Fonti
Le campagne nell’età comunale
(metà sec. XI – metà sec. XIV)
a cura di Paolo Cammarosano
© 1974-2005 – Paolo Cammarosano
Introduzione
Abbiamo veduto nella Sezione precedente come la proprietà fondiaria
avesse costituito, nella prima eta comunale, la base per un sistema
di relazioni personali e per l’esercizio di forme di governo sugli uomini.
All’interno dei maggiori possedimenti si creava un’articolazione complessa
di relazioni feudali e di concessioni e subconcessioni di tipo enfiteutico,
mentre lo sfruttamento economico delle risorse agricole dava luogo,
da un lato, a insediamenti contadini di lunga durata fondati su rapporti
consuetudinari, dall’altro a diritti d’uso esercitati collettivamente
dai residenti delle campagne. Dall’insieme dei canoni dovuti da enfiteuti
e livellari, delle quote di prodotti agricoli versate dai servi della
gleba, delle decime e di svariate imposizioni di natura signorile i
grandi proprietari ritraevano indubbiamente redditi annui molto elevati.
Lo scopo essenziale dell’aristocrazia militare e dei grandi enti ecclesiastici
rimaneva comunque l’affermazione di un potere sugli uomini, non consisteva
nella completa messa a frutto del potenziale economico – spesso immenso
– delle terre e nell’assorbimento di quote. sempre maggiori della forza
lavorativa dei contadini.
In simili condizioni ebbe modo di consolidarsi, all’interno delle
circoscrizioni territoriali della signoria, intorno ad antichi villaggi
e nelle nuove terre lentamente conquistate dall’opera di dissodamento
e di sistemazione agricola, una categoria numerosa di proprietari fondiari
medi e piccoli. Molte volte questi si appropriarono di terreni che erano
stati detenuti per lunghissimo tempo – a titolo di enfiteusi o nelle
altre forme di concessione che abbiamo descritte – dai loro ascendenti.
Dalla metà del secolo XII si moltiplicano gli elenchi di censi e canoni
rivendicati dai proprietari di vasti territori: anche se non veniva
sempre dichiarato in maniera esplicita, lo scopo principale di questi
inventari era la riaffermazione, da parte dei grandi proprietari, del
dominio sulle loro terre – quindi del diritto a percepire canoni, censi
e prestazioni – contro le appropriazioni dei concessionari.
Il fattore determinante nell’affermazione di proprietà medie e piccole
non fu comunque questa possibilità di appropriazioni “abusive”, ma
il fatto che le famiglie contadine dei secoli XI-XII, dipendenti dai
maggiori proprietari e inquadrate nel dominio signorile, potessero disporre
a proprio vantaggio di una parte del proprio lavoro, tale da consentire
un miglioramento relativo della loro condizione economica e sociale:
sia che venisse dedicata a un migliore sfruttamento dei campi ricevuti
in concessione dai padroni sia che fosse indirizzata all’opera di dissodamento
di terreni incolti, questa disponibilita rendeva infatti possibile in
molti casi la formazione di un risparmio, che era normalmente destinato
all’acquisto di terreni in proprietà. Tra il secolo XII e il XIII sono
documentatissimi i casi di contadini che lavoravano, oltre ai campi
padronali, campi di loro proprietà: tali situazioni non si sarebbero
potute creare, e soprattutto non si sarebbero potute mantenere, se vi
fosse stato uno sfruttamento razionale e completo del lavoro contadino
da parte dei proprietari maggiori.
L’acquisizione di terre non era alla portata di ogni famiglia contadina.
Le possibilità erano diverse a seconda della pressione dei grandi proprietari,
delle facilità di accesso al mercato dei prodotti agricoli, delle condizioni
demografiche e naturali delle diverse zone di insediamento e, all’interno
di ogni zona, delle diverse posizioni di partenza di ogni singola famiglia.
L’incremento complessivo del patrimonio fondiario delle famiglie contadine
e il miglioramento della situazione economica delle classi rurali nel
loro insieme comportarono in realta un progressivo accrescimento delle
differenziazioni interne al mondo contadino. Nell’epoca per la quale
i registri catastali consentono un primo apprezzamento della distribuzione
della proprietà (cioè dalla metà del secolo XIII in poi) si puo infatti
constatare, da un lato, la grande diffusione e il frazionamento delle
terre, dall’altro l’ampiezza delle differenze tra le numerose categorie
di proprietari piccoli e medi. Dal confronto dei registri catastali
con gli altri documenti dell’epoca emerge l’immagine di una vasta categoria
di piccoli coltivatori diretti, alcuni dei quali erano riusciti a formarsi
una proprietà piccola ma sufficiente al mantenimento della famiglia,
mentre i più disagiati continuavano a integrare con il lavoro su terra
altrui (in qualità di servi della gleba, oppure di mezzadri, giornalieri
ecc.) quello che svolgevano sui loro possessi, troppo modesti per assicurare
la sussistenza familiare; in condizione ancora inferiore era la categoria,
destinata a divenire sempre più numerosa verso la fine del Medioevo,
di quei lavoratori agricoli che non disponevano di alcuna terra propria.
D’altra parte si andava accentuando il distacco tra tutte queste categorie
di lavoratori e quei proprietari medi, di origine contadina, che non
lavoravano se non una parte delle proprie terre (affidando a mezzadri
o a giornalieri la lavorazione del rimanente) o avevano senz’altro abbandonato
del tutto il lavoro contadino: dediti ad attività di altro tipo – artigianato,
piccolo commercio, usura – costoro si erano trasformati in percettori
di reddito fondiario e si erano fusi cosi con il ceto dei piccoli e
medi proprietari di origine cittadina che investivano nell’acquisto
di terreni i guadagni conseguiti con l’attività artigianale, bancaria
e mercantile, professionale.
È con la progressiva differenziazione interna del mondo contadino, e
con il consolidarsi di un ceto di coltivatori diretti e di medi proprietari,
che va posto in relazione lo sviluppo dei Comuni rurali, i quali si
organizzarono intorno ai castelli minori e ai villaggi ed appaiono sempre
più numerosi e documentati dalla fine del secolo XII. Nella Sezione
precedente abbiamo riprodotto un testo del 1153 (doc. n. 7),
che mostra come già in quell’epoca agissero organizzazioni comunali
del contado che contrastavano le autorità signorili soprattutto in merito
al godimento collettivo di boschi, incolti e pascoli: i vicini di Velate
volevano che i diritti di pascolo e di raccolta in luoghi determinati
spettassero solo ai membri del proprio Comune, a esclusione di altri
dipendenti della signoria; affermavano inoltre un proprio diritto a
prelevare prodotti del bosco per organizzarne la custodia contro invasioni
e danneggiamenti e, soprattutto, intendevano procedere a una divisione
del bosco per instaurarvi forme di sfruttamento individuale.
