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Didattica > Fonti > Predicazione e vita religiosa > II, Introduzione | |||||||||
FontiPredicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma)a cura di Roberto Rusconi © 1981-2006 – Roberto Rusconi Sezione II – Movimenti religiosi e sette ereticali: la lotta per la predicazione ai laiciIntroduzioneI primi fermenti in grado di scuotere la struttura fortemente sclerotizzata delle istituzioni ecclesiastiche, ormai del tutto inserite nell'organismo della società feudale, si manifestano verso la metà del secolo XI. Lo stesso movimento di riforma della chiesa, noto con il termine complessivo di riforma gregoriana, che abbiamo già incontrato nella sezione precedente, deve gran parte del suo successo, almeno nella sua fase iniziale, all'appoggio di vasti movimenti popolari di opinione: soprattutto nei centri urbani, come Milano e Firenze, si condividono gli ideali religiosi di lotta contro la simonia ed il concubinato del clero, diffusi dalla propaganda di monaci come Pier Damiani. A Milano questo movimento prende il nome di Pataria ed ha la sua data di nascita nella quaresima del 1057. In quell'anno un chierico del contado, Arialdo, dopo avere inutilmente cercato di convertire agli ideali della riforma del clero i chierici di Varese, scende a Milano a predicare al popolo. Le sue prediche ci sono rimaste nella rielaborazione letteraria di uno dei suoi seguaci, il quale non ne ha però alterato la natura sostanziale: la struttura delle prediche di Arialdo è un tessuto di versetti biblici, richiamati a provare, sull'autorità della Scrittura, la verità delle sue affermazioni. Non è questo il solo ponte che egli lancia per coinvolgere i laici nella lotta per la riforma della chiesa, incitandoli a riflettere direttamente sul testo biblico, e sulla base di questa conoscenza vagliare la condotta e gli insegnamenti dei chierici. Nella seconda predica che Arialdo tiene al popolo di Milano (doc. 1) egli prospetta un passo ulteriore: se coloro che, nella attuale struttura della chiesa, sono tenuti a predicare la verità evangelica vengono meno al loro compito, per incapacità o per corruzione, può toccare ai laici di prendere la parola, per discutere ed anche insegnare su argomenti direttamente connessi con la fede cristiana e l'amministrazione dei sacramenti. È questa una apertura temporanea, per così dire tattica, destinata comunque ad essere chiusa nel momento in cui, sulla spinta decisiva del movimento popolare, gli ecclesiastici riformatori arrivano al vertice della chiesa. Come mostra la lettera di Pier Damiani — uno dei teorici di questa riforma — al prefetto di Roma, Cencio (doc. 2), ai laici è riservato il ruolo politico di difendere i diritti della chiesa, e solo occasionalmente di assumere una funzione simile alla predicazione: in tal caso, essi debbono però rimanere del tutto estranei alle dispute dottrinali, e limitarsi a proporre parole di esortazione (verba exhortationis), a carattere puramente morale. Questa fase si chiude nella seconda metà del secolo XI: i monaci usciti dai chiostri per predicare a favore della riforma sono costretti a rientrarvi, i movimenti popolari di laici sono richiamati a ritornare al loro posto. Chi non acconsente è ricacciato nell'eresia: da allora, in Italia, «patarino» diviene sinonimo appunto di eretico. La corrente riforma religiosa ed ecclesiastica, che noi comprendiamo nella dizione di riforma gregoriana, era pervenuta al successo, installandosi progressivamente ai vertici delle istituzioni della chiesa, anche perché si era fatta portatrice di un'esigenza di rinnovamento religioso cui erano particolarmente sensibili i nuovi ceti emergenti della società medievale, in particolare nei centri urbani. Una volta arrivati alla gestione diretta delle istituzioni ecclesiastiche, i riformatori gregoriani incappano