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Didattica > Fonti > Stato e società nell'ancien régime > IV, Introduzione

Fonti

Stato e società nell'ancien régime

a cura di Angelo Torre

© 1983-2006 – Angelo Torre


Sezione IV - La ristrutturazione dello stato e i suoi meccanismi sociali nel secondo Seicento

Introduzione

1. I movimenti di rivolta dei decenni centrali del Seicento chiudono in modo definitivo la tormentata crisi delle organizzazioni statali che caratterizza il secolo di ferro. La seconda metà del Seicento è infatti contrassegnata da una generale intensificazione del controllo del potere centrale — nelle diverse forme da esso assunte — su settori sempre più vasti della società, sia nel senso che l'apparato militare e burocratico dello stato conosce una nuova fase di espansione quantitativa, sia nel senso che aumenta l'efficacia degli specifici modi di integrazione delle élites locali nella macchina statale. Si assiste, in altre parole, a un processo di ristrutturazione dell'apparato statale di potere che pone in termini nuovi il rapporto tra autorità centrali e detentori locali della preminenza.
Da questo punto di vista il primo modello di organizzazione statale sul quale è utile concentrare l'attenzione è senza dubbio la Francia di Luigi XIV: qui infatti le relazioni tra potere centrale e periferia conoscono una brusca rottura rispetto al periodo precedente, giacché con la repressione della Fronda l'autorità politica formale si concentra totalmente nelle mani del sovrano. Da un lato questi sopprime i canali istituzionali di comunicazione (e di conflitto) tra sé e i sudditi: ne è un esempio la soppressione del diritto di rimostranza esercitato dalle corti sovrane, prima fra tutte il Parlamento di Parigi, all'atto della registrazione degli editti e delle ordinanze. Di più, esse perdono lo stesso carattere sovrano per trasformarsi in più modeste corti «superiori». Al tempo stesso il sovrano tronca qualsiasi esperienza consultiva, dagli Stati generali alle assemblee di notabili, reprime le manifestazioni più scandalose della gestione finanziaria con una Chambre de Justice (1661): tende insomma a costituirsi anche in senso fisico quale unico depositario del potere. Tutte queste soluzioni non devono in ogni caso essere intese quali espressioni di un governo «tirannico»: al contrario, il sovrano si pone quale arbitro tra i diversi settori dell'élite, e anzi ne utilizza le divisioni interne per rafforzare, dislocandolo nelle proprie mani, il potere. Tale strategia appare evidente se si esaminano gli ambiti sociali a più diretto contatto con il sovrano: la corte e il governo.

Le innovazioni imposte al sistema di corte da Luigi XIV precisano il ruolo ambivalente della nobiltà nella monarchia assoluta, nel senso che ne accentuano l'interdipendenza con il sovrano: durante il suo regno cessa la venalità delle cariche di corte, questa viene isolata anche fisicamente dal resto della società con la costruzione della reggia di Versailles (1682) e, soprattutto, si regolamentano con una rigida etichetta i rapporti sociali al suo interno. In tal modo essa viene a costituire non solo uno strumento di affermazione del prestigio sociale per un'aristocrazia politicamente dipendente dal re, ma, sancendone la distanza dal resto della società, consente alla nobiltà di preservare il proprio isolamento sociale. Questo stesso isolamento fa tuttavia della corte un ambito su cui il dominio del sovrano si esercita in modi caratteristici: essa è in realtà una struttura policefala, un ambito di continue e mobilissime alleanze tra i diversi suoi componenti, con le quali ciascuno tenta di aumentare il proprio prestigio individuale. Il sovrano non fa altro che sorvegliare i conflitti e le rivalità che oppongono i diversi schieramenti aristocratici, ed equilibra le tensioni distribuendo con sagacia favori e prebende. Tuttavia anche il sovrano dipende dalla corte e dalle regole che la reggono: da un lato non può eliminare la nobiltà se non al prezzo di estinguere la propria nobiltà, dall'altro solo mantenendo le tensioni all'interno di tale gruppo sociale egli può sperare di esercitarvi il proprio dominio. Intesa in questi termini la corte assume evidenti funzioni di controllo sociale, poiché è una struttura volta al mantenimento delle tensioni e al loro incanalamento in direzione di un centro fisico del potere, il sovrano (doc. 5/b).

Sostanzialmente non dissimili dai processi che reggono la corte appaiono i modi con cui il re esercita il potere in ambiti a questa vicini, ma distinti per competenze e funzioni, quali il governo centrale. Qui la sua strategia appare analogamente informata al desiderio di regolamentare i comportamenti, e si traduce nella rigida definizione delle funzioni burocratiche, che il sovrano stesso controlla dedicando totalmente la propria esistenza all'attività di governo — sia presiedendo i consigli che assumendo direttamente ogni responsabilità decisionale. Inoltre egli cristallizza il personale di governo: da un lato usa un numero limitato e fisso di persone, con rarissimi avvicendamenti e una chiara predilezione per i discendenti di lignaggi di nobiltà togata (doc. 5/a). Dall'altro ripartisce la propria fiducia tra due o tre dinastie ministeriali, famiglie provate di buoni servitori più che di uomini di stato (i Colbert, i Le Tellier, i Phélipeaux), di cui anzi sfrutta le rivalità per affermare il proprio potere su di essi e sulla macchina del governo. Tale strategia conduce alla formazione di una casta ministeriale di origine togata e a una spersonalizzazione delle funzioni burocratiche: gli stessi ministri e segretari, pur fungendo da interlocutori privilegiati del sovrano, sempre più spesso si affidano a loro volta a un premier commis. In altri termini il governo personale favorisce l'emergere di funzionari subalterni anonimi, che verso la fine del regno renderanno addirittura superflue le convocazioni dei consigli regi.

Ma dove la strategia della conservazione delle tensioni si manifesta più chiaramente è nei rapporti tra nobiltà di corte e nobiltà burocratica. Il fatto di occupare una posizione centrale rispetto agli schieramenti dell'élite consente al sovrano di sfruttare le tensioni reciproche: queste tuttavia verranno alla luce con prepotenza durante la reggenza di Filippo d'Orléans alla morte di Luigi XIV (1714-23), come conseguenza delle frustrazioni suscitate dal sistema di governo personale del Re Sole: allora affiorerà un programma politico aristocratico fondato sulla ripresa delle funzioni consultive delle élites politiche e sociali (doc. 17).

In ogni caso la formula strategica del mantenimento delle tensioni tra i vari gruppi, e quindi della conservazione delle distanze sociali, produce un modello di organizzazione economica e politica della massima rílevanza sul piano dell'amministrazione periferica: qui infatti il regno di Luigi XIV vede il diffondersi e il radicarsi di un elemento innovativo — la figura dell'intendente, commissario appartenente alla nobiltà togata — che si trasforma in amministratore stabile anche se revocabile a piacere dal potere centrale (doc. 8/a). Che questi agisca da veicolo di una tale strategia sovrana è illustrato in primo luogo dai suoi rapporti con le strutture preesistenti di ufficiali e detentori locali del potere. Solo in alcuni casi, infatti, l'introduzione dell'intendente assume un significato di repressione violenta delle gerarchie locali del potere (doc. 2); più spesso, di fronte al commissario sussistono gli ambiti divisi e lacerati degli ufficiali periferici. Particolarmente nelle regioni di frontiera e nelle province più lontane dal centro, la ragione di tale convivenza va colta nella capacità dell'intendente di fungere da mediatore tra realtà non comunicanti: resta infatti inalterato il divario tra le strategie del potere centrale e le logiche di competizione e di prestigio che presiedono ai comportamenti dei poteri locali e regionali, e il nuovo funzionario regio si riduce spesso a svolgere la funzione di informare il centro delle dinamiche presenti nelle situazioni periferiche. Così, nonostante le prerogative formali di cui è investito — dalla giustizia alla polizia, dalla ripartizione del carico fiscale alla sovrintendenza sulla situazione finanziaria delle comunità, rurali e urbane (doc. 8/b) — il commissario poco si presta a fungere da effettivo veicolo di uniformazione politica: più che uno strumento di centralizzazione, è più corretto intenderlo quale sintomo di una dislocazione centrale del potere. Ciò appare con evidenza se si esaminano i suoi rapporti con gli ufficiali locali, ai quali egli si presenta come un pericoloso concorrente e un potenziale sottrattore di risorse politiche: ad esempio, il cumulo di incarichi lo costringe a cooptare dei subordinati, i subdélégués, responsabili solo nei suoi confronti, i quali lentamente si trasformano in ufficiali venali. Egli non si sottrae così a una parabola tipica dell'espansione periferica del potere centrale, la costituzione di piramidi locali di clienti e fedeli del re di fronte a strutture di potere che si mantengono inalterate, e con le quali è necessario entrare in competizione (doc. 16/f).