Tra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII si hanno frequenti
esempi di convenzioni tra Comuni rurali e signori e di Statuti concessi
da questi ultimi sotto la pressione dei membri del Comune (cfr. Sez.
I, doc. n. 10). Dalla metà del
Duecento, quando i Comuni del contado erano ormai soggetti al dominio
territoriale delle autorità cittadine, essi godevano di forme di governo
autonome, che si esplicavano nella creazione di proprie magistrature,
nell’organizzazione di una finanza locale, nell’emanazione
di Statuti che disciplinavano, sia sul piano civile che su quello penale,
le relazioni tra i membri del Comune. In questi Statuti comunali del
contado, che sono tra le fonti più interessanti per la storia rurale
italiana del Basso Medioevo, è sempre tutelata in maniera rigorosa la
proprietà privata dei campi e sono posti limiti severi all’utilizzazione
di boschi, pascoli e incolti, dei quali soltanto una parte spettava
alla comunità rurale nel suo complesso ed era suscettibile di forme
di godimento collettivo, disciplinate dalle autorità locali (cfr. doc.
n. 19).
L’accentuata differenziazione della società contadina, lo sviluppo di
un ceto di proprietari piccoli e medi, l’organizzazione – da parte di
costoro – di forme di governo locale e l’affermazione della sovranità
cittadina sul territorio furono i fattori decisivi della lenta crisi
delle autorità signorili. Per molti grandi proprietari fondiari, per
i quali la terra era stata soprattutto una base per l’esercizio del
potere, tale crisi di autorità comportò anche un grave decadimento economico.
Fodri, banni, albergarie e le altre esazioni di cui abbiamo parlato
a suo luogo costituivano un complesso di entrate troppo importante perché
la loro perdita potesse essere compensata agevolmente e rapidamente
con un aumento dei canoni fondiari. D’altronde questi ultimi avevano
avuto per lunghissimo tempo carattere di fissità: il rapido adeguamento
dei canoni alle esigenze padronali, all’evoluzione del costo della vita
e alle nuove opportunità del commercio era una pratica estranea – ancora
verso la metà del secolo XII – ai signori laici ed ecclesiastici, abituati
a concedere le loro proprietà sulla base di consuetudini e di contratti
che rimanevano invariati di generazione in generazione. Il fatto che
gran parte dei canoni fossero in denaro espose numerosi proprietari
agli influssi negativi di un processo secolare di decadimento nel valore
della moneta, processo che sembra essersi accelerato dalla fine del
secolo XII in quasi tutta l’Italia comunale. La crisi colpì in primo
luogo i signori laici, esponenti della maggiore aristocrazia militare,
sia perché erano sostanzialmente disinteressati alla gestione economica
dei propri beni sia perché erano più facilmente soggetti – attraverso
le vicende delle successioni ereditarie – a frazionamenti e a dispersioni
della loro stessa base patrimoniale.
La grande proprietà ecclesiastica rimase invece dovunque una forza economica
assai vitale, ancora per tutto il Duecento. Giocavano in suo favore
la sostanziale unità, compattezza e continuità nel tempo dei possedimenti
fondiari e una lunga abitudine all’amministrazione metodica delle proprie
ricchezze. Alla crisi dell’autorità signorile nelle campagne chiese
e monasteri opposero una resistenza molto lunga e non priva di successi,
e dalle minacce di dispersione o di deterioramento dei beni ecclesiastici
trassero l’impulso a operare ricognizioni accurate dei propri diritti,
a ordinare gli archivi e a recuperare tutti i titoli di proprietà, a
instaurare sistemi di contabilità aziendale: la ricchezza del materiale
documentario di età comunale, proveniente dagli archivi ecclesiastici,
costituisce di per sé la prova eloquente di un forte impegno economico
e di un immenso sforzo organizzativo.
I più abili amministratori di chiese e monasteri furono anche capaci
di approfittare delle nuove opportunità di commercio dei prodotti agricoli,
offerte dallo sviluppo demografico e urbanistico dei secoli XII-XIII,
e di evitare i pericoli della svalutazione monetaria: ambedue i risultati
furono ricercati attraverso l’instaurazione di canoni in natura
(cfr. docc.nn. 2 e 13),
spesso sostitutivi di antichi canoni in denaro (cfr. Sez.II, doc. n.
1a, deposizione del canonico
Giovanni). Sotto questo profilo assunse anche una nuova importanza l’antico
diritto della decima, che veniva riscossa dai vescovi (o dagli enti
ecclesiastici cui questi ultimi ne avessero fatto concessione) non soltanto
sulle terre appartenenti alla Chiesa, bensì in tutto il territorio diocesano.
Nei secoli XII e XIII, quando vi fu al tempo stesso un aumento generale
della produttività agricola e un costante svilimento della moneta, la
percezione della decima parte di tutti i prodotti dell’agricoltura
e dell’allevamento costituì un potente fattore di incremento della
ricchezza delle chiese; ma per gli stessi motivi la prestazione della
decima veniva sempre peggio tollerata dai proprietari laici e dai contadini
e dava luogo a contestazioni, delle quali si offre qui un esempio molto
interessante (doc. n. 1).
Nonostante le risorse e i potenziali elementi di ripresa ai quali abbiamo
accennato, molti enti ecclesiastici versavano nei secoli XIII e XIV
in una situazione di indebitamento e potevano far fronte al “fortissimo
debito usurario” e al crescente “peso degli interessi”
solo con l’alienazione definitiva di parte del patrimonio fondiario
(doc. n. 3). La necessità di estinguere un debito
ritenuto eccessivo e pericoloso era l’unica circostanza che potesse
legittimare, secondo il diritto canonico, la vendita di beni delle chiese;
proprio per tale motivo bisogna considerare con circospezione le lamentele
sull’indebitamento, sull’immensa mole delle usure, sulla
rovina imminente, che ricorrono in questi atti di vendita: non si deve
mai escludere l’ipotesi che i titolari di un ente ecclesiastico
esagerassero ad arte le sue passività, per giustificare alienazioni
fondiarie che sembrassero loro opportune indipendentemente dalla situazione
finanziaria dell’ente. Di più: anche quando una chiesa aveva effettivamente
accumulato un forte debito, ciò non era dovuto necessariamente ad una
situazione economica difficile; al contrario, si hanno esempi di chiese
che ricorrevano al credito per compiere acquisti sistematici di terre,
di case e di diritti, per realizzare arrotondamenti fondiari in una
zona determinata o per costruire mulini o edifici, cioè per compiere
una serie di investimenti destinati in prospettiva a ripagare ampiamente
il costo del debito, soprattutto in un’epoca di costante svalutazione
monetaria. Ma queste cautele, necessarie per una valutazione approfondita
ed equilibrata delle fonti, non devono far sottovalutare le gravi difficoltà
finanziarie in cui versava una buona parte degli enti ecclesiastici.
