si pone attenzione
all’elevatissimo tasso di violenza (anche in rapporto ad un’epoca violenta
come il medio evo) che attraversa tutto il periodo. Responsabili primi
di questa situazione furono. i popoli, o le bande di pirati, protagonisti
delle cosiddette “seconde invasioni”: Saraceni ed Ungari (l’apparizione dei Normanni in Italia fu,
in questa fase, solo episodica). Essi contribuirono a destabilizzare
in maniera profonda la società (2, 3, 4),
attivando anche processi di ribellione sociale: di essi sono una spia
i mali christiani che talvolta vediamo in azione contro i grandi proprietari,
specialmente ecclesiastici. Sotto tiro era in particolare l’Italia centrale
e meridionale (il nord soffrì invece maggiormente per gli Ungari),
dove la Langobardia minore – l’antico ducato di Benevento, segmentatosi
nei tre principati di Benevento, Capua e Salerno – doveva confrontarsi,
oltre che con essi, con il perdurante potere di Bisanzio (3).
Un frutto del tutto diverso della grande spinta piratesca saracena,
che in questo periodo dominava il Mediterraneo, fu invece la conquista
della Sicilia: qui nacquero infatti uno stato ed una società
che erano una replica in tono minore della fiorente Al-Andalus iberica
(10).
Ma i problemi per l’Italia non risiedevano solo nelle incursioni esterne.
C’era indubbiamente una crisi endogena dei poteri centrali, di cui la
lotta per il trono delle grandi famiglie marchionali del Friuli, di
Spoleto, di Ivrea (e di Tuscia), condotta senza tregua sia fra di loro
sia contro alcuni pretendenti esterni – la grande aristocrazia di origine
carolingia, non dimentichiamolo, aveva un carattere internazionale –
era solo l’aspetto più vistoso (1, 6).
Alla base, c’era l’evoluzione delle maggiori cariche pubbliche in senso
ereditario, accompagnata dalla trasformazione delle circoscrizioni pubbliche
in ambiti di potere dinastico, esercitati su una base territoriale nuova,
che coincideva ormai con la potenza effettiva delle grandi famiglie;
nel frattempo le città cadevano progressivamente sotto il controllo
dei vescovi.
Tutti, aristocrazia laica ed ecclesiastica, marchesi, conti, vescovi,
abati si appropriavano dei diritti pubblici fondamentali: quello di
giudicare e punire, quello di battere moneta; soprattutto, quello di
proteggere, espresso con l’assegnazione di compiti militari alle popolazioni
e con l’erezione delle mura cittadine e dei castelli (7,
8). Proprio questi ultimi danno forse il tono
più tipico all’epoca: si parla infatti anche di età dell’incastellamento,
con riferimento non solo alla risposta militare, locale, ai pericoli
esterni – gli eserciti regi di tradizione carolingia, lenti a mobilitarsi,
erano del tutto inadatti a fronteggiare nemici rapidi ed imprevedibili
– ma anche ai processi di costruzione della signoria locale (o castrense,
o di banno, ecc.) centrata intorno al castello, con tutti i processi
di trasformazione economica ad essa connessi: trasferimento della popolazione
contadina, ristrutturazione dell’habitat rurale (9).
L’assunzione dei compiti di difesa locale delle popolazioni andava quindi
di pari passo con l’appropriazione dei diritti pubblici. Il tutto avveniva
senza che si sviluppasse maggiormente una efficiente gerarchia vassallatico-beneficiaria:
i diritti pubblici erano per lo più concessi in piena proprietà,
cioè alienati definitivamente. La base del potere signorile era
dunque prevalentemente allodiale: attenzione quindi a definire questa
età come l’età “feudale” per eccellenza. È,
piuttosto, un’età di anarchia politica; ma in questo i feudi
non c’entrano affatto.
Sotto alla violenta ripetitività della storia politica, che offre una
serie infinita di reguli che appaiono e scompaiono – di tutto ciò è
testimone fedele il vescovo Liutprando di Cremona, il maggior cronista
italiano dell’epoca, avversario di Berengario II e partigiano di Ottone
I – il tessuto della società italiana si stava avviando insomma ad interessanti
trasformazioni. Prova non ultima di ciò è la vivacità crescente della
presenza delle comunità cittadine che, soprattutto nell’Italia del nord,
non assistono affatto passivamente all’evoluzione sociale e politica
in atto (7, 8).
|