Ma è soprattutto il piano della politica fiscale a far emergere la funzione mediatrice degli intendenti, e sia pure attraverso due atteggiamenti in apparenza contraddittori. Da un lato, infatti, l'intendente esercita pieni poteri di controllo sulla vita amministrativa delle comunità rurali, affidatogli con l'ordinanza del 1667 (doc. 8/b), che gli attribuisce compiti di verifica dei debiti di ciascuna di esse; in questo contesto egli interviene spesso in difesa delle popolazioni rurali, tanto dalle imposizioni feudali quanto dalle sperequazioni del sistema fiscale controllato dagli ufficiali tradizionali, gli eletti o i deputati degli Stati provinciali. D'altro canto egli, quale capo delle forze locali di polizia e autorità capace di chiedere l'intervento dell'esercito, è il naturale repressore delle rivolte contadine (doc. 16/f). In realtà l'intendente, in quanto rappresentante del potere politico nel suo insieme e superiore quindi a tutti i servizi «tecnici» di cui si compone l'amministrazione, ha il compito prioritario di garantire l'estrazione del prelievo fiscale nelle campagne: in una struttura politica quale la monarchia francese — fondata e sviluppatasi a partire dalla posizione concorrenziale del potere centrale e delle autorità signorili periferiche rispetto all'estrazione del surplus dalla popolazione rurale, ciò implica due strategie distinte. Da un lato facilitare il pagamento dell'imposta — e quindi difendere i contadini dalle strategie di accorpamento terriero e di recinzione sia delle autorità signorili, sia dei discendenti delle élites mercantili approdate alla magistratura e alla nobiltà; dall'altro ciò conduce a usare il potere coercitivo dello stato contro ogni fattore di interruzione del prelievo — e quindi i fenomeni di rivolta antifiscale. L'intendente è dunque l'agente della mediazione politica con lo stato, e in quanto tale pratica un calcolo teso prioritariamente a valutare le possibilità di rivolta di contribuenti lontani dall'economia monetaria. Egli deve perciò poter contare su una serie di gruppi di privilegiati che ne coadiuvino l'opera di repressione delle rivolte, di volta in volta i nobili, il clero, i magistrati e gli ufficiali locali. Da questo punto di vista la sua azione, e con essa l'azione dello stato, si riduce a un calcolo di aritmetica politica, alla ricerca dell'optimum di privilegiati: all'individuazione, cioè, di un gruppo di esenti che non risulti tanto ampio da pregiudicare l'entità del prelievo, ma neppure tanto esiguo da indebolire il possibile sostegno al sovrano durante le rivolte. In una parola, anche per l'intendente il mantenimento delle distanze sociali rappresenta una necessità vitale.

In ogni caso la formula del mantenimento dei privilegi non costituisce che un correttivo dei processi legati all'estensione dell'apparato statale. Infatti il meccanismo della fiscalità costituisce un fattore di crescenti squilibri sociali. In primo luogo, essa accentua la stratificazione della società francese, giacché la stessa struttura dell'apparato fiscale comporta la formazione e l'ascesa di nuovi settori di élites: il prelievo è infatti organizzato attraverso una serie di fermes, o appalti, con le quali finanzieri e banchieri, e più in basso imprenditori rurali, si fanno garanti della riscossione fisica delle imposte anticipandone allo stato il gettito previsto e trattenendone quote variabili ma cospicue a titolo di interesse e di risarcimento delle spese. L'entità dei profitti consentiti da una simile organizzazione la si può cogliere dalla rapida e imponente ascesa sociale della nuova élite dei fermiers: ben presto questi giungono a costituire uno specifico gruppo di pressione, legato ai suoi vertici agli ambienti della corte o del governo, mentre alla base costituisce ormai parte integrante delle élites provinciali urbane, del tutto inserito quindi nella logica della conflittualità per la preminenza locale che abbiamo illustrato nelle sezioni precedenti.

In secondo luogo l'estensione della fiscalità assolutista e dell'apparato burocratico necessario al prelievo dell'imposta ha svolto un ruolo centrale nel determinare un vistoso processo di decadenza dell'agricoltura francese. In generale, il regime di concorrenzialità tra il prelievo fiscale del sovrano e quello signorile appare responsabile dell'«arretratezza» delle campagne francesi: lo stesso sistema di rapporti che difende i contadini dalle strategie di rafforzamento signorile conduce sul lungo periodo a una eccessiva frammentazione della proprietà fondiaria e a condizioni generali di bassa, quando non declinante, produttività agraria. La politica di potenza di Luigi XIV è destinata ad aggravare questa situazione. Per i contadini comporta un aumento dell'aggravio relativo dell'imposta, che accentua la tendenza alla «chiusura» e alla rarefazione delle transazioni e quindi della disponibilità di moneta, e determina una condizione di insopportabilità dell'imposta: sia di quella diretta, la taglia, poiché l'insufficienza del volume degli scambi e quindi la rarità della moneta ne rendono acuto il carattere arbitrario (doc. 12/a); sia di quelle indirette, la gabella e gli aiuti, poiché queste tendono a trasformarsi in una sorta di «obbligo di commercializzazione» giacché ne vengono fissate in anticipo le quote spettanti a ciascuna famiglia. I contadini si trovano così nella costante impossibilità di pagare l'imposta perché non vendono — o non riescono a vendere — i loro prodotti, e non possono reagire a queste condizioni che restringendo i propri consumi alimentari (premessa delle epidemie che sconvolgono gli ultimi anni del regno), oppure indebitandosi (nella maggior parte dei casi), o ancora cercando occupazioni alternative, quali l'industria rurale, per reperire la moneta necessaria a pagare l'imposta (doc. 12/b). Tutte soluzioni, queste, che concorrono in vari modi ad abbassare ulteriormente la produttività agraria e accrescono la stratificazione interna alle campagne francesi, mentre d'altro canto producono un deciso intensificarsi dei fenomeni di resistenza e rivolta antifiscale.

Né valgono le misure correttive adottate dal sovrano e dai suoi ministri, orientate a un rinnovamento e a un'articolazione della politica mercantilista. Infatti, mentre nella prima parte del secolo, e soprattutto dietro l'impulso di Richelieu, è già visibile lo sforzo dell'autorità centrale di incrementare gli scambi con l'esterno al fine di procurarsi moneta forte con cui accrescere il potere del sovrano, la politica mercantilista di Colbert riflette e favorisce la ristrutturazione dell'apparato statale sin qui delineata. Accanto alle forme tradizionali di protezione del commercio, e in particolare dell'esportazione di prodotti finiti e di merci di lusso (doc. 15/a), privilegia in base a considerazioni di natura fiscale lo sviluppo degli scambi all'interno del paese: ciò è evidente, ad esempio, nello sforzo degli intendenti di sviluppare gli scambi all'interno della circoscrizione di propria competenza (doc. 16/c). Lo stesso commercio con l'estero, e specialmente l'acquisto di derrate alimentari e la creazione di manifatture direttamente controllate dal re, vengono intesi come fattori correttivi dell'insopportabilità del prelievo fiscale (doc. 10/b). Considerata nel suo complesso, la politica mercantilista si rivela in realtà come un insieme ambivalente di norme tese a garantire il prelievo fiscale: accanto ai tentativi di promuovere gli scambi, essa dà vita a una rigida regolamentazione delle attività economiche, dalla qualità dei prodotti alla qualità delle risorse umane impiegate, mentre d'altro canto ribadisce il consueto sistema di pedaggi e barriere che ostacolano la libera circolazione delle merci ma garantiscono introiti allo stato (doc. 10/b).