Mentre sino alla metà del secolo XII chiese e monasteri avevano svolto
un’importante attività di prestito a interesse (cfr. Sez. III,
Introduzione), in seguito
l’attività creditizia e usuraria passò nelle mani di famiglie
laiche cittadine e delle società mercantili e bancarie da queste costituite,
mentre sul mercato del denaro gli enti ecclesiastici comparvero quasi
esclusivamente in posizione di domanda. Il loro indebitamento cronico
era l’aspetto più appariscente di una crisi economica di lungo
periodo, dovuta alla perdita dei diritti signorili, al sistema delle
concessioni fondiarie a lunghissimo termine, all’erosione e alla
contestazione del patrimonio e dei diritti delle chiese da parte dei
contadini, dei medi e piccoli proprietari laici, dell’aristocrazia
minore, delle autorità cittadine.
Se aristocratici ed enti ecclesiastici erano costretti a vendere o ad
impegnare i propri beni per fare fronte alle necessità di denaro, tanto
più grave era la situazione in cui potevano venirsi a trovare molti
piccoli proprietari del contado. Dai registri catastali del secolo XIII
(per un esempio di questo tipo di fonti cfr. il doc. n. 6)
emerge l’immagine di un estremo frazionamento della proprietà,
del grande numero di residenti del contado che disponevano di superfici
agrarie minime e integravano il modesto reddito delle terre di loro
proprietà con i proventi del lavoro su terra altrui. Per questi coltivatori
divenne sempre più difficile accantonare scorte e formarsi un risparmio.
Così un cattivo raccolto, una malattia del bestiame, una devastazione
di guerra (cfr. doc. n. 11) li costringevano,
per assicurare la sussistenza della famiglia, a vendere il fondo oppure
a cederlo in pegno a prestatori del loro villaggio (doc. n. 16)
o a mercanti e banchieri cittadini. Il frazionamento della proprietà,
tipico del secolo XIII, si accompagnava così necessariamente a una veloce
circolazione della terra. Talora erano famiglie originarie del contado,
immigrate in città ma rimaste in possesso di terre nella loro zona di
provenienza, che approfittavano della situazione di disagio economico
dei proprietari confinanti – chiese, aristocratici o piccoli coltivatori
diretti – per acquistarne i campi o per riceverli in pegno, e
arrotondare così il proprio patrimonio fondiario.
La messa a coltura di nuove terre e l’erosione di antiche proprietà
collettive, l’espansione del mercato dei prodotti agricoli, la crisi
e la liquidazione dei beni delle maggiori famiglie aristocratiche e
di numerosi enti ecclesiastici, l’instabilità economica di tanti piccoli
proprietari del contado diedero spazio all’affermazione di una serie
di aziende agrarie di dimensioni medie, possedute e gestite da proprietari
laici agiati, non nobili, non coltivatori, spesso di origine rurale.
Per costoro l’acquisto di campi, vigne, pascoli e boschi era la forma
più corrente di investimento di capitali, talora modesti, comunque sempre
soggetti al processo di svalutazione della moneta; il possesso della
terra rappresentava per loro, a differenza che per i grandi proprietari
dei secoli XI e XII, esclusivamente una fonte di reddito. Essi si preoccupavano
quindi, da un lato, di assicurare il bestiame, le sementi e gli strumenti
necessari alla piena valorizzazione del fondo, dall’altro di esercitare
uno stretto controllo sul lavoro agricolo, in modo che l’attività lavorativa
di ogni nucleo familiare contadino fosse concentrata esclusivamente
sul fondo padronale.
Tra le forme di concessione fondiaria si era andato affermando, anche
nelle proprietà ecclesiastiche, l’affitto in denaro a breve termine:
quando il contratto giungeva a scadenza, il padrone poteva concedere
il rinnovo dietro versamento di una somma e, soprattutto, la breve durata
del contratto gli dava la possibilità di procedere a frequenti aumenti
del canone.
A volte poteva convenire ai proprietari il ricorso a lavoranti agricoli
giornalieri. Ma in modo particolare, nel quadro della generale affermazione
dei canoni in natura alla quale si è accennato, si vennero estendendo
i contratti di tipo parziario, dove i concessionari erano tenuti alla
residenza sul fondo e alla sua coltivazione e dovevano annualmente al
padrone una quota di tutti i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento.
Tra la metà del secolo XIII e la metà del secolo XIV assunse grande
importanza una forma particolare di parziaria, la mezzadria, in base
alla quale il padrone della terra si impegnava a fornire – in proporzioni
variabili – una parte delle sementi, degli animali da lavoro ecc., mentre
il contadino era tenuto alla consegna annuale di metà del prodotto e
ad una serie di oneri accessori.
In queste forme contrattuali, e in particolar modo nella mezzadria,
la produttività del lavoro contadino divenne un fattore essenziale nel
quadro dell’economia padronale. Poiché il reddito del proprietario
era variabile, in funzione dell’entità del raccolto annuale, così
egli era direttamente interessato all’andamento dei lavori agricoli;
le legislazioni cittadine riconobbero esplicitamente, come vedremo,
il diritto del proprietario a svolgere un’attività di sorveglianza
e di controllo su tutte le principali operazioni di semina, di sistemazione
agricola, di raccolta. Nelle aziende di una certa ampiezza tale attività
non era esercitata personalmente dal padrone, ma da un suo agente, detto
“villico” o “gastaldo”: si andava formando la
nuova categoria dei fattori di campagna, destinata ad avere sempre maggiore
importanza man mano che le medie aziende agrarie si consolidavano e
si estendevano a spese delle proprietà minori o dei grandi possedimenti
in decadenza. A differenza dai “gastaldi” delle antiche
tenute signorili (cfr. Sez. II, doc. n. 1),
questi amministratori rurali dei secoli XIII e XIV erano tenuti a render
conto della propria gestione in maniera assai continua e rigorosa: le
loro possibilità di guadagno e di ascesa sociale risiedevano dunque
in uno sfruttamento ulteriore del lavoro dei contadini.
