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Fonti

Predicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma)

a cura di Roberto Rusconi

© 1981-2006 – Roberto Rusconi


Sezione V - La Controriforma e il concilio di Trento

Introduzione

Nella prospettiva di rinnovamento della pastorale portata avanti nei primi decenni del '500 dai rappresentanti dell'Evangelismo italiano più sensibili alla esigenza di trasformazioni concrete, che discendano da più ampie aspirazioni di riforma religiosa, come nel caso del vescovo di Verona, Gian Matteo Giberti, la predicazione parrocchiale viene perseguita perché è uno degli strumenti essenziali del rinnovamento evangelico della vita cristiana. Ben diversa è, proprio negli stessi anni '30, la posizione di personaggi come il cardinal Gian Pietro Carafa (divenuto poi papa Paolo IV). Per lui già nel 1532 la repressione dell'«heresia lutherana» è la premessa della riforma ecclesiastica: meglio, la riforma ecclesiastica deve essere attuata nelle forme di un netto irrigidimento sul piano dottrinale e disciplinare, per difendersi dall'espansione del luteranesimo e per sconfiggerlo definitivamente. Di qui le proposte di un rigido controllo di predicatori e di confessori, e di una esemplare punizione di quanti vengono trovati in difetto (doc. 2). I provvedimenti disciplinari, già adottati dal concilio del Laterano del 1516 in materia di predicazione e di stampa, vengono richiamati contro i nuovi fermenti, ma si rivelano del tutto insufficienti (doc. 1). Vengono presi di mira soprattutto i religiosi, in primo luogo i frati degli ordini mendicanti, perché la loro predicazione dai pulpiti è maggiormente sottoposta a controllo: si infittiscono le denunce dei predicatori, dal pulpito (doc. 3), da parte dei nunzi papali, specie in città dove più facile è l'accesso ai filo-protestanti, come Venezia (doc. 4), e da parte delle autorità politiche spagnole, le quali anzi sollecitano una maggiore energia nella repressione (doc. 5).

La svolta decisiva si ha nel 1542, quando, anche in seguito al fallimento dei colloqui di Ratisbona — ultimo tentativo di riportare all'unione cattolici e protestanti —, viene istituito il Sant'Uffizio. Il controllo sui predicatori diviene ferreo, anche perché si pone fine alla relativa libertà dei decenni precedenti e si considerano ormai sospetti atteggiamenti già tipici dell'Evangelismo italiano (doc. 7): e predicatori come Bernardino Ochino e molti altri non trovano altra scelta che la via dell'esilio oltralpe. Questo controllo diventa estremamente capillare, coinvolgendo anche i superiori dei diversi ordini religiosi da cui escono i frati i quali si dedicano alla predicazione (doc. 6).

Il definitivo irrigidimento controriformistico della suprema gerarchia cattolica in materia di predicazione non deve però far ritenere che anche all'interno del ceto dirigente ecclesiastico tutti i problemi fossero già arrivati ad una soluzione univoca. Quando si raduna nel 1545 il concilio di Trento, allo scopo di ridare compattezza al corpo ecclesiastico, squassato dalla ribellione luterana, proprio in materia di predicazione vengono alla luce atteggiamenti ed ipotesi di soluzione molto diversi, e certo non del tutto riconducibili alla sola prospettiva controriformistica. Comune, tra i partecipanti al concilio, è la presa di coscienza della inadeguata formazione dottrinale e morale del clero in cura d'anime. E fin dall'inizio delle discussioni si impone il problema della formazione del clero e della predicazione. In questa prima fase le correnti dell'Evangelismo conservano ancora buona parte dell'influenza esercitata nei decenni precedenti: riuscendo ad ottenere che, nella sua ampia maggioranza, il concilio accetti l'idea che occorre procedere di pari passo all'esame di tutte le questioni relative alla Scrittura e alla predicazione. Infatti, nel decreto tridentino Super lectione et praedicatione, approvato nel 1546 (doc. 8), insegnamento e lettura della Scrittura e predicazione al popolo cristiano vengono messi sullo stesso piano.

In questo decreto tridentino, peraltro, sono evidenti i segni di un articolato compromesso tra due correnti di orientamento radicalmente differente (doc. 10). I rappresentanti della linea «episcopalista» — coloro cioè che, a partire dai primi decenni del '500, mirano a ricondurre l'istituto della predicazione sotto il controllo dei vescovi delle singole diocesi e ad arginare di conseguenza il monopolio, o quasi, dei frati mendicanti in materia — cercano di spostare la discussione sulla predicazione nell'ambito del dibattito sulla cura d'anime. È questo l'orientamento della cosiddetta «riforma cattolica», cui in un certo senso appartengono anche i maggiori rappresentanti della «riforma tridentina», come i cardinali Paleotti e Borromeo. Per essi, se vescovi e parroci, interrompendo il corso di una prassi secolare, fossero stati tenuti a risiedere nelle località in cui dovevano esercitare il loro ministero pastorale, sarebbe spettato loro predicare ai fedeli.

