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Didattica

Fonti

Stato e società nell'ancien régime

a cura di Angelo Torre

© 1983-2006 – Angelo Torre


Sezione I - La formazione dello stato rinascimentale

Introduzione

1. Nella seconda metà del secolo XI la carta politica del continente europeo fa emergere la coincidenza, nel settore occidentale, di una serie di regni stabili e duraturi. In Francia, in Inghilterra e in Spagna, soprattutto, le dinastie sovrane giungono ad affermare in modo incontrastato la propria autorità politica dopo un periodo più o meno lungo di crisi e di guerre intestine delle aristocrazie locali. Nonostante tale affermazione possa venir intesa come una restaurazione della prerogativa regia, essa assume un valore capitale quando si pensi che proprio di qui prenderanno origine strutture politiche di tipo nuovo, gli stati moderni, destinati a durare fino alla fine dell'ancien régime e a esercitare una funzione egemonica nella scena politica europea.

Non è possibile indicare con chiarezza quali elementi e quali fattori abbiano svolto un ruolo prioritario nel determinare una congiuntura tanto favorevole al rafforzarsi dei poteri centrali: certo, i tre sovrani in questione, Luigi XI in Francia, Ferdinando e Isabella in Spagna ed Enrico VII in Inghilterra, possono esser considerati i vincitori della secolare competizione tra i potentati territoriali compresi in questa parte dell'Europa, ma per lungo tempo i loro successori dovranno affrontare il riaccendersi di focolai e di resistenze in seno all'aristocrazia. Senza dubbio si può parlare di una concorrenza di fattori che essi, in misura e in tempi diversi, sono ormai in grado di sfruttare nell'intento di accrescere la propria autorità e di estendere l'ambito della propria sovranità. È in ogni caso estremamente significativo che l'emergere di queste nuove forme di organizzazione politica si situi alla fine di un periodo di crisi generale della vita economica e sociale del continente: anzi, gli stati moderni sono in qualche modo il prodotto non solo di una crisi, ma di una serie di processi di ristrutturazione sviluppatisi su una pluralità di piani. In particolare appaiono rilevanti le conseguenze di alcuni aspetti di quella che si è soliti chiamare «crisi del sistema feudale», che investono la sfera politica, economica e quella sociale.

Dal punto di vista politico la nascita degli stati moderni si connette in modo indissolubile alla profonda crisi di organismi politici medievali quali papato e impero, per loro natura sovranazionali e universalistici: questa consente ai sovrani del secondo Quattrocento di presentarsi come i detentori di un potere assoluto, dotato cioè di un'autorità che non conosce limitazioni all'interno di un determinato territorio. Se è vero infatti che l'imperatore, ad esempio, continua a essere la suprema autorità civile del mondo occidentale, fin dal Trecento il suo potere è ormai del tutto nominale, incapace di imporsi su dinastie sovrane dotate di domini più circoscritti ma gestiti secondo criteri più efficaci. A sancire il mutamento di rapporti tra singoli sovrani e imperatore contribuisce un altro fattore: il diritto romano. Il potere regio si circonda ormai di giuristi o umanisti dotati di una professionalità specifica (pronunciare orazioni, rogare documenti ufficiali, fungere da ambasciatori). Per il loro tramite il diritto romano, alla cui tradizione essi erano formati, cambia di referente: allo stesso modo in cui nei secoli precedenti aveva contribuito in modo rilevante all'affermazione della supremazia imperiale, ora esso viene usato per giustificare e rafforzare le ambizioni del sovrano. Attraverso di esso infatti il sovrano viene posto in una sfera superiore, trascendente le leggi, e ciò contribuirà non poco a renderlo capace di affrontare e vincere le giurisdizioni estranee al suo potere o a esso virtualmente superiori. In tal modo il diritto romano, attraverso i circoli di giuristi alle immediate dipendenze del sovrano, rafforza notevolmente la sfera d'azione e la prerogativa del potere regio.

La crisi del papato si manifesta invece con estrema acutezza proprio nel corso del Quattrocento attraverso il grande Scisma d'Occidente che imponendo la presenza contemporanea di due o tre pontefici contribuì a rafforzare l'autorità delle dinastie sovrane. Come vedremo meglio in seguito, la crisi del papato avrà notevoli ripercussioni sulle relazioni tra sovrani e clero nei territori sottoposti al loro dominio, in particolare per quanto riguarda la possibilità di influire sulle nomine dei principali benefici ecclesiastici: per ora basti ricordare come il primo Quattrocento sia l'epoca dei concordati stipulati tra papato e singole dinastie sovrane, nei quali si regolano appunto le modalità di nomina delle principali cariche ecclesiastiche da parte della corona.