Sia che fossero soggetti al controllo diretto del padrone sia che si
trovassero sottoposti alla sorveglianza dei suoi fattori, i contadini
vennero così costretti quasi dovunque, all’incirca dalla metà
del Duecento, ad intensificare il proprio lavoro su terre di proprietà
altrui. Divenne per loro sempre più difficile coltivare anche terre
possedute in proprio: nel corso del secolo XIV sembra essersi verificata
una generale riduzione del numero dei proprietari e una concentrazione
di proprietà a scapito dei coltivatori diretti. I proprietari delle
medie aziende agricole tendevano a imporre ai lavoratori l’obbligo
di risiedere sul podere padronale e di coltivarlo personalmente (docc.
nn. 7 e 9) e talora
sancivano anche in maniera esplicita il divieto di coltivare altri campi
(doc. n. 9a). Questo assorbimento integrale
del lavoro dei contadini si estendeva a tutto il loro nucleo familiare:
sotto l’impulso della nuova organizzazione padronale si verificò,
dunque nelle campagne un processo di consolidamento della coesione interna
delle famiglie contadine – processo che fu sostanzialmente favorito,
come abbiamo veduto nella Sezione seconda, dalla legislazione delle
città.
Per molti proprietari, soprattutto per quelli residenti in città, il
podere era in primo luogo la fonte dell’approvvigionamento dei
generi alimentari necessari ai propri familiari e ai propri servitori
domestici (cfr. doc. n. 6) ; man mano che l’azienda
si ampliava, era possibile orientarla, oltre che verso il consumo diretto
del proprietario, verso i mercati cittadini e rurali, puntando sulla
coltura del cereale più pregiato, il frumento, o delle piante destinate
all’industria tessile (lino, canapa), sulla produzione dei filugelli,
sull’allevamento del bestiame grosso e soprattutto sulla produzione
vinicola. Ma in ogni caso era indispensabile che la produzione annuale
del podere coprisse tutto il fabbisogno alimentare della famiglia coltivatrice,
poiché da questa si richiedeva una prestazione di lavoro integrale ed
esclusiva sui fondi padronali. Si affermò così, soprattutto nelle terre
concesse a mezzadria o in altre forme parziarie, un sistema di colture
promiscue, non specializzate, dove in ogni unità aziendale erano compresenti
i campi a cereali, le vigne, gli olivi e gli alberi da frutto (questi
disposti spesso sui confini dei campi e lungo i fossi di irrigazione),
gli orti; l’alternanza, all’interno di ogni podere, dei
cereali invernali e di quelli primaverili, il loro avvicendamento con
le colture di leguminose, il mantenimento di prati e di campi a riposo,
destinati al pascolo del bestiame, e la conservazione di macchie e boschi,
ancora indispensabili come fonte di combustibile, di materiale edilizio
e di concime nonché per il pascolo dei suini, accentuarono nel paesaggio
agrario italiano quel carattere di estremo frazionamento e di varietà
che si sarebbe mantenuto – soprattutto nelle zone collinari –
sino ai giorni nostri.
Ma l’aspetto composito e vario del paesaggio era dovuto anche
alla coesistenza di forme diversissime di proprietà e di conduzione
agricola. Si deve infatti sottolineare che il passaggio alle forme moderne
di appropriazione del suolo e di sfruttamento del lavoro contadino fu
quanto mai lento, protratto nel tempo e niente affatto generale e lineare.
Ancora nel secolo XIV persistevano importanti possedimenti collettivi,
boschi e pascoli destinati all’uso comune, beni demaniali dei
Comuni rustici e, nonostante il processo di concentrazione fondiaria
del quale abbiamo dato un cenno, sussisteva dovunque un numero rilevante
di piccoli e piccolissimi proprietari e coltivatori diretti. Si è già
parlato della persistente vitalità e importanza di molte delle grandi
tenute ecclesiastiche e di come si venissero affermando, anche al loro
interno, forme di concessione a breve termine e imposizioni di canoni
parziari. In molti casi queste forme di sfruttamento non venivano instaurate
direttamente dall’ente ecclesiastico, ma da una categoria di concessionari
intermedi, che ricevevano la terra dalla chiesa (dietro versamento di
un censo enfiteutico o di una quota non troppo elevata della produzione)
e la facevano coltivare da altri imponendo canoni parziari. Gli esempi
di censuari delle chiese, che affidavano terreni incolti ai lavoratori
agricoli perché li dissodassero (doc. n. 5)
oppure assumevano in proprio la direzione e l’onere finanziario
dei lavori di sistemazione (doc. n. 13), non
sono molto frequenti; in genere, soprattutto a partire dalla metà del
Trecento, gli enfiteuti e gli altri intermediari delle chiese puntarono
piuttosto sull’intensificazione dello sfruttamento dei contadini
che non su investimenti per migliorare o rendere a coltura i terreni.
Anche nei contratti stipulati direttamente tra i grandi proprietari
nobili ed ecclesiastici e i coltivatori si andarono comunque diffondendo,
già dai primi anni del secolo XIII, forme più moderne di percezione
del reddito fondiario: e spesso queste si trovano affiancate (come nel
doc. n. 2) a elementi tradizionali quali la
perpetuità della concessione e l’imposizione di censi e oneri
signorili. D’altro canto nei contratti di mezzadria, stipulati
da medi proprietari laici e dagli esponenti della “borghesia”
cittadina, vennero recepiti – e sarebbero rimasti fino ai nostri
giorni – elementi di soggezione tipici del regime signorile: forniture
di donativi, più o meno simbolici (uova, capponi, focacce ecc.), e prestazioni
di lavoro di tipo “angariale”.
Oltre agli elementi di varietà, dovuti a queste interferenze tra vecchi
e nuovi tipi di rapporto fondiario, si deve tenere presente l’estrema
variabilità di forme all’interno di ogni tipo contrattuale, e
in particolare la gamma amplissima di combinazioni offerta dai contratti
parziari. Se infatti, per quanto concerneva la ripartizione del prodotto,
si andava sempre più generalizzando il sistema di divisione per metà,
erano invece regolate in modi sempre particolari e diversi, al momento
della stipulazione del contratto o del suo rinnovo, l’entità dei
capitali forniti dal proprietario e la partecipazione di ciascun contraente
alle spese. Generalmente il padrone forniva solo una parte delle sementi,
degli animali e degli attrezzi da lavoro; spesso la concimazione delle
terre era a carico, totale o parziale, del contadino. A quest’ultimo
incombeva, salvo eccezioni, l’onere di trasportare nei magazzini
del padrone la quota di prodotti che gli era dovuta. Venuto a espirazione
il contratto, la ripartizione degli animali nati, dei residui della
produzione agricola dell’annata (paglia, letame ecc.) e del valore
di eventuali migliorie apportate dal contadino veniva fatta anch’essa
in base a criteri specifici e individuali. Non mancano esempi di coloni
parziari e mezzadri di condizione relativamente agiata, come quel Vanni
di Ildibrandino che poteva impegnarsi nei confronti del proprietario
ad assumere l’aiuto di un garzone salariato e ad acquistare un
paio di buoi per la lavorazione del podere (doc. n. 9b).