Come ogni proposta che toccava un problema spinoso, anche questa si arenò di fronte agli ostacoli frapposti dalla curia romana. I rappresentanti della linea episcopalista furono di conseguenza costretti a rettificare il tiro delle loro richieste, puntando su un obiettivo minore, il cui conseguimento avrebbe però consentito loro di giungere con il tempo allo scopo che si erano prefissi sin dall'inizio: ottenere almeno che i religiosi degli ordini mendicanti, addetti alla predicazione e alla confessione, fossero sottoposti al controllo dottrinale e disciplinare dei vescovi.

I ministri generali degli ordini mendicanti e i numerosi vescovi che da questi ordini provenivano — forti del loro peso all'interno delle istituzioni ecclesiastiche — premevano invece perché la predicazione venisse affrontata come un capitolo della riforma degli ordini religiosi, allo scopo di eliminare le deviazioni, che si manifestavano nella pratica, con una più accurata e severa formazione dei religiosi. L'esito delle loro pressioni, fortemente spalleggiate dalla curia, perché rinforzavano la restaurazione del potere papale (doc. 9), fu un decreto che, nella sostanza, non scalfiva per nulla il tradizionale ruolo dei frati mendicanti nella predicazione al popolo.
Nell'arco di tempo compreso tra l'apertura (1545) e la chiusura (1563) del concilio di Trento molte cose cambiano. Si intensificano e si precisano le direttive controriformistiche anche nel campo della predicazione: nelle singole diocesi si esaminano i predicatori prima dell'inizio della Quaresima (doc. 11), ed anzi si fornisce loro un preciso e vincolante elenco degli argomenti da trattare dal pulpito nella predicazione, non accontentandosi più che essi non tengano una posizione ambigua in materia di dottrina cattolica, ma esigendo anzi da essi una esplicita professione di fede anti-luterana (doc. 12).

La storia religiosa italiana nel corso del '500 non si esaurisce però solo nella Controriforma. Ad iniziativa dei nuovi ordini, come gesuiti e cappuccini, ad esempio, si intensifica una predicazione con la quale vengono proposte nuove forme di devozione e di pietà, più sentite dalla popolazione: anche se, esse pure, scelte per il loro orientamento anti-protestante (docc. 13 e 14). Soprattutto ad opera dei gesuiti viene messo in opera un nuovo strumento di acquisizione del consenso religioso di massa, le «missioni popolari», che iniziano verso la metà del secolo in funzione anti-protestante e poi si evolvono in strumento di conquista religiosa delle aree marginali, a cominciare dalle campagne del meridione (doc. 16).

Nel corso dell'ultima sessione del concilio di Trento, nel 1563, si torna a prendere in esame la questione della predicazione, in un contesto radicalmente mutato. A prescindere dai mutati rapporti tra cattolici e protestanti, sono cambiati i protagonisti del dibattito, con la scomparsa fisica dei rappresentanti dell'Evangelismo italiano e dell'Umanesimo cristiano: sostituiti da un'altra generazione di prelati che, se pure ad essi si richiamano nei principi e nelle scelte operative (come Carlo Borromeo si rifà a Gian Matteo Giberti) per portare avanti la riforma della chiesa, a questa stessa espressione danno un contenuto molto diverso. Rivelatrice di queste mutate concezioni è la collocazione stessa delle norme relative alla predicazione, poste nel quadro dei provvedimenti riguardanti la cura d'anime, e in particolare tra il canone sulle visite pastorali dei vescovi e quello intorno alla giurisdizione penale nei confronti dei vescovi. Per importanti che possano essere le norme del Decretum de reformatione, che fissano una periodicità ed una intensità regolari per la predicazione (doc. 15), non sfugge che in questo canone non si fa più parola di una predicazione fondata sulla «dichiarazione» della Scrittura e in particolare del Vangelo: la predicazione è divenuta importante solo in quanto preciso obbligo del clero in cura d'anime.

Rileggendo i due decreti del concilio di Trento in materia di predicazione, si nota che ciò che li accomuna è il sostanziale silenzio sulla questione del privilegio canonico dell'esenzione dei predicatori degli ordini religiosi dall'autorità dei vescovi. Con il tempo, anche i più fervidi sostenitori della linea episcopalista valutano il rischio di far venire meno il monopolio nella predicazione degli ordini religiosi: specie in un momento in cui, nella dichiarata opzione di rinsaldare l'organismo delle istituzioni ecclesiastiche cattoliche, non si può ancora far leva su quella figura ideale di parroco che la riforma tridentina aveva delineato e che nella realtà non poteva nemmeno esistere, per il lento avvio dello strumento fondamentale che per la sua formazione a Trento era stato escogitato, il seminario diocesano. Per questo motivo strutturale — ma anche per la capacità di rinnovamento che i religiosi avevano saputo mostrare — la predicazione al popolo nel '500 resta prevalentemente, se non esclusivamente, una attività dei religiosi dei diversi ordini.

