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Didattica > Strumenti > Bisanzio. Società e stato - 4

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Bisanzio. Società e stato

di Jadran Ferluga

© 1974 – Jadran Ferluga


4. L'apogeo dell'impero bizantino

La vittoria sull'iconoclastia (843), celebrata ancora oggi nelle chiese ortodosse l'11 marzo come festa del trionfo dell'ortodossia, segna l'inizio di un'epoca nuova della storia bizantina. Nel successivo secolo e mezzo, l'impero raggiunse l'apogeo del suo sviluppo tanto interno quanto esterno, e ne fu protagonista la nuova aristocrazia bizantina. Abbiamo veduto come, nei torbidi del VI e VII secolo, il vecchio ceto latifondista si fosse notevolmente indebolito ma probabilmente senza scomparire del tutto. Dalla seconda metà dell'VIII secolo, però, apparvero i primi sintomi di come si stesse formando una nuova aristocrazia fondata in parte sull'alta burocrazia e in parte sul possesso fondiario, o sull'osmosi di entrambe. Già nella «Legge agraria» era evidente una differenziazione sociale per il momento ancora debole. Accanto a contadini poveri, pur sempre però indipendenti, ne andavano comparendo altri benestanti con schiavi, bestiame, terre, o altri ancora manifestamente più ricchi che davano parte del loro possesso in mezzadria.

Questi fenomeni sociali, pur essendo ancora delle eccezioni, aprivano un processo che raggiunse il suo culmine nel X secolo e le cui tappe si possono in parte seguire. Così la Vita di San Filareto rispecchia con chiarezza estrema questo processo verso la fine dell'VIII secolo e i primi del IX. A Filareto, ricco contadino e probabilmente membro della comunità di un villaggio nella provincia della Paflagonia (Asia Minore), appartenevano grandi possedimenti terrieri, numerosi schiavi e grandi mandrie. Accanto a lui vivevano contadini poveri che avevano perduto ogni bene. La proprietà era ancora instabile e la lotta per la ricchezza aspra: in seguito a un'irruzione araba il Santo perdette parte dei beni e i vicini «potenti» occuparono i suoi fondi (vedi DOC. N. 6).

Un anonimo Trattato sulla tassazione, molto probabilmente della prima metà del X secolo, una specie di manuale per collettori d'imposte, presenta un quadro vivo, anche se unilaterale, della comunità del villaggio bizantino. Comparato alla «Legge agraria» del VII-VIII secolo, il Trattato conferma che il contadino indipendente formava pur sempre il nerbo della comunità del villaggio ma che le differenze sociali, riflettentisi nel possesso fondiario, avevano già fatto grandi e importanti passi. Ricchi e benestanti contadini avevano acquistato terreni da quelli chiamati poveri. Alcuni erano usciti con la loro proprietà fondiaria, completamente o in parte, dalle comunità; altri avevano talmente ampliato i loro fondi a danno dei cosiddetti «poveri» della comunità che dovevano far lavorare le terre eccedenti da schiavi o da salariati (vedi DOC. N. 10). Una parte dei contadini indipendenti era tanto impoverita che fu esentata dal pagamento delle tasse in seguito alla «grande miseria dei contribuenti o dei fondi su cui si pagano le tasse». La comunità del villaggio bizantino continuava a rappresentare per lo stato, come nei secoli precedenti, un'entità fiscale. I suoi membri erano solidali per il pagamento delle tasse (essi non avevano altro padrone che lo stato ed erano indipendenti): dovevano versare cioè le tasse per le terre dei vicini abbandonate, il cosiddetto allilengion. Tutta una serie di misure fiscali del Trattato mette in evidenza la decadenza delle comunità del villaggio in seguito alla differenziazione interna. Fu questo uno dei modi, però uno soltanto, attraverso cui si formò la nuova aristocrazia bizantina.