A seconda delle diverse proporzioni in cui venivano distribuiti i ricavi,
gli oneri e soprattutto gli apporti di capitale (per tutti questi aspetti
si vedano i docc. nn. 7 e 9),
si configuravano diversi gradi di sfruttamento e diversi modi di soggezione
della famiglia contadina.
Dietro la grande varietà delle forme di conduzione fondiaria e dietro
le moltissime combinazioni interne dei contratti di mezzadria e degli
altri contratti parziari si vede comunque delinearsi, tra la metà del
secolo XIII e la metà del secolo seguente, un processo di continua divaricazione
tra le condizioni dei lavoratori, sempre più spesso sprovvisti di beni
propri, indebitati e dipendenti dall’apporto di capitale dei padroni,
e le condizioni di questi ultimi. Un numero considerevole di medi proprietari
fondiari continuava a risiedere nei villaggi e nei castelli del contado.
Ma in quasi tutta l’Italia centro-settentrionale si venne soprattutto
consolidando la vasta categoria dei proprietari che abitavano stabilmente
in città, dove esercitavano le attività dell’artigianato, della
mercatura o del prestito. Molti di questi proprietari urbani erano di
origine rurale; la stessa precisione e minuziosità dei riferimenti ai
diversi prodotti agricoli, alle scorte e alle operazioni dell’agricoltura
e dell’allevamento, contenuti nei contratti mezzadrili, fecero
esprimere a uno storico di grande valore “l’impressione
che tali contratti non possano essere stati formulati che da proprietari
terrieri i quali, a loro volta, in forza di tradizioni profonde, erano
perfettamente al corrente della tecnica dei lavori agricoli”.
Nel corso del secolo XIV si venne comunque perdendo la fisionomia “rurale”
di questi proprietari, ormai perfettamente integrati e fusi nel mondo
cittadino e non più distinguibili da quegli artigiani, mercanti e banchieri
di antiche origini urbane che a loro volta compravano terreni nel contado,
per affittarli o darli a mezzadria secondo le forme contrattuali correnti,
collocandoli magari sotto il controllo di un fattore. Si ponevano così
le basi per la formazione di una nuova categoria di proprietari “assenteisti”,
lontani dai luoghi di produzione e puri percettori di rendita. È
interessante notare come anche le chiese e i conventi delle città tendessero
ad assumere una simile fisionomia. Fin dagli inizi del secolo XIII i
canonici delle chiese cattedrali usavano procedere a una sistematica
ripartizione del loro patrimonio fondiario in tante quote o “prebende”,
il reddito di ciascuna delle quali era assegnato a un determinato canonico.
Ai Frati Minori, che istituzionalmente non potevano detenere beni propri,
era destinata la rendita dei terreni offerti loro dai benefattori o
assegnati dalle autorità ecclesiastiche; e anche i Frati Predicatori,
che si configurarono sin dall’inizio come un’istituzione
specificamente cittadina, fondarono in parte la propria consistenza
patrimoniale sulle rendite fondiarie percepite nel contado.
Nel contesto della formazione di un vasto ceto di proprietari cittadini,
interessati direttamente allo sfruttamento del lavoro contadino ma normalmente
lontani dalle loro terre è assolutamente integrati nei modi di vita
urbani, vanno collocate anche le origini di una letteratura sulla vita
e le operazioni dei campi, il cui esponente di maggior rilievo è il
cittadino bolognese Pietro De Crescenzi (cfr. doc. n. 12).
Egli compose intorno al 1305 un trattato in dodici libri sulla sistemazione
dei campi e l’organizzazione delle tenute padronali, sulle diverse
colture, sugli alberi selvatici e da frutto, sui giardini e sugli orti,
sull’allevamento degli animali (con particolare riguardo ai cavalli)
e sulla caccia alle fiere. Nella struttura di quest’opera ha un
peso decisivo il riferimento agli scrittori di agricoltura di Roma antica,
dove l’interesse umanistico dell’autore è vivificato dal
senso di una congenialità profonda; come Catone, Varrone e Columella,
Pietro De Crescenzi scriveva infatti per un pubblico di proprietari
fondiari colti e agiati, che essendo inseriti completamente nel mondo
cittadino erano soggetti al rischio di perdere ogni controllo sulla
gestione dei propri fondi, a profitto di “villici” pigri
o disonesti e di contadini avidi. “È la presenza del padrone –
scriveva Pietro De Crescenzi – che fa progredire il campo, e chi
abbandona la vigna viene da essa abbandonato; la sfacciata voracità
dei contadini non ha paura di nulla, se non della presenza e della vigilanza
dei padroni”.
Mentre si andava formando un ceto di proprietari non coltivatori, per
lo più inurbati e tendenzialmente assenteisti, i lavoratori della terra
del secolo XIV disponevano sempre più raramente di beni propri. Anche
quando possedevano un poco di terra; erano posti in serie difficoltà
dal costo elevato degli attrezzi e, soprattutto, degli animali. Nei
secoli XIII e XIV i contadini, sia che lavorassero su terra propria
sia che lavorassero come mezzadri o affittuari sul podere padronale,
dovevano rivolgersi a proprietari agiati e a mercanti per ottenere i
buoi necessari al lavoro e alla concimazione dei campi. Dalla fine del
secolo XIII assunse importanza sempre crescente una forma di affidamento
del bestiame che aveva origini molto antiche: la sòccida. Il proprietario
delle bestie le affidava per un numero di anni determinato al contadino
o, nel caso si trattasse di interi armenti e greggi, a un pastore; al
concessionario (soccidario, “soccio”, “socciolo”)
spettavano tutti gli oneri di allevamento, cura e sorveglianza: venuto
a scadenza il contratto, si procedeva a una ripartizione degli animali
tra proprietario e lavoratore secondo criteri diversi, determinati per
contratto o sanciti da consuetudini e da Statuti. Talora si effettuava
una divisione di tutti i capi di bestiame in due parti uguali: ciò avveniva
quando gli animali erano stati destinati specialmente alla riproduzione
o quando il soccidario, oltre a fornire il lavoro e le spese, aveva
versato anche un consistente affitto annuale per tutta la durata del
contratto. Più spesso invece era diviso a metà non l’intero armento
o gregge, ma soltanto la differenza tra i capi di bestiame presenti
allo scadere del contratto e quelli affidati all’inizio. L’aspettativa
normale era che l’armento o il gregge risultasse accresciuto,
così che il padrone, oltre a reintegrare il suo capitale, ottenesse
anche la metà degli animali nati nel periodo del contratto. Se al contrario
i capi di bestiame risultavano diminuiti, il soccidario doveva rifondere
metà dei danni al padrone; questo purché la diminuzione non fosse dovuta
a colpa o negligenza del soccidario, perché in tal caso questi era tenuto
a reintegrare l’intero capitale.