Non può perciò sorprendere come la fine del regno di Luigi XIV veda emergere significativi fermenti di opposizione alla politica fiscale e alla sua ispirazione mercantilista: essi si traducono nel tentativo governativo di imporre una «capitazione» sulla base del reddito pro-capite, nella proposta — peraltro scoraggiata — di una decima regia in natura, e nell'introduzione durante la reggenza di una taglia proporzionale al reddito globale del singolo contribuente. La rilevanza di simili esperimenti non sta tanto nei loro singoli contenuti, quanto nell'orientamento generale a cui risultano improntati: il riconoscimento cioè di come sia lo stesso apparato impositivo dello stato, con la sua estensione e arbitrarietà, a deprimere la capacità di consumo dei contribuenti, a impoverire progressivamente il paese e, in ultima analisi, il sovrano. In questo contesto prende piede una diffusa coscienza «popolazionista», preoccupata cioè che il peso dello stato non soffochi la possibilità di sopravvivenza fisica delle masse contadine e del menu peuple urbano: le condizioni della popolazione divengono così un parametro per valutare la politica del governo (doc. 14/a).

Accanto all'opposizione alla politica fiscale si notano tendenze contrarie alla politica del sovrano in quegli stessi ambienti mercantili che questi intende proteggere e controllare. Soprattutto i settori legati al commercio internazionale manifestano verso la fine del Seicento orientamenti critici nei confronti del sistema tariffario e doganale. Queste voci, in cui confluiscono fermenti dell'opposizione aristocratica all'assolutismo, costituiscono la spia di un vistoso mutamento sociale dell'élite: l'affievolirsi della norma secondo la quale la pratica del commercio su larga scala rappresenta una deroga allo status nobiliare. E ciò non deve stupire in una società in cui la pratica del commercio all'ingrosso è diffusa ormai anche nelle file della nobiltà, che in alcune regioni, come quelle viticole, trae anzi dall'attività mercantile una notevole fonte di entrata (doc. 16/d).

Ma accanto agli orientamenti delle élites prendono a mutare le forme stesse dell'azione politica delle masse contadine. Su di esse pesano infatti le conseguenze dell'estensione dell'apparato statale: la nascita di grandi poli di consumo — soprattutto alimentare —, quali la capitale del regno, le città provinciali e l'esercito, che danno origine a una pur embrionale circolazione su scala nazionale delle merci, e in particolare dei grani. Essa si sovrappone ai tradizionali flussi di scambio — da quelli locali a quelli internazionali — e vi si intreccia in modo contraddittorio. Accanto alle aree di mercato regionali, relativamente indipendenti le une dalle altre, e strettamente controllabili dal punto di vista fiscale, palesano un peso crescente forme più fluide di scambio legate al vettovagliamento di Parigi e dell'esercito, e fondate sull'attività di accaparratori ed «esportatori» provinciali di derrate (doc. 16/e). La loro presenza ha un significato di rottura delle forme di mercato tradizionali, tanto che l'autorità centrale si preoccupa di controllarne l'operato con un'istituzione specifica, la polizia, tra le principali attribuzioni della quale figura appunto la sorveglianza di simili forme illegali di transazione commerciale. Non meno rilevanti sono le conseguenze delle nuove forme di mercato sui comportamenti politici collettivi. Accanto alle tradizionali rivolte antifiscali, in questo periodo si sviluppano forme di rivolta frumentaria tese al blocco delle partite di grano destinate a uscire da un villaggio, da un borgo o da un'intera provincia; esse sono contraddistinte da azioni di redistribuzione popolare dei grani presenti in loco a un prezzo ritenuto «equo» (doc. 16/f-a). Come vedremo più avanti, esse possono essere intese come espressioni tangibili di un'«economia morale», come un tentativo, cioè, di difesa delle masse popolari dall'integrazione nel sistema nazionale del mercato dei grani. Nella situazione francese queste forme di rivolta costituiscono in realtà il prolungamento delle lotte anticentralizzatrici e antiburocratiche distintive del comportamento delle élites locali nei due secoli di formazione dell'apparato. Pur in questa continuità con le precedenti forme di resistenza alla centralizzazione, è tuttavia possibile distinguere una novità rilevante: con la rivolta frumentaria sono le masse popolari a intervenire in difesa degli «equilibri» locali, in difesa cioè delle forme di scambio (e di relazione) sancite da un assetto consuetudinario del potere e dell'autorità sociale. In questo senso lo stato di Luigi XIV, se appare aver risolto almeno momentaneamente il problema del controllo delle élites locali attraverso il sistema della conservazione delle tensioni tra settori distinti delle élites, conduce, seppur involontariamente, a una riformulazione del controllo sociale, che si dirige verso masse popolari, rurali e urbane, sottoposte a processi di crescente immiserimento.


2. La direzione verso la quale si esercita il controllo sociale costituisce il parametro di un possibile confronto tra le organizzazioni statali emergenti nella seconda metà del Seicento. All'estremo opposto della situazione francese si pone l'esperienza prussiana, in rapida evoluzione dopo che la pace di Westfalia ha legittimato la «superiorità territoriale» di Federico Guglielmo di Hohenzollern (1640-88, dal 1675 grande elettore dell'Impero) su un insieme di regioni relativamente disperse, poco popolate e scarsamente dotate di risorse naturali. Qui la costruzione dello stato moderno, se conosce la forma del governo assoluto, si fonda su una struttura sociale che consentirà, al termine del periodo qui preso in esame, una coesistenza e una saldatura degli apparati militari burocratici con le forme periferiche di potere signorile.

Queste ultime si presentano, come già abbiamo visto nella prima sezione, quale elemento distintivo della società prussiana rispetto a quelle occidentali, poiché i territori su cui si estende la giurisdizione degli Hohenzollern hanno visto risolversi i conflitti tra signori e contadini, al termine della crisi del sistema feudale, a totale vantaggio dei primi, con la sottomissione dei contadini in stato servile. Questa condizione consente ai signori (Junkers) di disporre a proprio piacimento del lavoro contadino nel quadro di una riorganizzazione delle tenute in direzione della monocoltura cerealicola destinata al commercio internazionale con l'Ovest. D'altro canto offre loro l'opportunità di presentarsi in posizione di forza nei confronti delle città delle regioni a est dell'Elba, alle quali strappano nel corso del secolo XV il diritto di esportare il grano verso i grandi centri di raccolta fiamminghi: lungi dal costituire una casta militare, i signori prussiani e brandenburghesi vanno piuttosto assimilati in questo periodo a un'aristocrazia mercantile (doc. 16/a). Questo assetto della società trova un'espressione istituzionale nella forza delle Diete locali presenti in ognuno dei territori posseduti dagli Hohenzollern nel secondo Seicento.

Non stupisce perciò che la comparsa di un principe energico quale l'elettore Federico Guglielmo, attivo importatore di modelli occidentali di governo, e soprattutto fautore di una politica estera autonoma dai ceti, inneschi un processo di organizzazione statuale in aperto contrasto con l'organizzazione signorile del potere politico. Le tappe di tali conflitti si sviluppano intorno a temi già noti, quali l'indebolimento e la distruzione dell'organizzazione delle Diete, l'introduzione di forme di tassazione permanente e la costituzione di un esercito stabile.