Una parte dell'aristocrazia doveva molto probabilmente ricollegarsi alla vecchia nobiltà latifondista o senatoriale. Possediamo soltanto qualche scarsissima informazione in merito, ma una in particolare, trasmessaci dal colto imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), sembra confermarne l'esistenza verso la metà del IX secolo. La vedova Danielis di Patrasso possedeva nel Peloponneso non solo immensi complessi fondiari e numerose mandrie, ma anche un'importante industria tessile in cui lavoravano migliaia di schiavi.

Buona parte della nuova aristocrazia traeva le sue origini dai ranghi più elevati dell'amministrazione sia di Costantinopoli che dei «temi», sia civile che militare, dai comandanti dell'esercito e dall'alto clero ma anche da rappresentanti del commercio della capitale e degli altri grandi centri urbani. Con il rafforzamento di questo nuovo ceto sociale s'iniziò, almeno secondo una parte degli studiosi odierni di storia bizantina, il processo di feudalizzazione dello stato. A partire dalla fine dell'VIII secolo appaiono i primi nomi di quelle che un secolo più tardi saranno le grandi famiglie magnatizie. Un secolo più tardi l'imperatore Leone VI (886-912) raccomandava di già esplicitamente che gli strateghi e gli alti ufficiali dei «temi» fossero scelti fra persone di rango elevato, di nascita nobile e ricche. La legislazione di Leone VI aboliva o limitava una serie di divieti di acquisto di terre per i membri della nobiltà della capitale e dell'aristocrazia provinciale. Si dava così nuovo impulso allo sviluppo e al rafforzamento dell'aristocrazia fondiaria, un processo che doveva divampare con tutta la sua forza nel secolo seguente. La ricchezza terriera fu sempre considerata a Bisanzio come l'unica vera ricchezza. Il X secolo visse infatti nel segno della lotta fra governo centrale e aristocrazia provinciale per il controllo del piccolo possidente fondiario, sia esso stato soldato-contadino o libero contadino contribuente. Nel X secolo l'aristocrazia provinciale era ormai un potente e privilegiato ceto sociale che aumentava continuamente le sue proprietà fondiarie e rafforzava la propria posizione nello stato. Le terre dei contadini e degli stratioti passarono nelle mani dei «potenti», dei «dinati», come li chiamavano le novelle imperiali, mentre i loro proprietari, i cosiddetti «poveri», «peneti», divennero col tempo loro paroikoi o «parici», cioè contadini dipendenti simili ai servi della gleba in occidente. È stato però giustamente sottolineato che i «potenti» non erano né obbligatoriamente ricchi né tantomeno dei grandi proprietari fondiari, così come i «poveri» non erano dei nullatenenti. Forse sarebbe meglio chiamarli «deboli». Si trattava di «una classe socialmente e non economicamente povera» e questo vale, naturalmente in senso inverso, anche per i ricchi (Lemerle).

A partire dal VII secolo, la forza dello stato bizantino era impostata sulla piccola proprietà che forniva sia soldati per l'esercito, sia tasse alle casse dello stato. Diminuendo il numero di questi coltivatori, si andava restringendo la base umana e fiscale del governo centrale. Le rendite finivano nelle mani dell'aristocrazia terriera e provinciale e non in quelle del governo centrale, rappresentato di fatto dalla nobiltà burocratica. È stato quindi a buon diritto rilevato che il contrasto fra governo centrale e aristocrazia dei «temi» era una lotta per la rendita in forma di tasse pagate dall'ancora ampio ceto dei piccoli proprietari liberi e non un'ideale difesa da parte del governo imperiale della piccola proprietà e del piccolo proprietario contadino. Si può considerare l'imperatore e con lui il governo centrale come un grande latifondista a cui gli aristocratici volevano sottrarre le terre e i contadini che le lavoravano perché solo così si potevano appropriare degli introiti sia in forma di tasse o tributi che in natura. L'imperatore Romano Lacapeno (920-944) si rese conto del pericolo che questo sviluppo rappresentava per lo stato centralizzato e burocratizzato quale s'era formato negli ultimi secoli. In una novella – cioè legge nuova – chiaramente lo esprimeva: «La piccola proprietà porta grandi benefici con il pagamento dei tributi statali e con la prestazione del servizio militare; questi vantaggi andranno completamente perduti se il numero dei piccoli proprietari diminuisce» (vedi DOC. N. 9).