Nella pratica i proprietari di bestiame tendevano a garantirsi contro
ogni rischio di diminuzione del capitale, imponendo ai soccidari, per
contratto, l’obbligo di restituire comunque tutti i capi di bestiame
loro affidati (o il valore corrispondente): solo dopo questa integrale
restituzione del capitale si poteva procedere alla divisione per metà
dell’eventuale accrescimento; mentre, in caso di diminuzione dei
capi di bestiame inizialmente affidati, il soccidario era obbligato
a rifondere l’intera differenza. Tale forma di sòccida, detta
“a capo salvo”, venne assimilata dai giuristi e dai canonisti
del tempo al prestito usurario, cioè al rapporto per cui un creditore
percepiva un interesse senza affrontare alcun rischio effettivo di perdita
del capitale. Di fatto in tutti i tipi di sòccida (per un’interessante
esemplificazione dei quali si veda il doc. n. 20)
era presente un elemento speculativo; in un’epoca di costante
ascesa dei prezzi, chi poteva acquistare capi di bestiame non soltanto
collocava i suoi capitali liquidi in un bene di alto valore, ma inoltre,
con la stipulazione di sòccide, si assicurava un reddito in natura netto,
dal momento che tutto il lavoro e tutte le spese (le quali ovviamente
seguivano la generale tendenza all’aumento) erano a carico dei
concessionari. Alla base di questa forma di affidamento del bestiame
era dunque la stessa logica che aveva portato alla costituzione delle
medie aziende fondiarie dei proprietari cittadini e all’affermazione
dei canoni parziari in natura e dei rapporti mezzadrili: forme di sòccida
erano del resto normalmente congiunte a contratti di mezzadria (cfr.
doc. n. 9b).
Gli acquisti di campi e di bestiame, la formazione dei poderi e delle
medie aziende agricole, l’instaurazione di rapporti di affitto
a breve termine e le concessioni di terre e di capi di bestiame dietro
corresponsione di canoni parziari sono gli aspetti più importanti dell’attività
di investimento e di speculazione promossa nelle campagne dai nuovi
ceti urbani e dai proprietari agiati del contado. Ma vale la pena di
fare un accenno anche ad altre forme di attività economica, di carattere
più immediatamente speculativo e spesso decisamente usurario. I prestiti
su pegno fondiario, della cui importanza nei secoli XI e XII si è detto
nell’Introduzione alla Sezione III, conobbero nel Duecento e nel
Trecento un’ulteriore affermazione. Adesso i creditori, che si
facevano cedere in pegno campi e poderi, ne godevano i frutti a titolo
di interesse e se ne appropriavano definitivamente in caso di insolvenza
del debitore, non erano più preti ed enti ecclesiastici, bensì mercanti,
banchieri ed usurai laici; inoltre, nel nuovo e grande sviluppo dell’attività
commerciale e finanziaria, si manifestava la tendenza a “girare”
in breve tempo il titolo di credito a terze persone, che versavano al
creditore originario la somma da questi prestata e subentravano nel
godimento del pegno e negli altri diritti nei confronti del debitore
(doc. n. 18). Quando i debitori erano contadini,
o comunque persone di condizione sociale modesta, al prestito su pegno
poteva accompagnarsi l’instaurazione di un rapporto di affitto
o di parziaria tra loro e il creditore. Così, in due mutui del 1315
(doc. n. 16), un prestatore di villaggio dell’Appennino
si faceva promettere dai debitori che costoro avrebbero lavorato a proprie
spese la terra ceduta in pegno e avrebbero versato ogni anno la metà
del prodotto, sino al rimborso della somma ricevuta in prestito; il
valore in denaro dei prodotti agricoli era determinato una volta per
tutte all’atto della stipulazione del mutuo: poiché i prezzi tendevano
ad aumentare, tale forma di rimborso del capitale implicava di per sé
una percezione di interessi da parte del creditore.
In questo caso il prestito in denaro si combinava dunque con una forma
di speculazione sui prodotti agricoli, altro importante aspetto dei
rapporti economici che si affermarono nelle campagne italiane a partire
dal secolo XIII. Lo stesso processo di svilimento della moneta che aveva
giocato un suo ruolo nell’instaurazione dei canoni in natura e
dei contratti di parziaria spingeva infatti molti prestatori a chiedere
che il capitale venisse loro rimborsato in una quantità determinata
di grano, vino o altri prodotti agricoli. Nei rapporti di questo tipo
non è sempre facile distinguere l’aspetto puramente “cautelativo”,
cioè la preoccupazione del creditore di salvaguardarsi contro la caduta
del potere d’acquisto della moneta, e l’intento di approfittare
del processo “inflazionistico” per conseguire lucri molto
elevati. Questo secondo aspetto, decisamente speculativo e spesso usurario,
viene completamente alla luce in quei prestiti che si presentano sotto
l’apparenza di acquisto anticipato dei prodotti dei campi. I piccoli
coltivatori diretti in difficoltà e i contadini, sempre più numerosi,
che non possedevano se non la propria forza lavorativa, potevano spesso
far fronte a bisogni immediati di denaro solo impegnando presso i creditori
il raccolto futuro dei propri campi o una parte della quota di prodotti
del fondo padronale che sarebbe toccata a loro dopo la trebbiatura e
la vendemmia. Si affermavano così acquisti di grano “in erba”,
di uve sui tralci e simili; va da sé che ove il raccolto così impegnato
risultasse cattivo o comunque inferiore al previsto, ciò aveva il duplice
effetto di aumentare i prezzi, accrescendo ulteriormente il guadagno
del prestatore, e di rendere impossibile la soluzione integrale del
debito, creando così re premesse per un indebitamento ulteriore dei
lavoratori.