nei loro limiti e contraddizioni: soprattutto si mostrano incapaci di portare a realizzazione, sino in fondo, gli ideali di cui si erano fatti portatori, e in particolare quello dell'imitazione degli apostoli, intesa come povertà volontaria e predicazione itinerante del messaggio evangelico. La conseguente persistenza di fenomeni come la vita indegna del clero, la sua ignoranza, la sua radicale infedeltà al Vangelo — tutti problemi tangibili e cui i laici sono particolarmente sensibili — apre lo spazio a che siano i laici stessi ad aspirare a mettere direttamente a realizzazione l'ideale della vita apostolica. Nel nuovo clima culturale, prima ancora che spirituale, del secolo XII, la diffusione di versioni in lingua volgare della Scrittura e in particolare del Nuovo Testamento pone le basi di una cultura religiosa aperta ai laici e, ciò che più conta, sottratta alla mediazione dei chierici. Da tutto questo scaturisce la rivendicazione da parte dei laici del diritto a predicare, dal momento che i chierici vengono meno al loro dovere di annunciare l'Evangelo. Proprio negli stessi anni in cui un giurista bolognese raduna in un unico testo le leggi della chiesa (canoni), compresa la norma che sancisce il ruolo passivo assegnato ai laici nelle istituzioni ecclesiastiche e nella vita religiosa (doc. 3), compaiono in Occidente i primi missionari del bogomilismo balcanico. Sono gli esponenti di una vera e propria chiesa, formatasi in Bulgaria nel corso del X secolo, dotata di una sua gerarchia ecclesiastica e di un complesso di dottrine religiose, le quali ruotano intorno ad un principio fondamentale: l'esistenza nella realtà di due principi diversi ed opposti, quello del bene e quello del male. Arrivati nella società medievale occidentale verso la metà del secolo XII, questi predicatori «catari» (dal greco: i puri) cercano un elemento di contatto con la sensibilità religiosa delle popolazioni, per assicurare una presa immediata della loro azione di proselitismo: lo trovano, come mostra la lettera scritta nel 1144 da Evervino di Steinfeld a Bernardo di Clairvaux, nell'ideale della vita apostolica, di cui si presentano come i legittimi eredi ed i veri realizzatori (doc. 4). In realtà, essi abbandonano in breve tempo questa tematica, ma non cessano con questo di fare ricorso con insistenza, nella loro predicazione, al testo del Nuovo Testamento. L'unica predica catara, sopravvissuta alle distruzioni da parte degli inquisitori (doc. 5), è tutta intessuta di citazioni neotestamentarie, spiegate in apparenza alla lettera: i precetti evangelici vengono proposti come tali all'osservanza e alla pratica di vita, in una aderenza al testo biblico che marca in maniera evidente il distacco dalla sofisticata dottrina dei monaci del tempo, tanto lontani dalla sensibilità religiosa delle masse. In realtà, però, il ricorso dei predicatori catari al Nuovo Testamento è solo un pretesto per arrivare ad illustrare il punto centrale della loro dottrina, il mito dualistico — presentato come una rivelazione che interpreta e chiarisce lo stesso Nuovo Testamento. I predicatori catari diffondono tra i laici versioni in lingua volgare del Nuovo Testamento. E proprio da una traduzione dei libri della Bibbia, fatta eseguire da due chierici, prende le mosse la conversione del ricco mercante lionese Valdo, tra 1174 e 1176 (doc. 6). Dalla lettura diretta egli ricava l'ispirazione a imitare gli apostoli, nella vita condotta in povertà e nella predicazione itinerante. È una pretesa che non solo si scontra con il divieto esplicito contenuto nel Decretum di Graziano (doc. 3), ma appare potenzialmente eversiva della stessa struttura della chiesa. In primo luogo perché la versione in volgare della Bibbia, che la rende accessibile ai laici che non conoscono il latino, fa venir meno la mediazione chiericale: anzi, la richiesta dei