A cominciare dall'imperatore Romano Lacapeno e poi sotto i suoi successori, Costantino VII Porfirogenito, Romano II (959-963) fino al regno di Niceforo II Foca (963-969), per quasi un mezzo secolo dunque, si succedettero novella a novella, legge a legge, in difesa della piccola proprietà contadina e militare. Fu regolato il diritto d'acquisto secondo un determinato ordine di precedenza, la protimisis, con cui i grandi proprietari terrieri venivano all'ultimo posto tra gli eventuali compratori; furono rivedute le basi giuridiche degli acquisti, delle eredità, dei donativi ecc., si controllarono i prezzi pagati ai contadini, si regolarono i modi di reintegrazione, con o senza indennizzo, dei beni non regolarmente o disonestamente acquistati, per non elencare che alcune delle misure più importanti. Se tutti questi provvedimenti e leggi poterono in parte rallentare il processo in atto, non riuscirono però a fermarlo. Spesso contadini impoveriti e insolventi davanti al fisco, sia in seguito a cattive annate o carestie (quella per es. del 927-928) che a epidemie o debiti accumulati, incursioni nemiche o altri malanni, si davano a un «potente» che ne assumeva gli obblighi, diventando suoi contadini dipendenti, suoi «parici». La legislazione imperiale però non giunse mai fino alle ultime conseguenze: così, per esempio, se gli acquisti erano stati regolati non c'era obbligo di restituzione; i termini per pagare indennizzi ai grandi proprietari per terreni restituiti erano in certi casi troppo brevi per i contadini (per es. solo tre anni). Il controllo poi dell'esecuzione delle leggi era affidato a funzionari dell'amministrazione che tendevano a procacciarsi beni terrieri nelle province. I grandi proprietari fondiari, da parte loro, avevano costantemente l'ambizione di entrare nelle file dei funzionari dello stato. Spesso il «potente» era anche un funzionario, o tale era uno della sua famiglia. Per queste ragioni gli imperatori e il governo centrale non spinsero fino in fondo le misure contro l'aristocrazia terriera poiché in essa dovevano vedere anche una forza sociale su cui eventualmente appoggiarsi un giorno. Effettivamente, all'inizio della seconda metà del X secolo giungeva al potere, per la prima volta nella storia dell'impero bizantino, un membro di una grande famiglia aristocratica: Niceforo II Foca (963-969). Egli ben presto si manifestò come tale ed emanò anche leggi che proteggevano i «potenti» e ne confermavano l'espansione fondiaria. Introdusse inoltre un aumento del valore dei possedimenti degli stratioti da quattro a dodici libbre d'oro: questa triplicazione indicava un mutamento nella composizione dell'esercito bizantino tanto sul piano sociale quanto su quello militare. Ormai il cavaliere pesantemente armato predominava, preannunciando il nuovo ceto dei proniari, piccoli feudatari-cavalieri del XII secolo. Niceforo fu anche il primo imperatore che prese misure radicali per limitare (con una legge del 964) lo sviluppo della proprietà ecclesiastica secolare e regolare. La proprietà fondiaria della Chiesa aveva preso un forte sviluppo soprattutto dopo il trionfo sull'iconoclastia, cioè dalla metà del IX secolo. Il latifondo ecclesiastico cresceva rapidamente grazie a lasciti e donazioni; nuovi monasteri erano stati fondati e riccamente dotati; i vescovi si servivano dei più svariati mezzi per ampliare le loro proprietà. Non bisogna dimenticare che a ciò contribuivano in cospicua misura la religiosità di tutti i ceti della popolazione bizantina e il fatto che la proprietà ecclesiastica non conosceva quasi affatto quei problemi di successione o di divisione che smembravano quella laica. L'imperatore Niceforo II Foca, spinto indubbiamente anche da motivi religiosi e morali, proibì sia l'acquisizione di terre da parte di enti ecclesiastici, sia la fondazione di nuovi monasteri, ma permise che si aiutassero quelli già esistenti col ricavato delle vendite di terreni. Sebbene non abbia mai sortito gli effetti voluti, la legge è indicativa per lo sviluppo del latifondo ecclesiastico e anche di quello laico.