Contro le forme di speculazione più gravi e clamorose si rendeva necessario
l’intervento delle autorità comunali. È vero che molti esponenti
del ceto dominante cittadino erano proprietari di terre, interessati
a sfruttare il lavoro contadino e determinati a trarre ogni profitto
dalla debolezza economica delle classi rurali: ma la necessità di assicurare
il fabbisogno alimentare della popolazione urbana, in particolare dei
salariati e dei piccoli artigiani, l’opportunità di evitare fluttuazioni
troppo violente dei prezzi agricoli, che si sarebbero ripercosse su
tutti gli altri prezzi, determinando costi eccessivi per le attività
dell’artigianato, dell’industria tessile e dell’edilizia,
e altre esigenze di stabilità e di equilibrio sociale consigliavano
di porre un freno alle attività di speculazione su terreni e prodotti
agricoli. In alcune legislazioni cittadine (si vedano le complesse disposizioni
degli Statuti di Como e di Brescia: docc. nn. 8
e 14) si posero dei limiti ai prestiti su pegno
fondiario e ai debiti in natura. Ma erano più frequenti, e avevano carattere
più generale ed organico (si vedano i capitoli statutari parmensi, riprodotti
sotto il n. 22/2), le norme intese a impedire
fenomeni di accaparramento dei generi di prima necessità e delle colture
industriali: così si vietava l’acquisto di vino, grano e lino
prima del raccolto, si determinavano per legge i luoghi di scambio dei
prodotti agricoli nel contado e nella città, si imponeva la proibizione
di acquistare beni per rivenderli e si sanciva che nessuno potesse acquistare
quantità di cereali di vino eccedenti il fabbisogno della propria famiglia.
Contestuali a questi provvedimenti erano le norme di divieto dell’esportazione
dei grani oltre i confini del contado e gli obblighi di recare determinate
quote di produzione sul mercato cittadino, dove talora era imposto un
limite massimo ai singoli prezzi (cfr. doc. n. 22/1).
Si deve dire tuttavia che, nel complesso delle norme di carattere
economico contemplate dagli Statuti cittadini, quelle che riguardano
il commercio della terra e dei prodotti agricoli non sono mai così numerose,
dettagliate e coerenti come le altre che regolano l’attività degli
artigiani, dei commercianti al minuto, degli edili e di altre categorie
di modesti lavoratori. Nel complesso, i legislatori cittadini dedicarono
alle attività agricole e all’insieme dei rapporti di produzione
e di scambio nelle campagne uno spazio nettamente sproporzionato rispetto
all’enorme peso che aveva l’agricoltura nelle strutture
economiche del tempo. Sembra inoltre che le norme statutarie sull’agricoltura,
in conformità con una tendenza generale del tipo di controllo dell’attività
economica instaurato dalle autorità cittadine, concernessero soprattutto
il momento dello scambio e del consumo e intervenissero molto meno nel
campo della produzione e dei rapporti di produzione. Se in quasi tutti
gli Statuti cittadini si possono leggere rubriche che impongono a proprietari
e a comunità rurali, in funzione dell’ubicazione dei campi o dell’entità
delle singole aziende, la piantagione di determinate colture arboree,
oppure vietano pratiche agrarie dannose (cfr. docc. nn. 4
e 17), si tratta comunque sempre di disposizioni
isolate nel complesso della legislazione comunale.
Per la verità un giudizio complessivo sull’intervento cittadino
nel campo della produzione e delle pratiche agrarie non può essere ancora
formulato con sicurezza, per mancanza di studi e soprattutto per una
grave lacuna nel lavoro di edizione delle fonti; infatti soltanto gli
Statuti, cioè i testi legislativi di carattere generale, sono stati
pubblicati in numero abbastanza consistente, mentre sono assai scarse
le edizioni e gli spogli di quei documenti, numerosissimi negli archivi
italiani, che interessano la pratica amministrativa e l’attività
economica correnti dei governi comunali: deliberazioni dei consigli
cittadini, ordinanze e ingiunzioni, registri finanziari e di amministrazione,
stipulazioni tra i rappresentanti comunali e privati cittadini o comunità
rurali. Ora, è proprio attraverso documenti di questo tipo che si possono
seguire le attività di promozione dell’agricoltura e le forme
di organizzazione economica perseguite dai governi comunali. Ciò vale
in particolar modo per la partecipazione cittadina ai lavori di sistemazione
agricola, di irrigazione e di bonifica, che fu molto importante in alcune
zone della pianura padana ma è attestata per diverse altre zone d’Italia.
Ma nel complesso, per quel poco che ancora sappiamo sulla gestione finanziaria
e sulla spesa pubblica dei Comuni italiani nei secoli XIII e XIV, non
risulta che essi abbiano dedicato al potenziamento della produzione
agricola risorse ingenti come quelle che erano assorbite dalle opere
pubbliche urbane, dagli approvvigionamenti straordinari in tempo di
carestia e soprattutto dalle attività di guerra. Sembra che le opere
di sistemazione e di miglioramento dei terreni fossero demandate per
l’essenziale all’iniziativa dei singoli proprietari residenti
in città o di quelli organizzati nei Comuni del contado.
Era del resto un orientamento di fondo delle legislazioni cittadine
dei secoli XIII e XIV, nello stesso tempo in cui cercavano di eliminare
o di contenere ogni forma di autorità pubblica e di potestà sulle persone
esercitata dai proprietari fondiari, quello di esaltare il diritto di
questi ultimi alla piena e assoluta disponibilità economica dei propri
fondi, libera da obblighi e vincoli nei confronti di chiunque, garantita
contro ogni tentativo di boicottaggio da parte di proprietari rivali,
di signori, di Comuni rustici o di lavoratori. In quasi tutte le legislazioni
comunali dell’Italia centro-settentrionale ricorrono disposizioni
intese ad impedire rigorosamente che i proprietari, in seguito a pressioni,
manovre e intimidazioni esercitate da comunità o da signori locali,
non trovino coltivatori per i propri fondi (doc. n. 4).
In molti Statuti è sancito il diritto dei proprietari, che avessero
ceduto terre a mezzadria o in altre forme di parziaria, a esercitate
una sorveglianza e un controllo sui principali lavori agricoli e al
momento della raccolta (doc. n. 10). Ai contratti
parziari era dedicata una speciale attenzione, adeguata all’importanza
che venivano assumendo e all’interesse dei proprietari per questa
forma di sfruttamento; nel corso del Trecento i legislatori bolognesi,
“desiderando… contrastare la malizia degli agricoltori,
che rifiutano di essere coloni parziari e desiderano passare a contratti
di affitto – cosa che potrebbe tornare a non piccolo danno dei
proprietari fondiari”, sarebbero giunti a imporre le locazioni
parziarie, come uniche forme valide di concessione di terre ai lavoratori.