Tuttavia, la ridefinizione del potere regio non sarebbe completa se non investisse, oltre questi limiti «esterni» al dominio del sovrano, le forme stesse di organizzazione del potere che avevano caratterizzato i secoli precedenti: la feudalità e i centri urbani. Per quanto riguarda questi ultimi occorre osservare come le società urbane si inseriscano a fatica nel nuovo sistema di potere e di dominio. In primo luogo gli stati moderni sorgono lontani dalle regioni caratterizzate da un'alta densità di formazioni politiche cittadine, e contrastano nettamente con la frammentazione politica che sempre aveva accompagnato lo sviluppo urbano. Di fatto, delle due zone politico-sociali in cui si trova spartita l'Europa tardo-medievale, l'una prevalentemente borghese e urbana (Italia, Fiandre, Renania), l'altra rurale e dominata da ceti signorili e aristocratici, è soprattutto la seconda a favorire la formazione, sia pur faticosa, di processi di unificazione dinastica o nazionale. Inoltre nel periodo considerato le città, pur contraddistinte da una relativa prosperità economica, conoscono divergenti destini politici. Mentre i centri maggiori tendono sempre più a proporsi quali poteri autonomi dando vita a città-stato, quelli minori tendono a fissare in un ambito provinciale la propria influenza. Solo in alcuni casi le grandi città medievali mantengono il proprio rango e la propria potenza nel quadro dell'organizzazione statale del potere; ma ciò avviene a condizione che esse si trasformino in capitali di regni, e fondino la propria nuova capacità di attrazione su funzioni estranee alle formazioni politiche cittadine conosciute dall'Europa tardo-medievale: in sostanza è una sopravvivenza dovuta a un profondo snaturamento della loro autonomia politica.

La dislocazione rurale delle aree nelle quali si sviluppano gli stati nazionali non deve tuttavia far pensare a una linearità di rapporti tra i detentori del potere sovrano e i ceti signorili e aristocratici che esercitano l'autorità e il controllo sulle popolazioni contadine. Tali rapporti, al contrario, sono caratterizzati da una profonda estraneità e manifestano una potenzialità conflittuale che permea la natura stessa dell'organizzazione statale del potere. L'autorità principesca, infatti, non fonda la propria legittimità su meccanismi elettivi, né da parte delle élites né tantomeno da parte delle popolazioni soggette: essa deriva da un'investitura di origine divina e, insieme, naturale. Si identifica cioè con la sovranità, e conferisce il diritto di delegare il potere ai consanguinei e a una parte dei sudditi, o di accordare prerogative particolari a segmenti specifici della popolazione. In linea di principio, quindi, la sovranità, attraverso cui si legittima il potere regio nel periodo moderno, appare dotata di una natura intrinsecamente diversa dalla sua accezione medievale cui permangono legati invece i ceti signorili e aristocratici; quest'ultima è più vicina infatti all'immagine feudale di un'obbedienza all'autorità fondata sul dovere di fedeltà dei vassalli, e cioè su un contratto tra individui che imponeva al superiore la contropartita del rispetto dei privilegi, cioè della condizione, dell'inferiore. In altri termini la nozione moderna di sovranità appare concettualmente distante dalla dimensione della fedeltà, personale e suscettibile di valutazione da parte dei singoli, su cui si era fondata l'autorità sovrana nei secoli precedenti (doc. 3).

Sottolineare le distanze e la differente natura dell'autorità sovrana rispetto a papato e impero, alle città e alla feudalità consente di coglierne alcune specifiche linee di sviluppo. Rispetto ai due organismi sovranazionali il problema del sovrano è quello di liberarsi dall'inferiorità politica derivante dalle loro vocazioni universalistiche e di affermare quindi il proprio imperium regale su determinati territori, ridefinendo in tal modo il modello dell'autorità. Città e feudalità costituiscono altrettanti limiti all'azione del sovrano nello stesso ambito territoriale del suo dominio, e pongono rilevanti problemi di integrazione politica. Di fatto la genesi dello stato moderno si sviluppa a partire dalla diversità sostanziale tra i principi in base ai quali si organizza il potere centrale del sovrano e i fondamenti del potere detenuto dalle autorità tradizionali. Ma tale distanza non va intesa come un elemento generale, astratto e omogeneo: la relazione tra potere centrale e poteri locali varia a seconda delle zone, e in funzione di processi sotterranei e di lunga durata che hanno mutato in modo difforme il volto della società medievale.