Il successore di Niceforo, Giovanni I Zimisce (969-976), ritornò alla politica antinobiliare. Le misure da lui prese sono altamente significative per la lotta impegnata dal potere centrale contro l'aristocrazia fondiaria per il controllo dei piccoli proprietari. Giovanni Zimisce li ridusse dunque a «parici» appartenenti allo stato in quanto non permise loro di disporre dei propri fondi e li vincolò a questi: così invece di diventare servi di un signore feudale, diventavano servi dello stato. Per i contadini questo non faceva grande differenza. L'ultimo imperatore che dedicò tutta la sua energia alla lotta contro la sempre più forte e potente nobiltà terriera fu Basilio II (976-1025). Egli fu però anche il primo che ebbe a che fare con due ampie e ben organizzate rivolte della nobiltà dei «temi». Prima si sollevò in Asia Minore Barda Sclero, esponente di una delle più antiche e potenti famiglie magnatizie, che nel 976 si fece proclamare imperatore, e che solo nel 979, dopo tre anni di dure lotte, fu sconfitto da un altro generale e magnate: Barda Foca. Il potere centrale era però, malgrado le vittorie, abbastanza indebolito poiché poteva ormai ottenere la sottomissione di una parte dell'aristocrazia solo con l'aiuto dell'altra parte di essa. Foca si sollevò e si fece proclamare a sua volta imperatore. Sostenuto e aiutato da molti generali e dai latifondisti dell'Asia Minore, mise Basilio II in una posizione così disperata che egli dovette chiedere ai Russi aiuti militari. Ormai l'imperatore e il governo centrale dovevano cercare appoggio all'estero, tanto potente era diventata l'aristocrazia fondiaria militare. Con la famosa družina variago-russa, un contingente di 6000 uomini, egli sconfisse il pretendente nel 989.

Basilio II non dimenticò mai più la lezione: forse nessuno degli imperatori bizantini fu mai tanto radicale nella lotta contro l'aristocrazia fondiaria come lui; egli legiferò in modo da conseguire la restituzione completa ai contadini dei beni acquistati dai «potenti» dopo la novella dell'imperatore Romano Lacapeno; inasprì e aggravò i termini abolendo ogni indennizzo ai «potenti» da parte dei contadini o stratioti; limitò l'espansione dei beni fondiari ecclesiastici a spese della proprietà contadina; trasferì sui latifondisti l'obbligo di pagare le tasse per i contadini insolventi, introdusse cioè per loro l'allilengion, misura che era tipica per la comunità del villaggio bizantino, e infine ricorse senza scrupoli alle confische dei beni dei magnati. Così Basilio II confiscò il latifondo del magnate Eustazio Maleino, che abbracciava estesi territori nei «temi» del Charsiano e della Cappadocia, lavorati da migliaia di schiavi e dipendenti, che avrebbero potuto formare un contingente militare di più di mille uomini. L'imperatore, che aveva personalmente visitato i possedimenti di Eustazio, lo convocò nella capitale dove lo tenne quasi prigioniero mentre i suoi beni venivano devoluti allo stato (vedi DOC. N. 17). Non può stupirci che l'aristocrazia militare provinciale, che difendeva la propria indipendenza dal potere centrale, manifestasse un atteggiamento pieno di diffidenze per l'imperatore, atteggiamento che si rispecchia bene nel poema Digenis Akritas, nel cui eroe si deve probabilmente riconoscere appunto un membro della nobiltà guerriera ai confini dell'impero in Asia Minore (vedi DOC. N. 13).