Il conflitto con le Diete si risolve con il ben noto compromesso del 1653 (doc. 3), con il quale l'elettore ottiene un cospicuo donativo temporaneo per il mantenimento dell'esercito, compensato tuttavia dalla concessione di immensi privilegi alla nobiltà. Questa vede enormemente ampliata la sfera di diretto dominio sui contadini, con l'esplicito aggravamento dello status giuridico servile della popolazione rurale. Su questo assetto sociale si fonderanno i successivi processi di riorganizzazione del dominio signorile: estensione delle corvées nella riserva del signore, obbligo di matrimonio dopo il ventesimo anno di età e di residenza su una tenure colonica. Inoltre, al potere signorile viene concessa la giurisdizione civile e criminale sui contadini, nonché il diritto di rientrare in possesso delle tenures in caso di estinzione della famiglia dei concessionari.

Diverso è l'esito del conflitto tra Dieta e principe se si considera la tassazione: il ribadimento dell'esenzione fiscale dell'aristocrazia in cambio della concessione del donativo del 1653 (il quale viene peraltro pagato dalle città e dai contadini) avrà gravi conseguenze per il principe a partire dal 1667, quando questi tenterà di introdurre un'imposizione indiretta non solo sui consumi, ma sulla produzione e sui dazi, l'Akzise, che scatenerà l'aperta ribellione delle popolazioni cittadine e l'ostilità degli Junkers (doc. 13/a). Il conflitto si chiude nel 1680 con la formale vittoria nobiliare, giacché soltanto le città verranno colpite dall'imposta indiretta, ciò che ne accelererà il declino economico e politico (doc. 13/b). In realtà il principe risulta il vero vincitore dello scontro con entrambi i corpi politici della Dieta. In primo luogo l'introduzione dell'Akzise rende inutile la convocazione dell'assemblea rappresentativa, poiché l'assenza delle città consente di organizzare il prelievo della contribuzione contadina (da cui per definizione i nobili sono esenti) attraverso semplici commissioni distrettuali presiedute dalla nobiltà. Inoltre, e soprattutto, l'organizzazione del sistema di riscossione dell'Akzise costituirà il nucleo intorno al quale si modellerà l'amministrazione dello stato prussiano: in un primo tempo affidata alle città stesse, diviene ben presto compito di un commissarius loci dal quale dipendono gli ufficiali municipali, e che funge in tal modo da intermediario tra governo centrale e periferico.

Nello stesso tempo l'amministrazione dell'esercito viene demandata a un commissariato generale alla guerra con il potere di reclutare e organizzare i vettovagliamenti nei singoli distretti. L'integrazione dei commissari urbani in questa nuova istituzione dà alla Prussia un sistema amministrativo omogeneo, organico, efficiente ed aggressivo nei confronti delle Diete locali, alle quali sottrae costantemente prerogative e capacità politiche (doc. 13/a). In tal modo l'esenzione fiscale della nobiltà rappresenta il canale decisivo per l'intensificazione sia del potere politico del principe, sia del dominio aristocratico sulla popolazione contadina. Quest'operazione, avvenuta a spese delle città, costituisce il carattere peculiare della formazione dello stato prussiano: infatti la condizione servile della popolazione rurale riduce al minimo la concorrenzialità tra stato e signori nell'estrazione del surplus dalle campagne, giacché consente a questi ultimi l'esercizio della sfera giurisdizionale e lo sfruttamento del lavoro contadino. Questo assetto politico elimina il carattere arbitrale dell'autorità sovrana quale abbiamo visto svilupparsi nella situazione francese, mentre al tempo stesso rende superflua la formazione di una mentalità di corte sulla quale modellare il sistema di governo e il comportamento sociale dell'aristocrazia.

La peculiarità delle basi sociali dello stato prussiano trova immediato riscontro nelle tappe della formazione del suo sistema amministrativo: in primo luogo si assiste a una progressiva militarizzazione della società, particolarmente vistosa nel regno di Federico Guglielmo I, il «re sergente» (1713-40). Essa costituisce l'esito della strategia del grande elettore, che riservava esclusivamente agli eredi delle casate aristocratiche l'accesso alle alte cariche militari: l'esercito prussiano, a partire dal grado di capitano, è formato totalmente da ufficiali nobili. Tale aristocratizzazione dell'esercito favorisce il mutamento della nobiltà prussiana da gruppo di cavalieri pacifici legati allo sfruttamento servile a élite militare. Ciò si riflette in un'ulteriore trasformazione dei rapporti tra signori e contadini: attraverso la parziale coscrizione obbligatoria della popolazione locale, non solo il paese è organizzato come un'immensa guarnigione e il territorio diviso in cantoni dai quali ciascun reggimento recluta i propri militari di leva, ma soprattutto l'autorità degli Junkers sui contadini diventa anche militare. Inoltre, per rafforzare la fedeltà necessaria all'adempimento delle funzioni militari, il «re sergente» è costretto a concedere nuove facilitazioni all'aristocrazia: in cambio di una lieve contribuzione per il mantenimento dell'esercito, gli Junkers ottengono una dichiarazione di allodialità delle riserve signorili, che divengono così proprietà privata effettiva dei detentori; inoltre viene concesso ai soli nobili il diritto di acquisto e vendita delle terre signorili, e ciò per prevenire la possibilità di un decremento delle proprietà aristocratiche.

Alla militarizzazione della società corrisponde quella del governo. Con l'elettore questo si fonda ancora su un Consiglio segreto — con una prevalenza numerica di nobili ma con funzioni chiave attribuite a giuristi — che controlla la burocrazia periferica congiuntamente al Consiglio dei processi, alla Camera delle finanze e al Commissariato alla guerra. A partire dal 1722 le funzioni di governo si concentrano in un Direttorio generale e supremo delle finanze e del dominio, rigidamente burocratico, presieduto dal sovrano e composto dai principali ministri e da un numero svariato di consiglieri (doc. 6/a): la sua autorità, come il nome suggerisce, riguarda tutte le questioni militari, economiche e finanziarie. Alla riorganizzazione centrale corrisponde l'istituzione nelle province di Camere della guerra e del dominio, che sostituiscono le corti di giustizia locali, composte di ufficiali nobili civili.

La militarizzazione del governo (anche la Camera è composta di personale nobiliare proveniente dall'esercito) determina un mutamento nella composizione e nella natura delle élites burocratiche, e di qui pesanti influenze sul sistema finanziario della monarchia prussiana, nonché sulla struttura economica del paese. In primo luogo tra il personale della vecchia organizzazione cetuale e i nuovi commissari di guerra si instaurano rapporti conflittuali e complessi (doc. 18/b). L'assetto istituzionale preesistente permetteva infatti ai proprietari fondiari nobili di concentrare il potere legato all'esercizio dell'autorità signorile con quelli derivanti dalla funzione di tramite della comunicazione col principe, oltre ovviamente a quelli connessi con l'esercizio del patronaggio. Inoltre, l'esercizio delle cariche locali era soggetto al tradizionale diritto di indigenato (doc. 9/a), per il quale gli ufficiali deputati delle Diete provinciali dovevano provenire dalla provincia in questione: il reclutamento favoriva gli ufficiali nobili, accanto ai quali comparivano solo saltuariamente membri dei patriziati urbani.

