Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI –
metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
Introduzione (2/4)
Nonostante le risorse e i potenziali elementi di ripresa ai quali abbiamo
accennato, molti enti ecclesiastici versavano nei secoli XIII e XIV
in una situazione di indebitamento e potevano far fronte al “fortissimo
debito usurario” e al crescente “peso degli interessi”
solo con l’alienazione definitiva di parte del patrimonio fondiario
(doc. n. 3). La necessità di estinguere un debito
ritenuto eccessivo e pericoloso era l’unica circostanza che potesse
legittimare, secondo il diritto canonico, la vendita di beni delle chiese;
proprio per tale motivo bisogna considerare con circospezione le lamentele
sull’indebitamento, sull’immensa mole delle usure, sulla
rovina imminente, che ricorrono in questi atti di vendita: non si deve
mai escludere l’ipotesi che i titolari di un ente ecclesiastico
esagerassero ad arte le sue passività, per giustificare alienazioni
fondiarie che sembrassero loro opportune indipendentemente dalla situazione
finanziaria dell’ente. Di più: anche quando una chiesa aveva effettivamente
accumulato un forte debito, ciò non era dovuto necessariamente ad una
situazione economica difficile; al contrario, si hanno esempi di chiese
che ricorrevano al credito per compiere acquisti sistematici di terre,
di case e di diritti, per realizzare arrotondamenti fondiari in una
zona determinata o per costruire mulini o edifici, cioè per compiere
una serie di investimenti destinati in prospettiva a ripagare ampiamente
il costo del debito, soprattutto in un’epoca di costante svalutazione
monetaria. Ma queste cautele, necessarie per una valutazione approfondita
ed equilibrata delle fonti, non devono far sottovalutare le gravi difficoltà
finanziarie in cui versava una buona parte degli enti ecclesiastici.
Mentre sino alla metà del secolo XII chiese e monasteri avevano svolto
un’importante attività di prestito a interesse (cfr. Sez. III,
Introduzione), in seguito
l’attività creditizia e usuraria passò nelle mani di famiglie
laiche cittadine e delle società mercantili e bancarie da queste costituite,
mentre sul mercato del denaro gli enti ecclesiastici comparvero quasi
esclusivamente in posizione di domanda. Il loro indebitamento cronico
era l’aspetto più appariscente di una crisi economica di lungo
periodo, dovuta alla perdita dei diritti signorili, al sistema delle
concessioni fondiarie a lunghissimo termine, all’erosione e alla
contestazione del patrimonio e dei diritti delle chiese da parte dei
contadini, dei medi e piccoli proprietari laici, dell’aristocrazia
minore, delle autorità cittadine.
Se aristocratici ed enti ecclesiastici erano costretti a vendere o ad
impegnare i propri beni per fare fronte alle necessità di denaro, tanto
più grave era la situazione in cui potevano venirsi a trovare molti
piccoli proprietari del contado. Dai registri catastali del secolo XIII
(per un esempio di questo tipo di fonti cfr. il doc. n. 6)
emerge l’immagine di un estremo frazionamento della proprietà,
del grande numero di residenti del contado che disponevano di superfici
agrarie minime e integravano il modesto reddito delle terre di loro
proprietà con i proventi del lavoro su terra altrui. Per questi coltivatori
divenne sempre più difficile accantonare scorte e formarsi un risparmio.
Così un cattivo raccolto, una malattia del bestiame, una devastazione
di guerra (cfr. doc. n. 11) li costringevano,
per assicurare la sussistenza della famiglia, a vendere il fondo oppure
a cederlo in pegno a prestatori del loro villaggio (doc. n. 16)
o a mercanti e banchieri cittadini. Il frazionamento della proprietà,
tipico del secolo XIII, si accompagnava così necessariamente a una veloce
circolazione della terra. Talora erano famiglie originarie del contado,
immigrate in città ma rimaste in possesso di terre nella loro zona di
provenienza, che approfittavano della situazione di disagio economico
dei proprietari confinanti – chiese, aristocratici o piccoli coltivatori
diretti – per acquistarne i campi o per riceverli in pegno, e
arrotondare così il proprio patrimonio fondiario.
La messa a coltura di nuove terre e l’erosione di antiche proprietà
collettive, l’espansione del mercato dei prodotti agricoli, la crisi
e la liquidazione dei beni delle maggiori famiglie aristocratiche e
di numerosi enti ecclesiastici, l’instabilità economica di tanti piccoli
proprietari del contado diedero spazio all’affermazione di una serie
di aziende agrarie di dimensioni medie, possedute e gestite da proprietari
laici agiati, non nobili, non coltivatori, spesso di origine rurale.
Per costoro l’acquisto di campi, vigne, pascoli e boschi era la forma
più corrente di investimento di capitali, talora modesti, comunque sempre
soggetti al processo di svalutazione della moneta; il possesso della
terra rappresentava per loro, a differenza che per i grandi proprietari
dei secoli XI e XII, esclusivamente una fonte di reddito. Essi si preoccupavano
quindi, da un lato, di assicurare il bestiame, le sementi e gli strumenti
necessari alla piena valorizzazione del fondo, dall’altro di esercitare
uno stretto controllo sul lavoro agricolo, in modo che l’attività lavorativa
di ogni nucleo familiare contadino fosse concentrata esclusivamente
sul fondo padronale.