La disciplina dei contratti di parziaria costituì un’importante
eccezione alla tendenza, riconoscibile in tutta la legislazione statutaria
comunale, per cui si demandavano i rapporti contrattuali alla libera
stipulazione tra le parti e ai principi del diritto comune, cioè del
diritto romano. A sua volta questa tendenza andava nel senso di favorire
i proprietari e di affermare, come era stato appunto nelle concezioni
giuridiche di Roma antica, il loro diritto pieno e assoluto, la loro
facoltà di usare ed abusare dei propri beni e, in particolare, dei possedimenti
fondiari. Le uniche limitazioni alla proprietà potevano essere dettate
dal desiderio di ovviare a un eccessivo frazionamento dei fondi: così
fin dagli inizi del secolo XIII si incoraggiarono, o si imposero tassativamente,
gli scambi e le vendite di terra che potessero condurre a un arrotondamento
dei possessi, tramite le rettifiche dei confini e l’eliminazione
delle parcelle isolate e di minima entità e il loro assorbimento nei
fondi confinanti di maggiore ampiezza (doc. n. 15)
e si stabili che un proprietario, i cui campi chiudessero l’accesso
a strade, a campi di altre persone o a corsi d’acqua di comune
utilità, dovesse consentire il transito o la derivazione dell’acqua
attraverso la sua proprietà.
Di fatto queste norme e questi principi favorivano la formazione di
aziende agrarie compatte e di medie dimensioni a scapito dei piccoli
coltivatori diretti e di quanto restava delle grandi proprietà aristocratiche
ed ecclesiastiche, ampie ma talora assai frazionate, della prima età
comunale. In questo senso vanno intese anche le cautele, e il generale
sfavore, che si andarono determinando nelle legislazioni comunali nei
confronti dei rapporti di enfiteusi, che rappresentavano la forma normale
di concessione dei beni ecclesiastici. Oltre ad offrire ampie possibilità
di frode fiscale (il fatto che le chiese non fossero soggette alle normali
imposte sul patrimonio induceva più di un proprietario laico a cedere
ad esse i propri beni, che gli venivano poi riconsegnati in forma di
concessione enfiteutica), tali rapporti comportavano una scissione tra
proprietà nominale della terra e possesso effettivo che era fonte di
infinite complicazioni e contrastava con le nuove concezioni sul pieno,
assoluto e indiviso diritto di proprietà. Nelle rubriche degli Statuti
di Perugia del 1342 (cfr. doc. n. 21) sono attestate
sia le cautele della legislazione comunale in materia di enfiteusi che
la tendenza a eliminare, tramite permute o vendite, tali Situazioni
di divisione del dominio.
Nota bibliografica su proprietari e contadini nei secoli XIII e XIV
Sulle questioni che abbiamo delineate in questa Sezione esiste una
grande quantità di studi monografici, per cui le indicazioni che seguono
costituiscono appena un primissimo orientamento. Agli studi di storia
locale e territoriale che abbiamo citato altrove si aggiunga E. Fiumi,
Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze, Olschki, 1961.
Numerose sono le analisi sulla Vita economica di singole chiese e monasteri
nei secoli XIII e XIV: citiamo a titolo di esempio G. CHITTOLINI, I
beni terrieri del Capitolo della Cattedrale di Cremona fra il XIII e
il XIV secolo, in “Nuova rivista storica”, XLIX (1965),
pp. 213-274; sulle decime ecclesiastiche è fondamentale C. E. Boyd,
Tithes and Parishes in Medieval Italy. The Historical Roots of a Modern
Problem, Ithaca, N. Y., Cornell University Press, 1952. Sugli investimenti
di ceti urbani nelle campagne è molto stimolante CH. M. DE LA RONCIÈRE,
Un changeur florentin du Trecento: Lippo di Fede del Sega (1285 env.
– 1363 env.), Paris, 1973, pp. 97-177. Sull’instaurazione
di nuovi rapporti di produzione nelle campagne si può leggere ancora
con profitto M. KOVALEWSKY, L’avènement du régime économique moderne
au sein des campagnes, in “Revue internationale de sociologie”,
IV (1896), pp. 337-364, 418-439; si Veda inoltre P. J. JONES, From Manor
to Mezzadria: A Tuscan Case-Study in the Medieval Origins of Modern
Agrarian Society, in Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance
Florence, ed. by N. RUBINSTEIN, London, Faber and Faber, 1968, pp. 193-241.
Sui contratti agrari si Veda la sintesi bellissima di G. GIORGETTI,
Contadini e proprietari nell’Italia moderna. Rapporti di produzione
e contratti agrari dal secolo XVI a oggi, Torino, Einaudi, 1974, in
particolare il Cap. III, pp. 138-199. Le osservazioni di G. B. PASCUCCI,
Contratti agrari nel diritto statutario bolognese del secolo XIII, Bologna,
Tip. Parma, 1960, hanno Valore anche per altri territori oltre al bolognese;
sulla mezzadria cfr. M. LUZZATTO, Contributo alla storia della mezzadria
nel Medio Evo, in “Nuova rivista storica” , XXXII (1948),
pp. 69-84, e le considerazioni del PLESNER, op. cit., pp. 210-213 (a
p. 211 il brano che abbiamo citato nell’Introduzione). Sulla sòccida:
L. OLLIVERO, La soccida, Milano, Giuffrè, 1938 (la parte più propriamente
storica comprende le pp. 19-77). Sui prestiti su pegno fondiario in
età comunale: A. SAPORI, I mutui dei mercanti fiorentini del Trecento
e l’incremento della proprietà fondiaria, in Studi di storia economica
(secoli XIII-XIV-XV), I, 3ª ed., Firenze, Sansoni, 1955, pp. 191-221
(il saggio risale al 1928). Tra le diverse manifestazioni della “politica
economica” dei Comuni cittadini, quella di cui si è trattato più
frequentemente è stata la politica annonaria: si Veda per tutti H. C.
PEYER, Zur Getreidepolitik oberitalienischer Stadte im 13. Jahrhundert,
Wien, Universum, 1950. Più in generale, sul problema dei rapporti tra
città e contado, si considerino le classiche e schematiche posizioni
di R. CAGGESE, Classi e Comuni rurali nel Medio Evo Italiano. Saggio
di storia economica e giuridica, II, Firenze, Gozzini, 1908, e di G.
SALVEMINI, Un comune rurale cit., le fondamentali puntualizzazioni del
PLESNER, op. cit., la discussione di E. FIUMI, Sui rapporti economici
tra città e contado nell’età comunale, in “Archivio storico
italiano”, CXIV (1956), pp. 18-68; da quest’ultimo saggio
si può partire per un ampliamento bibliografico. Come al solito alcune
indicazioni bibliografiche di carattere particolare Verranno fornite
nelle presentazioni dei singoli documenti. La disposizione statutaria
bolognese del 1376 sulla parziaria, che abbiamo riportata nell’Introduzione,
si legge in G. ARIAS, Il sistema della costituzione economica e sociale
italiana nell’età dei comuni, ristampa anastatica dell’edizione
del 1905, Roma, Multigrafica Editrice, 1970, p. 449. |