L'organizzazione del governo commissariale risulta invece doppiamente legata alla nascita dell'esercito stanziale: non solo è nell'esercito che nasce e si sviluppa tale carica, ma essa costituisce un elemento di salvaguardia degli interessi della dinastia principesca contro i comportamenti imprenditoriali e «privatistici» dei comandanti delle truppe. Perciò il commissario è un funzionario direttamente dipendente dal potere centrale, e la sua diffusione rappresenta un'indubbia intensificazione del controllo sulla periferia. Ma il legame con l'esercito non si arresta qui: le stesse funzioni commissariali sono volte al mantenimento delle truppe, e perciò concentrano tutte le funzioni legate alla tassazione. Qui tuttavia si fanno sentire i condizionamenti della struttura sociale, al punto da limitare caratteristicamente le prerogative di tale funzionario e, di qui, la «presa» del governo sulla società. Il sistema di prelievo si articola infatti in una serie di commissariati locali, diversi tuttavia per le città e le campagne. Nelle prime il commissario mantiene uno stretto rapporto con l'esercito fin dal periodo del grande elettore, viene nominato indipendentemente dal principio dell'indigenato, ed è quindi un funzionario estraneo alle località amministrate, sempre più spesso un ex militare nobile. Nelle contee rurali, e in relazione alla forza politica locale della nobiltà, il commissario conserva una natura ibrida, giacché viene nominato in base all'indigenato, e non supera l'ambito di un ufficio semionorario riservato ai nobili locali. In altri termini l'istituzione commissariale si arresta alle soglie della tenuta nobiliare: nonostante le attribuzioni giudiziarie delle corti rurali investano competenze sia fiscali che politiche, il commissario non interviene nei conflitti tra aristocrazia e popolazioni rurali (doc. 9/b). Dunque, contrariamente all'intendente francese, egli non «rappresenta» globalmente il governo nella periferia, la sua funzione arbitrale resta monca e ne limita il significato politico.

Tuttavia l'istituto commissariale, e più in generale la macchina burocratica, esercita una profonda influenza sulla società prussiana. Favorisce una mobilità individuale talvolta superiore a quella presupposta dal rango, poiché la regolamentazione dei singoli dipartimenti prevede sottili forme di controllo dei comportamenti individuali, impone al personale l'adozione di atteggiamenti «razionali» legati all'efficienza, all'abilità e alle doti personali (doc. 6/b); questi sono ottenuti con l'incitamento diretto del sovrano al personale burocratico a entrare in competizioni sotterranee, capaci tuttavia di generare attraverso il sospetto, l'animosità e il complotto un rendimento efficiente (doc. 18/a).
La riorganizzazione burocratica possiede conseguenze più vaste e complesse nella sfera economica: essa consente, ad esempio, una riorganizzazione dei domini patrimoniali della Corona — che fino al governo del grande elettore si presentano come un insieme polverizzato di diritti signorili — sulla base del sistema commissariale. Con l'istituzione di commissari del dominio regio si abbozza nel primo Settecento un'opera di ristrutturazione territoriale ispirata principalmente da interessi agrari, giacché comporta la revoca dei tradizionali contratti a lunga scadenza con i contadini concessionari del dominio patrimoniale e li sostituisce con più onerosi contratti a breve termine. Inoltre tali domini vengono dichiarati proprietà inalienabile della Corona e affidati a un imprenditore privato, un sovrintendente distrettuale del dominio che ne concede parcelle in affitto ai contadini, mentre nello stesso tempo esercita le prerogative giudiziarie e amministrative del funzionario regio. In tal modo il demanio si trasforma in campo privilegiato per l'innovazione sia delle tecniche agricole, sia dei metodi amministrativi, e stimolerà l'espansione dell'agricoltura prussiana del primo Settecento (doc. 14/c).

Tali considerazioni consentono di precisare alcuni tratti essenziali delle relazioni tra fiscalità e mercantilismo prussiano. In primo luogo lo stato brandenburghese si configura almeno fino alla metà del Settecento come uno stato dinastico, nel senso che il dominio patrimoniale del principe costituisce una parte integrante del sistema fiscale e delle finanze statali. Di fatto, e soprattutto in seguito alla riorganizzazione cui si è appena accennato, resta prioritario il prelievo fiscale sui domini diretti del sovrano, che da soli forniscono la metà degli introiti dello stato. Qui appaiono in tutto il loro peso i condizionamenti e gli squilibri sociali che presiedono alla formazione dello stato prussiano. Nato da un assetto autoritario dei rapporti tra signori e contadini, esso resta ancorato a un'accezione dinastica dell'amministrazione, nel senso che l'assolutismo prussiano si sviluppa a partire dalla conquista di privilegi patrimoniali e fiscali da parte degli Junkers in funzione del loro impiego nell'esercito al servizio del principe, e dall'attribuzione alla nobiltà nel suo complesso di potere politico sui contadini (doc. 9/a). Perciò lo stato si trova limitato nella determinazione della base contributiva dallo stesso sistema sociale da cui trae origine: poiché i nobili sono per definizione esenti dall'imposta, lo stato non trova altro espediente fiscale se non quello dell'utilizzazione dei domini patrimoniali della Corona quale fonte principale di entrate. Nello stesso tempo, infine, e per gli stessi condizionamenti strutturali, le sue esigenze finanziarie impongono una tassazione indiretta che soffoca sia i consumi delle classi soggette nelle campagne e nelle città, sia i gruppi mercantili urbani.

Il sistema fiscale si fonda così sulla sovrattassazione delle classi popolari, e sul trasferimento delle loro risorse al potere centrale. Ciò si accompagna a una crescente, se non ossessiva, attenzione del potere centrale alla sopravvivenza fisica della popolazione soggetta (doc. 9/b). Questa è già evidente durante il regno del grande elettore, che incoraggia l'immigrazione di manodopera straniera (in particolare protestanti francesi e fiamminghi) attraverso l'istituzione di appositi uffici di reclutamento ad Amsterdam e a Francoforte, mediante i quali si tenta di ripopolare a spese dello stato le zone andate deserte in seguito alla guerra dei Trent'anni (doc. 14/b). Inoltre la stessa introduzione della coscrizione militare, proprio perché consegna ulteriormente i contadini nelle mani del Ritter (cavaliere) locale, viene accompagnata da numerosi editti volti a proteggere l'esistenza fisica e la condizione economica delle popolazioni rurali. Si può dunque formulare l'ipotesi che il sistema fiscale possa agire nello stato prussiano in modo non dissimile dal sistema delle relazioni con i sudditi elaborato da Luigi XIV: attraverso lo strangolamento delle risorse materiali della popolazione soggetta, lo stato avvia un processo di «risparmio forzato» a favore del proprio apparato amministrativo e coercitivo che si prefigge lo scopo di mantenere gli «squilibri» sociali nelle giuste proporzioni.


3. Rispetto ai modelli di rapporto tra stato e società offerti dalla monarchia francese e da quella prussiana, la situazione inglese vede accentuare nel secondo Seicento i suoi caratteri peculiari: diversamente da entrambe, infatti, la monarchia anglosassone non conosce un'età assolutistica, e la società inglese non subisce la soffocante presenza di un forte apparato statale, mentre la stessa politica mercantilistica assumerà caratteri spiccatamente originali. Il processo rivoluzionario innescato dalla guerra civile e dall'Interregno si presenta come una cesura sconosciuta ai paesi continentali; è tuttavia ironico constatare come le conquiste della rivoluzione si siano concretizzate e rafforzate nel trentennio di restaurazione che seguì alla presa del potere da parte di Carlo II Stuart (1660-85).

Sotto il profilo puramente costituzionale questo periodo vede la progressiva limitazione della prerogativa della Corona, e, per il periodo successivo alla rivoluzione del 1688-89, anche di quella del governo. Schematicamente, la limitazione del potere centrale del sovrano investe almeno tre piani. Il primo è quello della definitiva affermazione della Common Law: con la Restaurazione cessa infatti l'offensiva delle corti di prerogativa regia nei confronti delle corti di diritto comune (King's Bench, Common Pleas e corte dello Scacchiere) che aveva caratterizzato la prima metà del secolo. Viene così sottratto al re uno dei centri del potere, l'autorità giudiziaria, con la quale Tudor e primi Stuart tentarono di scavalcare le corti comuni al fine di colpire gli avversari politici. In realtà, l'unico strumento capace di limitare l'operato delle giustizie locali diventerà dal 1679 il principio dell'Habeas corpus, con il quale si garantisce almeno formalmente il diritto dei detenuti di essere condotti davanti al giudice prima di venir deportati oltre Manica.