laici di poter predicare mina alla base la stessa distinzione chierici/laici. Valdo e i suoi seguaci, di fronte alla condanna del vescovo di Lione, si presentano a Roma, per far autorizzare la loro traduzione della Bibbia e la loro predicazione: senza esito, perché del tutto estranei alla teologia monopolizzata dai chierici (doc. 7). Essi testardamente insistono nella loro richiesta, nel momento in cui i chierici non predicano affatto l'Evangelo: e per evitare ogni confusione, si dirigono con energia a controbattere la propaganda catara, la vera eresia, con la quale non vogliono essere confusi (doc. 8). In questa fase iniziale, tra i predicatori itineranti valdesi non vi è distinzione di sesso: lo sono uomini e donne. E la presenza delle donne non manca di attirare le accuse dei polemisti cattolici, per i quali è tanto facile insinuare che la predicazione itinerante femminile è un pretesto per il libertinaggio sessuale (doc. 9). Ben presto, però, anche per l'irrigidimento istituzionale provocato dalla condanna da parte della chiesa cattolica e dalla caccia che gli inquisitori danno ai valdesi, anche in questo gruppo le donne ritornano nella posizione subordinata, silenziosa e passiva, che caratterizza il loro ruolo nella società medievale. Di fronte a questi fermenti la gerarchia ecclesiastica reagisce con una netta chiusura, accomunando in un'unica condanna, emanata nel 1184, i dissidenti religiosi di ogni genere: da un lato, infatti, vi sono coloro che, come i catari, si contrappongono radicalmente alle istituzioni e alle dottrine cattoliche, con le proprie gerarchie ecclesiastiche e con le proprie credenze; dall'altro, gruppi e personaggi i quali aspirano, all'interno del cristianesimo occidentale, ad una vita più fedele al Vangelo, e per questo rivendicano quel diritto dei laici a predicare, che induce invece la chiesa a scomunicarli (doc. 10). Malgrado la condanna e la caccia degli inquisitori, nei decenni successivi (doc. 11) e per tutto il secolo XIII (doc. 12) i predicatori valdesi diffondono la loro esposizione letterale della Bibbia, spesso imparata a memoria — perché non sanno leggere — sulle versioni in lingua volgare — perché sono laici e non conoscono il latino. La repressione anti-ereticale della chiesa cattolica si esercita però in primo luogo nei confronti delle chiese catare e dei loro predicatori. Alla base vi è una preoccupazione legata direttamente agli equilibri politici, nella Francia meridionale come nell'Italia centrale. Approfittando delle controversie che oppongono la chiesa di Roma ai Comuni, ad esempio ad Orvieto, i propagandisti catari trovano ampio spazio alla loro attività di proselitismo (doc. 13), ed almeno nel caso di Orvieto riescono a saldare, a livello di élite dirigente, opposizione politica anti-papale e opposizione religiosa anti-cattolica (doc. 14). È una saldatura resa possibile anche dal fatto che la predicazione catara, nel tempo, aveva abbandonato ogni aggancio con i motivi di povertà evangelica, a favore di una morale rigida ed ossessiva: perdendo così ogni carattere potenzialmente sovversivo per i ceti emergenti nelle nuove istituzioni comunali, cui forniva invece una ideologia religiosa alternativa, nel momento della contrapposizione al predominio politico del papato in Italia centrale. Con l'ascesa al soglio pontificio di Lotario dei conti di Segni, con il nome di Innocenzo III, la gerarchia ecclesiastica assume una strategia più articolata, per arginare il disgregamento delle istituzioni cattoliche e la perdita della loro presa sulla società. Innocenzo rafforza lo strumento repressivo dell'inquisizione: ma esso dovrà funzionare solo a danno di coloro i quali avranno rifiutato di riconciliarsi con la chiesa di Roma. Questo non è possibile con i catari, ma lo è con alcune frange del movimento pauperistico-evangelico. Tra 1201 e 1210 egli