Abbiamo detto che con il rafforzamento della nuova aristocrazia s'iniziò anche il processo di feudalizzazione dell'impero bizantino. Ora che abbiamo seguito, anche se sommariamente, lo sviluppo di questo processo fino alla vigilia del trionfo completo e definitivo dei grandi proprietari fondiari, possiamo abbordare uno dei problemi fondamentali e più discussi della storia economica e sociale dell'impero bizantino: esistettero a Bisanzio rapporti feudali e si può parlare di «feudalesimo bizantino»? Alcuni ritengono di no, data l'assenza di una feudalità, gerarchicamente articolata come in occidente, della subordinazione del vassallo verso il signore, di formule di giuramento di obbedienza e di servizio poste su una base di reciprocità. Secondo altri invece l'essenziale consiste non nella struttura gerarchica e nelle forme tipiche per l'occidente europeo, terra del feudalesimo classico, ma piuttosto nelle relazioni economiche e sociali, e più precisamente nell'esistenza della grande proprietà fondiaria con i suoi contadini dipendenti e la relativa rendita.

In fondo si tratta della signoria rurale tipica per l'occidente e per Bisanzio, che è la base e l'essenza di ogni società feudale.

Partendo da questo principio, parlare di feudalesimo bizantino è, senza dubbio, corretto. Ci furono certo differenze, così che lo sviluppo in occidente e in oriente non fu a prima vista lo stesso. In occidente la struttura fu quasi piramidale mentre diverso fu il caso di Bisanzio, che aveva un forte potere centrale e dove tutti erano soggetti direttamente all'imperatore. Certe forme rudimentali di dipendenza feudale, tipiche per l'occidente, apparvero però già nell'XI secolo. Le differenze provenivano inoltre dal fatto che a Bisanzio lo sviluppo aveva avuto luogo in altre condizioni generali: qui l'economia monetaria era prevalente, la rete di città molto sviluppata, la produzione agraria legata in buona parte al mercato, per non citare che alcuni degli elementi fondamentali.

Meno informati siamo purtroppo sullo sviluppo economico delle città e sui rapporti sociali che vi sussistevano. Il loro ruolo nel periodo di transizione dall'epoca tardo-romana a quella bizantina è riconosciuto da tutti ed è stato da noi debitamente sottolineato. La città bizantina si ruralizzò, in parte a partire dal VI-VII secolo, si ritirò entro le sue mura sotto la pressione esterna e nemica, ma conservò sovente una relativa importanza come centro militare, amministrativo e religioso. Il fatto che durante tutto questo periodo l'economia bizantina fu prevalentemente monetaria, con una valuta stabile e forte anche sui mercati internazionali, dovrebbe costituire la prova conclusiva che la produzione delle città fu rivolta al mercato sia locale che internazionale. Esse quindi continuarono ad avere un ruolo economico importante quali centri di produzione e di commercio, ma anche come mercato per i prodotti agricoli della regione e come centro di residenza dei proprietari fondiari. Grazie al Libro dell'eparco conosciamo oggi la vita e il regime produttivo di Costantinopoli dalla fine del IX secolo fino alla seconda metà del X. Caratteristica essenziale è qui, come in ogni altro campo dell'attività di Bisanzio, un controllo molto sviluppato delle autorità statali. Secondo il Libro dell'eparco tutti i mestieri erano organizzati in corporazioni (non tutte menzionate: notai, orefici, banchieri, cambiavalute, mercanti di abiti di seta e mercanti di seta, sia importata dall'estero sia greggia, tessitori e tintori di seta, mercanti di lino, profumieri, saponieri, speziali, sellai, macellai, pescivendoli, osti, panettieri, falegnami, marmisti, fabbri ferrai, pittori ecc.).