In secondo luogo, come parziale conseguenza del trionfo della giurisprudenza consuetudinaria e ancora in contrasto con le tendenze della monarchia Stuart, si manifesta una crescente indipendenza delle autorità locali, soprattutto i giudici di pace, che con la dichiarazione di inamovibilità del 1701 godranno di più di un secolo e mezzo di potenziale autonomia giuridica, grazie all'allentamento dei controlli amministrativi e all'introduzione della segretezza nelle Quarter Sessions locali. L'emancipazione dal controllo regio consente in ogni caso rapporti sempre più armonici tra i giudici di pace e il parlamento, nel quale sono presenti uomini provenienti dal loro medesimo ambiente sociale.

Infine, le prerogative della Corona inglese conoscono progressive limitazioni soprattutto nei loro rapporti con il Parlamento. È un processo, questo, che conosce fasi diverse su cui converrà concentrare l'attenzione. Prima della rivoluzione del 1688-89 la contesa verte sul potere del Parlamento di controllare la politica della Corona principalmente in materia religiosa, ed è senza dubbio alimentata dalle tendenze filoassolutiste e filocattoliche dei due ultimi sovrani Stuart, Carlo II e Giacomo II (1683-88), che contrastano con il prevalente orientamento anglicano dell'assemblea.

La connotazione religiosa del conflitto si chiude in ogni caso con la vittoria della maggioranza anglicana, che ottiene l'esclusione dagli uffici e dal trono di cattolici e dissidenti radicali. Lo smorzarsi del conflitto religioso porta alla luce un ulteriore oggetto del contendere, la limitazione tout-court del potere della Corona, che tuttavia sarà raggiunta nel corso di un lungo processo che occuperà tutto il secolo successivo alla Restaurazione. Esso si sviluppa attraverso alcuni momenti cruciali, quali il controllo del potere militare del re, che con il Bill of Rights del 1689 non può più mantenere in tempo di pace un esercito stanziale senza il consenso parlamentare. Inoltre il sovrano vede accentuare la propria dipendenza dal Parlamento, che con il Civil List Act (doc. 1) giunge a fissare un tetto alle spese della Corona.

Di fatto, esaminare le limitazioni poste alla libertà d'azione del re significa ripercorrere la crescita del Parlamento come corpo capace, se non del governo, della più ampia funzione di critica dell'esecutivo. Questa ha un riflesso nella stessa struttura del governo dopo il 1689: i primi sovrani hannoveriani, Guglielmo III, Anna e Giorgio I, governano non più attraverso il Consiglio privato, bensì attraverso una sua commissione, il Gabinetto, a cui è il re a proporre le questioni da discutere (doc. 4/a). Dopo il 1717 sarà invece il primo ministro, di solito il lord tesoriere, a fungere da presidente, mentre il sovrano non vi parteciperà più, e verrà informato dal primo ministro delle decisioni prese. In realtà il Gabinetto agisce da filtro e da intermediario tra sovrano e Parlamento. La stessa composizione del Gabinetto è rivelatrice di questa funzione: poiché è il Parlamento a votare le leggi, il sovrano non può scegliere uomini o adottare misure che non siano condivise dai Comuni. La stessa responsabilità ministeriale raggiunta nel 1717 — passo decisivo nel trasferimento della capacità di governo dalla Corona al Gabinetto, che si compie nel secolo successivo al 1689 — è espressione della forza del Parlamento, poiché sono i suoi schieramenti interni a far sì che il sovrano scelga dei gruppi e non più degli individui da opporre vicendevolmente.

La storia di tali gruppi precursori dei moderni partiti è nettamente influenzata dalla rivoluzione del 1688-89. Prima di essa questi si caratterizzano per il sostegno dato dal partito Tory all'alleanza con la Corona e al diritto divino del sovrano, al quale non è legittimo opporsi né resistere, poiché coincide con il caposaldo della religione; al contrario, il partito Whig sostiene la sovranità del Parlamento, approfittando delle frequenti convocazioni dell'assemblea per controllare la concessione di imposte e opporsi così alle influenze della corte. Tuttavia la rivoluzione del 1688-89 vede un completo rimescolarsi degli schieramenti, poiché uomini di entrambi i partiti contribuiscono alla cacciata di Giacomo II. Perciò il periodo che va dagli anni novanta fino almeno al 1716 è estremamente fluido, e le due etichette perdono di significato: soprattutto in virtù delle convocazioni triennali del Parlamento a partire dal 1694, si sviluppano accanite e frequenti dispute dei collegi elettorali, con la formazione di cospicue clientele. Tranne i casi in cui è un accordo tra i notabili (nobili e gentry) a designare il futuro membro del Parlamento portatore degli interessi locali (i cosiddetti Country gentry), i nomi e gli orientamenti degli eletti sono legati all'influenza locale dei magnati e dello stesso sovrano attraverso il patronaggio tradizionale o il puro e semplice acquisto del seggio elettorale. In entrambi i casi si rivela cruciale l'accessibilità agli uffici — militari, finanziari, amministrativi e di corte — garantita dai singoli magnati: di fatto i partiti sono formazioni fluide legate alla capacità dei patroni di distribuire risorse al più vasto numero di clienti, mentre il partito di opposizione si configura come l'insieme dei patroni lontani dalle cariche. Secondo l'interpretazione corrente, in questo contesto l'etichetta whig perde il suo carattere «popolare» per identificarsi con il mondo degli affari, soprattutto del commercio e della finanza, mentre l'etichetta tory viene lentamente applicata a un «linguaggio» — più che a una linea politica — che esprime forme di democrazia radicale.
Questo sistema di profitto parlamentare (spoil system) si irrigidisce con l'Atto settennale del 1716 che, elevando la durata di un Parlamento, incrementa immensamente il costo di acquisto di un seggio parlamentare, e favorisce quindi la trasformazione in senso oligarchico dell'assemblea rappresentativa, controllata da quel momento da un ristretto numero di influenti personaggi (doc. 4/c). Di fatto il meccanismo elettorale fa emergere coalizioni centrate su aristocratici o personaggi facoltosi. Tale chiusura dell'accesso alle risorse politiche vede riproporsi almeno formalmente i gruppi preesistenti, ma con connotazioni ideologiche rovesciate di segno: prende corpo cioè un gruppo whig legato al governo, mentre i Tories divengono sempre più estranei al meccanismo parlamentare, finendo per rappresentare le più svariate forme di opposizione al governo, alla corruzione politica e una più generica nostalgia per un'età aurea di stabilità sociale (doc. 4/b).

Diverse sono le possibili interpretazioni della costruzione dell'oligarchia whig. Da un lato essa può essere intesa come la conquista di una stabilità politica salutare per i destini politici del regno, nel senso che, ponendo fine alla feroce lotta dei partiti, consente una fusione di interessi tra il mondo dell'aristocrazia, dell'alta finanza e dell'amministrazione, e giunge ad abbracciare l'universo eterogeneo della gentry periferica. In sostanza, la stabilità offre all'élite del paese quell'unità che sola può permettere la conquista dell'egemonia mondiale e, con questa, lo sviluppo dei commerci e dell'industria. Perciò appare giustificato, in questa prospettiva, il ritorno di nobili e gentiluomini al centro della scena politica, e il ricorso massiccio alle tecniche del patronaggio, poiché questi sono i comportamenti inevitabili di una gestione del potere dominata dall'aristocrazia ed essenzialmente preoccupata della stabilità sociale, sola condizione capace di garantire l'ordine (doc. 4/b).

Nonostante che l'immagine della stabilità esprima compiutamente i caratteri dell'oligarchia whig, non va in ogni caso dimenticato come essa sia carica di tensioni interne, che appaiono in tutta la loro rilevanza non appena si esaminino le connotazioni economiche dei diversi segmenti dell'élite che forma la base di consenso della monarchia costituzionale. Da questo punto di vista la rivoluzione del 1688-89 costituisce un compromesso tra gli interessi di due rilevanti settori — quello agrario e quello commerciale-finanziario — e perciò stesso rende possibile una politica improntata alla moderazione e alla costante mediazione reciproca.