Tra le forme di concessione fondiaria si era andato affermando, anche
nelle proprietà ecclesiastiche, l’affitto in denaro a breve termine:
quando il contratto giungeva a scadenza, il padrone poteva concedere
il rinnovo dietro versamento di una somma e, soprattutto, la breve durata
del contratto gli dava la possibilità di procedere a frequenti aumenti
del canone.
A volte poteva convenire ai proprietari il ricorso a lavoranti agricoli
giornalieri. Ma in modo particolare, nel quadro della generale affermazione
dei canoni in natura alla quale si è accennato, si vennero estendendo
i contratti di tipo parziario, dove i concessionari erano tenuti alla
residenza sul fondo e alla sua coltivazione e dovevano annualmente al
padrone una quota di tutti i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento.
Tra la metà del secolo XIII e la metà del secolo XIV assunse grande
importanza una forma particolare di parziaria, la mezzadria, in base
alla quale il padrone della terra si impegnava a fornire – in proporzioni
variabili – una parte delle sementi, degli animali da lavoro ecc., mentre
il contadino era tenuto alla consegna annuale di metà del prodotto e
ad una serie di oneri accessori.
In queste forme contrattuali, e in particolar modo nella mezzadria,
la produttività del lavoro contadino divenne un fattore essenziale nel
quadro dell’economia padronale. Poiché il reddito del proprietario
era variabile, in funzione dell’entità del raccolto annuale, così
egli era direttamente interessato all’andamento dei lavori agricoli;
le legislazioni cittadine riconobbero esplicitamente, come vedremo,
il diritto del proprietario a svolgere un’attività di sorveglianza
e di controllo su tutte le principali operazioni di semina, di sistemazione
agricola, di raccolta. Nelle aziende di una certa ampiezza tale attività
non era esercitata personalmente dal padrone, ma da un suo agente, detto
“villico” o “gastaldo”: si andava formando la
nuova categoria dei fattori di campagna, destinata ad avere sempre maggiore
importanza man mano che le medie aziende agrarie si consolidavano e
si estendevano a spese delle proprietà minori o dei grandi possedimenti
in decadenza. A differenza dai “gastaldi” delle antiche
tenute signorili (cfr. Sez. II, doc. n. 1),
questi amministratori rurali dei secoli XIII e XIV erano tenuti a render
conto della propria gestione in maniera assai continua e rigorosa: le
loro possibilità di guadagno e di ascesa sociale risiedevano dunque
in uno sfruttamento ulteriore del lavoro dei contadini.
Sia che fossero soggetti al controllo diretto del padrone sia che si
trovassero sottoposti alla sorveglianza dei suoi fattori, i contadini
vennero così costretti quasi dovunque, all’incirca dalla metà
del Duecento, ad intensificare il proprio lavoro su terre di proprietà
altrui. Divenne per loro sempre più difficile coltivare anche terre
possedute in proprio: nel corso del secolo XIV sembra essersi verificata
una generale riduzione del numero dei proprietari e una concentrazione
di proprietà a scapito dei coltivatori diretti. I proprietari delle
medie aziende agricole tendevano a imporre ai lavoratori l’obbligo
di risiedere sul podere padronale e di coltivarlo personalmente (docc.
nn. 7 e 9) e talora
sancivano anche in maniera esplicita il divieto di coltivare altri campi
(doc. n. 9a). Questo assorbimento integrale
del lavoro dei contadini si estendeva a tutto il loro nucleo familiare:
sotto l’impulso della nuova organizzazione padronale si verificò,
dunque nelle campagne un processo di consolidamento della coesione interna
delle famiglie contadine – processo che fu sostanzialmente favorito,
come abbiamo veduto nella Sezione seconda, dalla legislazione delle
città.
Per molti proprietari, soprattutto per quelli residenti in città, il
podere era in primo luogo la fonte dell’approvvigionamento dei
generi alimentari necessari ai propri familiari e ai propri servitori
domestici (cfr. doc. n. 6) ; man mano che l’azienda
si ampliava, era possibile orientarla, oltre che verso il consumo diretto
del proprietario, verso i mercati cittadini e rurali, puntando sulla
coltura del cereale più pregiato, il frumento, o delle piante destinate
all’industria tessile (lino, canapa), sulla produzione dei filugelli,
sull’allevamento del bestiame grosso e soprattutto sulla produzione
vinicola. Ma in ogni caso era indispensabile che la produzione annuale
del podere coprisse tutto il fabbisogno alimentare della famiglia coltivatrice,
poiché da questa si richiedeva una prestazione di lavoro integrale ed
esclusiva sui fondi padronali. Si affermò così, soprattutto nelle terre
concesse a mezzadria o in altre forme parziarie, un sistema di colture
promiscue, non specializzate, dove in ogni unità aziendale erano compresenti
i campi a cereali, le vigne, gli olivi e gli alberi da frutto (questi
disposti spesso sui confini dei campi e lungo i fossi di irrigazione),
gli orti; l’alternanza, all’interno di ogni podere, dei
cereali invernali e di quelli primaverili, il loro avvicendamento con
le colture di leguminose, il mantenimento di prati e di campi a riposo,
destinati al pascolo del bestiame, e la conservazione di macchie e boschi,
ancora indispensabili come fonte di combustibile, di materiale edilizio
e di concime nonché per il pascolo dei suini, accentuarono nel paesaggio
agrario italiano quel carattere di estremo frazionamento e di varietà
che si sarebbe mantenuto – soprattutto nelle zone collinari –
sino ai giorni nostri.
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