Molto schematicamente, infatti, si può notare come i ceti signorili delle diverse zone del continente abbiano saputo sfruttare in modo svariato il declino demografico determinato dalle epidemie di metà Trecento e come, a loro volta, i diversi rapporti di forza tra signori e popolazioni contadine soggette abbiano influito in modo radicale sull'evoluzione del servaggio e sullo sviluppo dell'agricoltura moderna. Punto di osservazione a questo riguardo devono essere i movimenti antisignorili, intensi e violenti, che per tutto il Tre e Quattrocento hanno come protagoniste le popolazioni contadine europee, e il loro convergere intorno a due temi tra loro correlati: la libertà di movimento (cioè la possibilità fisica e giuridica di spostamento) dei contadini e il controllo - signorile o contadino - sulla terra.

Da questo punto di vista la storia della parte orientale dell'Europa, dei territori cioè a est del fiume Elba, si distingue nettamente dal resto del continente: mentre all'Ovest si assiste al graduale affrancamento dei servi, solo eccezionalmente i coloni germanici orientali più ristretti numericamente e dipendenti in genere da signorie estese e omogenee, riescono a ottenere la libertà personale. In tal modo la struttura delle signorie create tra il XII e il XIII secolo dalla colonizzazione dell'ordine teutonico ha potuto mantenere inalterate le proprie notevoli dimensioni territoriali e le condizioni che legavano i contadini alla terra: ha conservato cioè un ruolo centrale alle prestazioni di lavoro dovute dai contadini al nobile detentore del potere locale.

Nella parte occidentale del continente, invece, le popolazioni rurali riescono quasi ovunque ad affrancarsi dalla servitù, dando vita a rapporti variegati con i propri signori. In alcune zone, come Inghilterra e Catalogna, la vittoria contadina è solo parziale, nel senso che i signori non riescono a ripristinare la condizione servile delle popolazioni soggette, ma strappano loro il controllo sui fondi dati in concessione: le autorità signorili conservano e intensificano tale controllo attraverso l'accorpamento delle terre abbandonate dopo la peste, oppure l'imposizione di canoni arbitrari a ogni cessione della terra, o al decesso dei locatori. Si formano in tal modo tenute estese che i signori concedono in affitto a imprenditori capaci di gestire attraverso l'uso di lavoro salariato una produzione destinata non all'autoconsumo, bensì alla commercializzazione. Il successo di una sola delle rivendicazioni contadine - la libertà di movimento personale - risolve a favore dei signori il controllo sulla terra ma crea condizioni propizie allo sviluppo di forme nuove di conduzione dei fondi e all'incremento delle capacità produttive.

Nelle regioni francesi e germanico-occidentali, invece, i contadini, nel corso di un processo di lungo periodo che ha già raggiunto l'apice nel secolo XIII, sono riusciti a strappare ai signori importanti concessioni economiche e politiche, dall'uso dei campi comuni all'istituzione di canoni rigidi e alla garanzia della trasmissione ereditaria dei fondi. Questa soluzione, che a lungo andare faciliterà la frammentazione della proprietà contadina e impedirà la modernizzazione dell'agricoltura, è contraddistinta dal fatto che la libertà formale delle persone veniva riconosciuta in genere non a singoli individui ma a corpi comunitari di villaggio, e, soprattutto, da autorità di natura regale o principesca, esterne comunque ai contendenti e a entrambi superiori.

Il secolare processo di liberazione dal servaggio agisce quindi, attraverso il catalizzatore del disastro demografico della metà del Trecento, in direzione di sostanziali differenziazioni dei rapporti sociali nelle campagne europee. Da una parte forti autorità signorili si vanno affermando sia su contadini in stato servile, come a est dell'Elba, sia su contadini formalmente liberi, come in Catalogna e in Inghilterra, attraverso la concentrazione di grandi proprietà terriere orientate verso un diretto rapporto col mercato. Dall'altra parte, nei territori francesi e germanico-occidentali, in un assetto fortemente frammentato della proprietà fondiaria, un'autorità signorile in lento ma certo declino è fronteggiata da corpi comunitari coscienti e organizzati, che trovano in un'autorità principesca o regale la possibilità di condizionare il dominio diretto del signore locale.

Questo diverso assetto dei rapporti sociali nelle campagne avrà rilevanti conseguenze sullo sviluppo di un'autorità regale centrale. Mentre nel primo caso l'autorità sovrana sarà costretta a delegare ai signori locali il controllo sulle popolazioni contadine, nel secondo caso, con varia fortuna, le autorità centrali faranno leva sulla conflittualità tra signori e contadini per estendere il proprio potere politico.