Queste corporazioni traevano le loro origini da quelle dell'epoca tardo-romana, ma il legame del singolo con la corporazione era però meno stretto e la partecipazione non era più ereditaria. L'elemento nuovo era il controllo dello stato, in questo caso rappresentato dell'eparco (cioè il prefetto) di Costantinopoli su tutta l'attività delle corporazioni: dalla quantità alla qualità del prodotto, dal prezzo alle modalità di vendita e di acquisto (vedi DOC. N. 15). Cadevano perciò sotto il controllo dell'eparco anche i commercianti stranieri, Russi e Bulgari, Arabi e Italiani. L'organizzazione, appunto in quanto altamente protettiva, non era stimolante né per i produttori né per i commercianti bizantini, e forse bisogna cercare qui una delle cause della passività di questi che rese possibile agli intraprendenti rappresentanti delle repubbliche marinare italiane di affermarsi sul mercato bizantino a partire dall'XI-XII secolo e di conquistarlo a proprio vantaggio. Difficile è dire qualche cosa di preciso sullo sviluppo delle altre città, tanto più che certamente nel X secolo Costantinopoli aveva ancora una posizione di primissimo piano. Tuttavia, si ebbero anche alcuni altri importanti centri urbani di produzione e di mercato internazionale: Tessalonica (Salonicco) e Corinto nei Balcani, Trebisonda e Amastri sul Mar Nero, Efeso e Attalia in Asia Minore (vedi DOC. N. 16). Questi centri, ma certamente anche alcuni minori, pare avessero un'organizzazione simile a Costantinopoli anche se non sempre così sviluppata; e molti di essi avevano una certa importanza nel commercio regionale e locale. Purtroppo le fonti sono rare e così le opere storiche moderne per cui, eccetto per Costantinopoli, ci muoviamo più sul piano delle analogie e delle ipotesi che su di un terreno storicamente ben fondato.

Lo sviluppo economico e sociale mostra che anche le forme di vita e moltissime istituzioni sopravvissute alla crisi del VI e VII secolo erano ormai scomparse. Verso la fine del IX secolo questa nuova situazione fu confermata dalla legislazione dell'imperatore Leone VI. L'onnipotenza dell'imperatore e la burocratizzazione dello stato raggiunsero allora l'apogeo (vedi DOC. N. 11). L'imperatore era il rappresentante di Dio sulla terra e tutto recava il suggello della volontà divina. Egli era a capo dell'esercito, dell'amministrazione, della giustizia e in un certo senso anche della Chiesa; ed era il difensore di essa e della vera fede poiché la Chiesa aveva il suo capo, il patriarca, che risiedeva a Costantinopoli. Gli imperatori del periodo iconoclasta si erano sforzati di sottomettere la Chiesa, il patriarca Fozio aveva invano tentato, verso la metà del IX secolo, di affermare la teoria dell'equivalenza dei due poteri, l'imperiale e l'ecclesiastico, ma a partire dalla metà del IX secolo si sviluppò quel rapporto tipico a Bisanzio fra Stato e Chiesa in cui lo stato, cioè l'imperatore, aveva spesso l'ultima parola. L'imperatore decideva dell'elezione del nuovo patriarca, lo deponeva se ne era insoddisfatto, poteva in certe materie legiferare al posto della Chiesa. Egli però aveva tutto l'interesse anche a difenderla. Come difensore della vera fede combatteva direttamente contro ogni movimento eretico: conservare la purezza della religione voleva dire praticamente conservare l'unità religiosa dell'impero che era anche ideologica poiché, dato il legame strettissimo fra Chiesa e Stato, quello religioso era il fondamento e la base dell'ideologia imperiale e universalistica. Anche in questo senso, l'impero bizantino ha fatto scuola e questo principio ha conservato il suo valore ben oltre il Medioevo. Chiesa e Stato si sostenevano reciprocamente, per cui la potenza dell'uno significava anche quella dell'altro. La tradizione di collaborazione fra i due poteri è rimasta tipica fino a oggi in tutti i paesi di tradizione ortodossa.

In questo periodo l'organizzazione amministrativa dello stato raggiunse un elevato sviluppo. Tutto il territorio dell'impero era ormai diviso in «temi» (vedi DOC. N. 14). Erano scomparse le unità amministrative e militari di rango inferiore, come clisure, arcontie, ducati, catapanati, drungariati ecc. che, ancora esistenti nel IX secolo, nel frattempo erano state elevate a rango di «tema». Scomparvero nei «temi» le ultime istituzioni romane, come per esempio il proconsolato, e l'elemento militare vi divenne predominante. Il numero dei «temi» era abbastanza grande anche per il fatto che la loro estensione territoriale era stata ridotta.