Anche i vescovi della riforma tridentina, dunque, debbono elaborare istruzioni per i predicatori che operano nella loro diocesi (doc. 17). In taluni di essi, però, come nel caso di Carlo Borromeo, non viene mai meno l'aspirazione ad una forma di predicazione semplice, aderente al testo della Scrittura, affidata giorno per giorno ai parroci, con la quale sostituire la predicazione itinerante dei religiosi, brillante, ma più rispondente a criteri di forbitezza letteraria e ad ottenere effetti emozionali, che non a provocare trasformazioni religiose durature. Borromeo lo ribadisce in una lettera al cardinal Paleotti del 1578 (doc. 20), alla fine di un lungo scambio epistolare sull'argomento (doc. 19). Ma la preparazione religiosa dei parroci resta sempre elementare, anche nelle disposizioni dello stesso Borromeo del 1565 (doc. 18).

I chierici delle parrocchie sono in realtà tagliati fuori dalla predicazione, e non solo perché il confronto con i protestanti induce a servirsi delle forze già esistenti, senza doverne preparare di nuove. Accade anche, infatti, che nella ondata di repressione inquisitoriale scatenata sotto papa Paolo IV contro tutta la letteratura religiosa in volgare, vengano tolte dalla circolazione numerose opere che erano state stampate proprio per consentire una sorta di autodidattismo pastorale del clero curato: scritti certamente di carattere del tutto eterogeneo, in parte derivati dalla letteratura medievale delle artes praedicandi e dei sussidi per i predicatori, in parte frutto dei nuovi fermenti religiosi, in particolare della riscoperta del ruolo della Scrittura nella vita religiosa di chierici e laici.

Un nuovo ruolo emerge però anche per il clero parrocchiale. Nel progressivo consolidarsi di una linea di indottrinamento sistematico delle verità fondamentali della fede cristiana, fissate nella atemporalità del dogma dai decreti tridentini, prende forma un nuovo strumento pastorale: il Catechismo romano. Per assicurare un insegnamento religioso elementare, che discende dal clero, regolare e secolare, ai fedeli, e che evita di immischiarsi in temi controversi, e per esporre positivamente la dottrina cattolica, due strumenti ormai si richiamano a vicenda: la predicazione e l'insegnamento della dottrina cristiana. Appare particolarmente significativo che, nel 1590, venga stampata a Venezia una edizione del Catechismo romano arricchita da accurati indici analitici, in modo da consentirne l'uso per la predicazione domenicale da parte dei parroci (doc. 22).

Nella seconda metà del '500 la predicazione della Controriforma marca un periodo di grande floridezza: si ripetono i successi di massa dei predicatori più famosi, come ad esempio Francesco Panigarola (doc. 21); compare una nuova ondata di manuali ad uso dei predicatori, che soppianta la letteratura tardomedievale, inadeguata a rispondere alle esigenze di una normativa universale, ma soprattutto rigidamente uniformatrice, come quella formulata nei canoni tridentini sulla predicazione: i quali hanno introdotto una uniformità «dall'alto» in un ambito in cui, con il tempo, la prassi aveva creato una sostanziale piattaforma comune di metodi, argomenti, modi di predicare.

Tra la metà del '500 e gli inizi del '600 si assiste anche al sorgere di un fenomeno del tutto nuovo: la predicazione sacra in Italia assurge ad un ruolo ufficialmente riconosciuto nel campo della letteratura. Nel lungo processo di uniformazione della lingua italiana, sotto la spinta di grammatici come Trissino e Dolce, alla pluralità di volgari regionali il ceto degli intellettuali italiani sostituisce un nuovo italiano sovraregionale, elemento di unificazione e di identificazione della classe dirigente.

Per questa ragione i maggiori teorici della predicazione dopo il concilio di Trento, nel momento in cui si pongono le basi per riaffermare l'egemonia ideologica delle istituzioni ecclesiastiche nella cultura e nella vita italiana, postulano la necessità dell'uso della «nuova» lingua italiana nella predicazione (doc. 23). I più famosi predicatori post-tridentini, come Cornelio Musso e Francesco Panigarola, conseguono un successo anche letterario di vaste proporzioni. Anzi, le loro prediche sono divenute a tal punto «esemplari di stile» che il maggior poeta italiano degli inizi del '600, Giovanbattista Marino, pubblica nel 1614 delle prediche fittizie, le sue Dicerie sacre: un abile gestore dei propri interessi, come Marino, aveva evidentemente scelto questo genere letterario tenendo conto della sua grande risonanza. A loro volta, poi, le Dicerie sacre, con il loro impianto letterario, offrono un modello ideale per i predicatori del '600.

Contro questa predicazione «a concetti», che caratterizza la grande oratoria sacra del '600 — ma ha le sue radici ben entro il secolo precedente — e che è lo sbocco di un processo, nel corso del quale è cresciuta a dismisura la dimensione dottrinale nella predicazione della fede cristiana, prendono poslzione i più fini letterati del tempo, come il gesuita Daniello Bartoli (doc. 24). Ma ormai la predicazione della Controriforma non può fare a meno del Barocco.

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UpUltimo aggiornamento: 01/03/2006