È dunque al mondo delle élites locali, alle sue trasformazioni significative, che queste considerazioni invitano a rivolgere lo sguardo come al piano capace di condizionare lo sviluppo del potere regio. Due elementi in particolare si aggiungono ai rapporti con i propri contadini nel comporre l'immagine del ceto signorile: la ridefinizione della sua funzione pubblica e la sua stratificazione interna. L'autorità signorile è sempre meno definita dall'esercizio di diritti sugli individui e sulle comunità rurali, attraverso la giurisdizione civile e criminale e attraverso il diritto di banno e la polizia rurale. Inoltre, anche laddove i signori esercitano una giurisdizione sui contadini, come nella situazione inglese, questa non è connessa alla detenzione di diritti sulla terra, ma al fatto che i proprietari fondiari costituiscono l'ossatura dell'amministrazione pubblica come funzionari non stipendiati: i giudici di pace (doc. 9). Dove questa saldatura non si attua, come in Francia, il declino dell'autorità signorile si manifesta nel trasferimento dei tribunali verso centri di aggregazione sociale e politica, città e borghi intermedi.

Parallelamente si accentua la stratificazione sociale interna al mondo delle élites: mentre il ceto signorile si va trasformando in uno strato di detentori di status gentilizio, intermedio tra la condizione giuridica di nobile e gli strati superiori del mondo contadino, assumono maggior significato i suoi legami con il più limitato numero di grandi casate nobiliari. Questi non appaiono più connessi a una fedeltà determinata dall'omaggio vassallatico, ma tendono a strutturarsi intorno a vincoli clientelari e contrattuali. Soprattutto nell'Inghilterra e nella Francia dei secoli XV e XVI si profila un «nuovo» feudalesimo, o feudalesimo bastardo, o sistema di contratto, in cui, accanto ai comportamenti tradizionali fondati su un codice di onore imposto dalla forza del lignaggio, sono dominanti i rapporti tra patrono e cliente. Si assiste in particolare a un processo attraverso il quale i membri della piccola nobiltà gentilizia tendono a stringere rapporti clientelari con grandi nobili, entrando al loro servizio o facendovi entrare i propri figli mediante versamenti di denaro al patrono, o, al limite, la stipulazione di veri e propri contratti a vita rafforzati dal giuramento di omaggio.

L'esito politico di tale processo consiste in una più stretta coincidenza degli interessi politici della nobiltà locale con quelli dei suoi patroni, dei «grandi» della propria regione, vertici di una vera e propria piramide di rapporti che li legano agli strati inferiori della nobiltà e, attraverso le cellule signorili del potere di quest'ultima, determinano la loro influenza su interi territori (doc. 10). Che nome dare a tale formazione sociale, a un tempo piramidale e territoriale? Forse l'unico termine che ne esprime compiutamente la natura è quello di corpo, usato dai contemporanei per il suo implicito riferimento a una serie di funzioni regolate dalla stabilità e dall'ordine. È in ogni caso un insieme di corpi sociali gerarchici e dislocati territorialmente quello che la riemergente autorità monarchica si trova di fronte, o accanto, nella seconda metà del secolo XV. Parimenti, è questo insieme di rapporti a illustrare le ragioni della ripresa dell'autorità monarchica allo scorcio del Quattrocento. Se in generale le élites locali assolvono alla funzione di garantire l'ordine sociale, una complessa serie di fattori fa sì che in questo periodo il sovrano possa accentuare la sua influenza e il suo potere.

In generale si palesa un esaurimento della capacità delle élites e dei potentati locali di competere con l'autorità regia, a causa di un mutamento vistoso della scala delle operazioni politiche e militari nelle quali si esplica l'esercizio del potere. In primo luogo l'intero continente europeo si sta trasformando, fin dalla guerra dei Cento anni, in un unico teatro di iniziative diplomatiche e belliche. Se la guerra è ancora caratterizzata da manifestazioni imponenti ma localizzate, l'attività diplomatica investe al contrario aree più vaste e sta assumendo una costanza e una continuità nel tempo prima sconosciute. Altri mutamenti di scala sono imposti dalla nuova natura delle operazioni militari: la rivoluzione delle tecniche della guerra, e soprattutto l'uso della fanteria - che va diffondendosi in questo periodo -, impongono un aumento considerevole della dimensione degli eserciti, impensabile entro le strutture organizzative delle armate feudali, basate su contingenti ridotti nutriti e diretti dal singolo feudatario (doc. 15). Soprattutto, infine, l'espletamento di queste funzioni da parte del potere centrale tende a divenire quasi costante, imponendo un volume di spesa che riduce il numero dei contendenti in grado di sostenerlo.