Il settore rurale dell'élite risulta composto di grandi proprietari nobili e gentilizi, protagonisti di un'autentica rivoluzione agraria: il processo di recinzione e di accorpamento delle terre comuni sottratte ai contadini concessionari. Di qui prende avvio una profonda trasformazione dei rapporti sociali nelle campagne, la sostituzione del regime feudale dell'accensamento con contratti di affitto più rigidi, mentre la concentrazione della proprietà rende profittevoli innovazioni tecniche capaci di incrementare le rese agrarie. Tale processo appare favorevole soprattutto ai vertici dell'élite dei proprietari terrieri: questi infatti riescono, dopo la rivoluzione del 1641, a consolidare i propri poteri politici locali, giacché la scomparsa delle corti di prerogativa regia fa sì che ogni conflitto legato alla proprietà fondiaria sia di competenza del diritto consuetudinario (doc. 7/b). Ciò non significa soltanto che tali conflitti vengono giudicati da quei membri dell'élite che fungono da giudici di pace locali, ma soprattutto che la consistente presenza di tali gruppi nel Parlamento rende ormai possibile nell'assemblea e nella Corona — contrariamente al periodo Tudor e Stuart — un atteggiamento favorevole alla recinzione da parte dei grandi proprietari (doc. 14/d). Il processo delle recinzioni favorisce perciò un assestamento delle posizioni dei gruppi più elevati della gerarchia sociale delle campagne: inoltre determina il blocco della mobilità sociale caratteristica del secolo precedente alla Restaurazione, e rafforza la legittimazione dell'oligarchia politica, giacché rende ancor più necessario il ricorso al patronaggio parlamentare per il conferimento di cariche ai membri della gentry minore declassati dalla rivoluzione agraria.

Non diversamente dal settore agrario, anche il settore commerciale dell'élite è protagonista di profondi processi di ristrutturazione economica, solitamente intesi quali necessarie precondizioni della rivoluzione industriale. Strumenti essenziali di quella che è stata chiamata «rivoluzione commerciale» sono gli svariati Atti di navigazione con cui i mercanti londinesi ottengono un monopolio del trasporto delle merci inglesi, che consente un aumento di profitti potenzialmente illimitato. I suoi benefici effetti per il settore mercantile diventano evidenti nel secondo Seicento, quando lo sviluppo degli scambi con le colonie consente al porto di Londra di conquistare una posizione di predominio nel commercio mondiale, diventando il centro di riesportazione della gran parte di materie prime e di manufatti (doc. 10/a). Ma è dal punto di vista politico che gli Atti di navigazione presentano le maggiori novità. Il monopolio che essi creano non è più destinato a favorire ristrette clientele privilegiate, come nelle vecchie compagnie di commercio, emanazione più o meno diretta della corte, bensì coinvolge un ampio numero di finanzieri, armatori e mercanti legati all'istituzione parlamentare, sotto il cui controllo l'atto medesimo del resto si pone. Di più, la stessa politica parlamentare, specialmente in materia tariffaria e fiscale, appare influenzata dal settore mercantile dell'élite: esempi canonici a questo riguardo sono rappresentati dall'uso costante delle dogane — controllate dal Parlamento — per favorire le esportazioni, e la capacità dei mercanti di finanziare la guerra con la Francia mediante una politica tariffaria.

La stretta relazione tra settore mercantile e Parlamento favorisce il successo della ristrutturazione del sistema finanziario, che, come è noto, culmina nella creazione della Banca d'Inghilterra nel 1694. Anche questo processo sarebbe impensabile senza l'attiva e dinamica presenza del Parlamento, che nella seconda metà del Seicento si conquista la capacità di proporsi, invece del sovrano, quale garante sia del debito pubblico, sia di quello della Corona.

Da due punti di vista va quindi considerato il significato della creazione della banca. Tecnicamente l'elemento innovativo consiste nel fatto che essa è originata da una sottoscrizione di capitale su principi volontari (joint-stock) che la differenziano dal modello di compagnia privilegiata in qualche modo legata alla corte (del resto due soli Pari sono annoverati tra il primo centinaio di sottoscrittori). Nonostante la sua natura privata, essa assume funzioni che la legano inscindibilmente al governo: essa fornisce anticipi e contribuisce al pagamento di rendite annuali e di vitalizi, ma soprattutto mobilizza le risorse del paese e le incanala in un unico centro facilmente controllabile dal potere politico. Di fatto è un organo del governo, e fin dal 1707 è associata al bilancio statale. In termini politici essa assume funzioni altrettanto rilevanti di creazione e stimolo del consenso all'élite al governo, e sancisce il controllo sulla Corona da parte di un settore dei Comuni legato all'ambiente finanziario londinese, che assume così un ruolo decisivo nella vita politica della nazione (doc. 11/a).

I tre processi innovativi qui delineati, oltre a definire la natura e la composizione dei due principali settori dell'oligarchia whig, consentono di cogliere appieno i contenuti del compromesso su cui poggia la stabilità: una politica favorevole al settore agrario dell'élite sorretta tuttavia da un sistema economico espressione di gruppi mercantili e finanziari, e una pratica raffinata del patronaggio parlamentare tesa a stabilizzare e armonizzare i rapporti tra i due settori. Ciò si traduce nella contemporanea ricerca della pace esterna per contenere le imposte all'interno e conquistare il consenso della gentry, e nell'adozione di una politica capace di favorire l'espansione manifatturiera e commerciale.

Entrambe queste linee strategiche trovano sostanziale espressione nella politica fiscale praticata dall'oligarchia tra il 1689 e i primi anni trenta del Settecento, politica che innova radicalmente il sistema impositivo ereditato dalla Restaurazione. Questo si fonda su un'imposizione diretta — le cui origini risalgono all'Interregno cromwelliano — deliberatamente incapace di colpire i beni mobili, cioè il settore mercantile, e dalla quale vengono esclusi per norma consuetudinaria i lavoratori poveri. In tal modo la Land Tax di fine Seicento grava esclusivamente sui proprietari fondiari, denunciando uno squilibrio fondamentale tra i due settori dell'élite, solo parzialmente colmato dai correttivi impliciti nella tassazione indiretta, tradizionalmente fondata sulle dogane. È in questo ambito che l'oligarchia whig interviene con le novità più rilevanti. Queste infatti tendono a fare delle imposte indirette non solo il sostegno della politica mercantilistica, incoraggiando come nel continente l'esportazione di manufatti e l'importazione di derrate alimentari: piuttosto, esse tendono a ridursi fin dal primo Settecento alle sole importazioni di beni di consumo di lusso, mentre mantengono un peso irrilevante sull'importazione di materie prime destinate alla lavorazione in territorio britannico. Inoltre incoraggiano fin dagli anni settanta del Seicento l'esportazione dei grani, che negli anni successivi alla «rivoluzione gloriosa» vengono addirittura sovvenzionate (in anni di pace e in assenza di carestie interne) con la concessione di corn bounties. In tal modo il governo tenta di sgravare i grandi proprietari fondiari, nobili come gentilizi, dal carico fiscale sopportato a causa dell'imposta fondiaria. Ma soprattutto, infine, il periodo whig si distingue per un sempre più largo uso dell'accisa (Excise), dazio su beni di largo consumo imposto saltuariamente a partire dal 1643: esso infatti, contrariamente alla tradizione fiscale Tudor e Stuart, colpiva anche i poveri. La scelta dell'accisa rappresenta in realtà il tentativo di far gravare sui poveri il carico fiscale necessario a colmare i vuoti determinati dalla riduzione progressiva dell'imposta fondiaria. L'oligarchia whig esaspererà l'uso del dazio con l'estensione dell'excise al sale nel 1732 e a tutta una serie di beni di larghissimo consumo con l'Excise Bill del 1733 (doc. 11/b). Tali misure danno al raggiungimento della «stabilità politica» un segno preciso, poiché fondano sulla tassazione dei consumi popolari la capacità del governo di mediare tra i diversi settori dell'élite: è interessante a tale proposito notare come proprio nel campo dell'amministrazione delle imposte indirette vengano creati i primi dipartimenti di ufficiali stipendiati, naturale punto di incontro tra le esigenze della gentry minore e dei cadetti delle famiglie aristocratiche declassate e l'uso del patronaggio parlamentare da parte dei magnati.