Con la divisione dei grandi «temi», cominciata già nell'VIII secolo e con la formazione di nuovi, più circoscritti, il potere imperiale sperava di evitare sollevamenti di strateghi troppo forti e potenti.

Accanto a un forte esercito «tematico», cioè provinciale, si svilupparono reggimenti imperiali residenti nella capitale, i cosiddetti «tagmata», che acquistarono sempre più importanza specialmente a partire dal X secolo. Mentre i «temi» erano formati da contadini-soldati, i « tagmata» erano composti da soldati di professione. Anche la marina si distingueva in flotta imperiale e flotta «tematica»: mentre la prima era sottoposta a un ammiraglio chiamato «drungario delle navi», la seconda era sotto il comando degli strateghi. Nella flotta e nell'esercito della capitale gli imperatori avevano uno strumento da opporre a eventuali pretendenti o a rivoltosi nelle province. Sembra perciò abbastanza evidente che il principio su cui si basava la divisione dell'esercito dell'epoca tardo-romana fu mantenuto almeno nelle linee fondamentali. Il governo centrale fu in parte rafforzato sia con lo sviluppo delle «logotesie» (una sorta di ministeri), sia soprattutto per il fatto che sempre più numerose istituzioni diventavano dipendenti dall'imperatore. Così spesso la carica di logoteta del dromo, ministro cioè degli interni e degli esteri, era affidata al segretario dell'imperatore. Questa struttura complessa dello stato, l'organizzazione complicata del governo centrale e dell'amministrazione provinciale, dell'esercito e della flotta s'appoggiavano su di un immenso apparato burocratico. La dipendenza dall'imperatore di ogni singolo membro della burocrazia trovò la sua espressione in liste gerarchiche in cui i funzionari dell'amministrazione militare, civile, di corte ed ecclesiastici, con i loro uffici, furono ordinati a seconda della loro importanza e del loro ruolo (vedi DOC. N. 14). La centralizzazione del potere aveva raggiunto il culmine e la dipendenza di ogni singolo dall'imperatore sembrava più che mai rafforzata.

L'organizzazione dello stato, la sua complessità e differenziazione, l'economia monetaria, la proprietà fondiaria in ascesa e i rapporti da esse risultanti, tutto dovette essere regolato da una vasta e precisa legislazione. Infatti nella seconda metà del IX secolo due imperatori, Basilio I e Leone VI, ordinarono la rielaborazione dell'antico diritto e la modernizzazione di esso. L'autocrazia imperiale ebbe così la sua legislazione che meglio corrispose ai tempi nuovi anche se nella forma fu molto vicina al diritto romano.

Il rafforzamento del potere imperiale si manifestò in questo periodo anche nella continuità del potere supremo che rimase nelle mani della stessa famiglia. Dalla metà del IX secolo alla metà dell'XI regnò a Bisanzio la dinastia detta macedone dal capostipite Basilio I (867-886), originario del «tema» della Macedonia, la cui capitale era Filippopoli (l'odierna Plovdiv in Bulgaria). Sotto questa dinastia l'impero raggiunse l'apogeo. Fu terminata la riconquista dei Balcani, i confini furono riportati sul Danubio, parte della Sicilia fu riconquistata e Creta ripresa agli Arabi; in oriente, con l'incorporazione dell'Armenia, i confini raggiunsero il Caucaso mentre a sud l'esercito imperiale aveva passato il Tauro e riprendeva Antiochia. Quest'espansione fu opera dell'aristocrazia feudale, avida di nuove terre e maggiori ricchezze che poté ottenere all'interno con l'appropriazione della piccola proprietà libera dei contadini e soldati e all'esterno con l'acquisto di nuovi territori strappati al nemico. Lo sviluppo della nuova aristocrazia feudale e il suo affermarsi nella vita dell'impero bizantino caratterizzarono questo periodo di quasi due secoli, periodo che giustamente è stato definito bizantino.

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UpUltimo aggiornamento: 02/07/05