riconduce in seno alla chiesa cattolica l'«ala destra» del movimento valdese, cioè i gruppi dei Poveri cattolici e dei Poveri riconciliati (docc. 18 e 19) e le comunità italiane degli Umiliati (doc. 15). In materia di predicazione con ciascuno di questi gruppi si arriva ad un diverso compromesso. In particolare, scontato lo zelo della loro predicazione anti-ereticale, viene rielaborata la distinzione — che risale alle sistemazioni teoriche del secolo XI — tra la predicazione dottrinale, riservata ai chierici, e la predicazione morale, concessa anche ai laici, a determinate condizioni. Malgrado il successo iniziale di questa formula, come dimostrano le testimonianze dei contemporanei relative agli Umiliati (docc. 16 e 17), il compromesso è destinato a palesare tutti i suoi limiti: di una concessione, cioè, che non riconosce alla base le esigenze che hanno mosso i laici a rivendicare per sé il diritto a predicare liberamente l'Evangelo, e le riconduce nelle strettoie degli schemi chiericali. Le comunità dei Poveri cattolici e dei Poveri lombardi scompaiono rapidamente dalla scena, anche per l'ostilità che il clero non manca di manifestare nei loro confronti. E alla predicazione degli Umiliati mette un freno decisivo papa Gregorio IX nel 1228 (doc. 28): con il sorgere degli ordini dei frati minori e dei frati predicatori la riaffermazione dell'egemonia religiosa della chiesa romana in Italia batte altre piste. Nella predicazione dei religiosi si ritroverà, a più riprese, nei secoli seguenti, la riaffermazione, variamente articolata, del principio che nella predicazione il ruolo dei laici è puramente passivo (doc. 29), anche perché esiste una parte della cultura religiosa loro inaccessibile (doc. 30). Le origini dell'ordine dei frati minori rientrano, in qualche modo, in questo contesto di movimenti religiosi laicali e di predicazione itinerante ad imitazione degli apostoli. Francesco d'Assisi, figlio del ricco mercante Pietro di Bernardone, come molti laici di quel tempo si converte silenziosamente a vita eremitica, finché non sente leggere durante la messa il brano del Vangelo in cui Cristo invia i suoi apostoli a predicare per il mondo (doc. 20). Da laico, Francesco scopre in questo brano una vocazione religiosa che richiede fedeltà assoluta. Cerca di ottenere nel 1209 0 1210, da Innocenzo III in persona, l'approvazione della sua «forma di vita», consistente nella povertà volontaria e nella predicazione itinerante: e la ottiene, in un contesto non chiaro e con la riaffermazione del principio della esclusione dei laici dalla predicazione dottrinale (docc. 21 e 22). La predicazione di Francesco, comunque, resta negli anni seguenti a carattere marcatamente laicale: egli parla di pace, come un oratore politico (doc. 23), non utilizza le regole delle artes praedicandi, che rendono possibile ricordare a memoria le prediche (doc. 24), non è in grado di predicare in latino, ma solo in volgare umbro (doc. 25). Nel momento in cui il movimento suscitato dalla sua predicazione itinerante a cavallo dell'Appennino ha raggiunto una tale estensione numerica da richiedere di essere governato con norme precise, e quando il suo stesso successo ne sta trasformando il carattere originario di fraternità laicale, Francesco è costretto ad accettare di redigere una regola religiosa per i frati minori. Si mette all'opera nel 1221, ma il suo scritto non viene approvato dalla curia pontificia, perché esso non è una regola, giuridicamente rigorosa, come a Roma si voleva, ma un ripensamento dell'esperienza religiosa di Francesco e dei suoi primi compagni (doc. 27): l'invito ad una predicazione evangelica, fatta di esemplarità piuttosto che non di dottrina, come quello contenuto nel capitolo XVII, non può essere accettato come modello per il nuovo ordine minoritico. |
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