Il sistema fiscale sin qui delineato si distingue dunque per la sua «modernità» rispetto a quelli praticati nel continente, modernità che consiste nella funzione stessa della politica fiscale: potrebbe essere definita come una politica mercantilista priva di apparato amministrativo, un «colbertismo parlamentare» che può essere considerato anch'esso come un prerequisito fondamentale della rivoluzione industriale del secolo XVIII. Infatti, mentre Tudor e Stuart intendevano regolare e controllare la struttura socioeconomica mediante un apparato statale che in ogni caso non avevano la forza di imporre, con la Restaurazione il Parlamento si assume il compito della legislazione tariffaria, anziché dell'esercizio del controllo sull'amministrazione. Ciò consente un'autonomia locale fondata, tra Sei e Settecento, sull'esecuzione delle leggi e non come in Prussia e parzialmente in Francia, sull'obbedienza alle direttive centrali. La «modernità» sarebbe poi confermata dal genere di trasferimento di ricchezza che il sistema presuppone. Esso si distingue per l'irrilevante peso del dominio patrimoniale della Corona, che anzi dipende dal Parlamento per le proprie possibilità di spesa. In questo quadro il sistema fiscale inglese trasferisce ricchezza dai proprietari fondiari al settore mercantile e finanziario, che non risultano tassati, e fonda sulla sovrattassazione dei poveri un processo di «risparmio forzato» del tutto funzionale, sia pure con un intervallo di tempo considerevole, allo sviluppo industriale.

Dunque, l'assenza di apparato amministrativo e una politica fiscale orientata verso la sovrattassazione dei ceti più poveri farebbero della monarchia costituzionale emersa dalla rivoluzione del 1688-89, e soprattutto dell'oligarchia whig che ne eredita i principi ispiratori, una società «moderna», già controllata cioè dai meccanismi del mercato. Tuttavia, un esame del comportamento politico dell'oligarchia in chiave di storia sociale non suffraga interpretazioni ottimiste ed evolutive. In primo luogo la formazione del mercato nazionale, e in particolare del mercato dei grani, mette in moto meccanismi di rivolta, ribellioni spontanee, documentate per tutto il periodo qui preso in esame. Tali ribellioni si presentano in forme più radicate ed estese che nella situazione francese, a conferma di una maggior estensione e radicamento dei fenomeni di libero mercato. Tuttavia lo studio dei comportamenti e degli scopi dei rivoltosi permette di giungere a risultati di estremo interesse: essi mettono in mostra una «economia morale», cioè una visione tradizionale della funzione sociale protettiva del governo e della «giusta» relazione tra produttori, consumatori, mercanti e ufficiali preposti al controllo. In particolare, le iniziative dei rivoltosi, come ad esempio il tentativo di impedire l'uscita da una certa area delle partite di grani destinate all'esportazione, o come l'imposizione di un prezzo più basso di quello richiesto, si profilano come concrete proposizioni di un modello di relazioni sociali tra governati e governanti (doc. 16/b). In questo senso è perciò sorprendente come la legittimazione della violenza popolare in difesa di queste istanze fosse spesso, in realtà, rafforzata dall'indulgenza delle autorità locali e dal generale consenso delle comunità coinvolte. Queste considerazioni suffragano l'ipotesi di resistenze non solo circoscritte alle classi popolari, ma estendentisi all'ambito delle élites locali. Ciò è confermato, ad esempio, dalla persistente diffusione della legislazione sulla povertà nell'Inghilterra del secolo XVIII. Indubbiamente, la società inglese del secolo XVIII conosce le forme di mercato nazionale relative sia alla terra (il veicolo delle quali è costituito dalla rivoluzione agraria e dagli atti di recinzione), sia alla moneta (come abbiamo visto a proposito della rivoluzione commerciale e finanziaria): ciò tuttavia non autorizza a sostenere che le forme di mercato «nazionale» più distruttive, quelle del mercato del lavoro, avessero raggiunto la capacità di modellare totalmente i rapporti sociali, distaccandoli dai sistemi di prestigio e di status. In realtà le élites locali inglesi si dimostrano, prima e dopo la rivoluzione del 1688-89, durante e dopo la formazione dell'oligarchia whig, essenzialmente preoccupate di conservare l'ordine sociale dall'intrusione di forze, quali il mercato del lavoro, disgregative di un complesso di rapporti sociali dai quali le élites medesime erano generate. Così, e nonostante gli aspetti innovativi della politica tariffaria parlamentare in materia di libera circolazione dei grani, per tutto questo periodo (e per un secolo a venire), le élites locali si adoperano con ogni mezzo per impedire la trasformazione dei contadini in salariati. Questa politica di difesa della comunità locale trova espressione puntuale nella permanenza della Poor Law, così come era stata fissata dall'Act of Settlement and Removal del 1662 (doc. 7/a), di un sistema di sussidio ai poveri nati nella singola parrocchia fondato sull'elargizione dei copyholders e della gentry locali: in realtà, un sistema di effettiva regolamentazione e limitazione della libertà di movimento delle masse rurali. Da questo punto di vista la legislazione sulla povertà esprime il tentativo di proteggere l'ambiente rurale dallo sconvolgimento sociale mediante il rafforzamento dell'autorità tradizionale. La conquista del potere da parte dell'oligarchia whig segna anche da questo punto di vista l'introduzione di atteggiamenti innovativi e pericolosi per il controllo sociale da parte delle autorità sociali tradizionali.

La politica fiscale dell'oligarchia whig genera dunque effetti contraddittori: da un lato la necessità di ottenere il consenso dei proprietari terrieri con misure che incoraggiano l'esportazione ma producono costanti aumenti di prezzo, dall'altro l'imposta sui consumi e l'esportazione dei grani che gravano coi loro effetti disgregativi sulle comunità rurali, poiché inducono più elevati livelli di salario (doc. 15/b). La risposta del governo di Walpole a questi problemi sembra essere consistita nell'intensificazione del controllo sociale, o quanto meno nell'irrigidimento degli strumenti di controllo, come testimonia la promulgazione di un atto che estendeva la pena capitale a reati riguardanti offese alla proprietà (doc. 19/a). In realtà l'editto intendeva colpire i diritti consuetudinari di caccia da parte delle comunità poste intorno alle foreste regie: di fronte a manifestazioni tradizionali di disordine di cui furono protagonisti membri di famiglie appartenenti alla gentry minore escluse dal patronaggio di corte, il governo sostituì i consueti strumenti di correzione con la pena di morte, fino ad allora applicata ai soli reati contro l'individuo. O meglio, le «nuove» élites — quegli stessi fautori di un sistema equilibrato di distribuzione del patronaggio ai vertici dell'élite — tesero con tale innovazione a ridefinire il concetto di crimine, attribuendo alle offese alla proprietà lo stesso valore delle violenze agli individui (doc. 19/b).

Al di là del ridimensionamento delle interpretazioni evolutive che fanno della «modernità» e della moderazione il carattere peculiare della politica whig, tali ipotesi sembrano in grado di smentire la stessa nozione di «stabilità politica», poiché la costruzione di quest'ultima reca implicitamente con sé sostanziali trasformazioni della mediazione tra i gruppi sociali incarnata e perseguita dallo stato. La crescente impersonalità della mediazione giuridica sembra essere lo strumento con cui si intensifica in realtà il controllo di crescenti squilibri sociali che lo stato porta con sé.

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UpUltimo aggiornamento: 01/04/2006