Sarebbe tuttavia semplicistico definire l'origine dello stato moderno a partire dalla mera capacità del sovrano di fronteggiare l'ampliarsi della spesa. Da questo punto di vista il problema si ridurrebbe al nuovo vigore conosciuto dalla concezione patrimoniale dello stato che accomuna la riemergente autorità monarchica del secondo Quattrocento: in questo periodo, infatti, i domini patrimoniali della Corona vengono restaurati quasi ovunque, o reincorporando appannaggi - come in Francia -, o sfruttando possibilità offerte dal diritto feudale - come in Inghilterra (doc. 5), oppure, come nel caso spagnolo, lasciando inalterata la fortuna economica della nobiltà ma incamerando i possedimenti di istituzioni in declino, quali gli ordini militari (docc. 2 e 10). Sono iniziative, queste, per nulla innovative, rivelatrici semmai della netta volontà di restaurare una tradizione di potenza: in ogni caso esse sono compatibili con l'opinione prevalente secondo la quale il sovrano deve godere di autonomia finanziaria ed è costretto a costituire una base patrimoniale in grado di coprire le spese personali e, nella misura del possibile, anche quelle pubbliche.

In realtà la strategia dei sovrani del secondo Quattrocento non si limita a questo aspetto restauratore, e non esita a usare strumenti politici di tipo diverso. In termini giuridici, il re cerca di sfruttare contemporaneamente i vincoli della lealtà vassallatica e l'obbedienza dovuta all'autorità sovrana. Ciò impone l'utilizzazione di nuovi strumenti di propaganda, che agiscano nella profondità delle sensibilità collettive e rendano inutile il ricorso alle lealtà imposte dal lignaggio per l'imposizione dell'obbedienza. In questo periodo, ad esempio, si elabora e si dà intima coerenza a un'immagine del re sempre più distante dai modelli quotidiani dell'esistenza. Particolarmente nel caso francese, il re è l'unto del Signore, sospeso a metà strada tra lo stato laico e quello clericale (doc. 4), vive circondato da una schiera di eletti con cui condivide un cerimoniale specifico, quello della corte, che in questo periodo, nonostante si tratti ancora di un gruppo nomade, tende a definirsi e a crescere in pompa e in prestigio. Da un altro punto di vista si accentua l'immagine del re quale garante della continuità dell'esistenza tanto per gli individui quanto per la società nel suo complesso. Le stesse funzioni di governo possono essere lette in chiave simbolica, come sviluppo di un rituale immemorabile: il re può prelevare, cioè imporre tasse, proprio in virtù del fatto che è in grado di distribuire e dispensare benefici e onori, in ultima analisi ricchezze, dignità e rango. Forse anche per questo motivo i periodi più tormentati delle monarchie nell'età moderna sono le reggenze, nelle quali l'assenza fisica dell'unto del Signore - in altri termini dell'autorità legittimata - impedisce uno sviluppo armonico ed equilibrato della vita sociale.

Il proporsi del sovrano quale supremo dispensatore di benefici è il segno di una profonda trasformazione del suo potere: infatti l'apparato delle monarchie medievali era diretto principalmente all'estrazione di surplus dal dominio regio in cambio di protezione da aggressioni esterne, e imponeva un complesso sistema di alleanze con i potentati che esercitavano l'autorità al di fuori dei patrimoni della corona. Le nuove esigenze imposte dalla scala delle operazioni diplomatiche e militari favoriscono invece una redistribuzione delle risorse più larga ed estesa territorialmente, che solo un centro di potere molto articolato può assolvere. Ed è l'assetto stesso della società tardo-medievale a favorire questa geometria del potere. Per non fare che un esempio, la diffusione dei traffici e dell'economia monetaria che accompagna la crisi del sistema feudale semplifica enormemente il sistema delle ricompense che il sovrano destina ai suoi fedeli: il fatto che la terra non rappresenti più il solo segno della ricchezza e del prestigio consente al re di dispensare pensioni in denaro in luogo di appannaggi, facendo cosa non poco gradita a una nobiltà sempre più dipendente da spese monetarie. In altri termini, il re può concedere ricchezze ai propri fedeli senza impoverirsi a sua volta.


2. Tuttavia l'autorità sovrana non si limita a presentarsi quale dispensatrice di onori e redistributrice di risorse; o meglio, tale funzione è preceduta da un'indispensabile premessa secondo la quale l'azione del re si distinguerebbe per i suoi poteri riequilibratori. A ogni editto la propaganda regia non si stanca di presentare il sovrano e il potere centrale come garanti dell'ordine e come fonti supreme di una giustizia a cui tutti i sudditi devono poter accedere (doc. 3). E, di fatto, agli albori dell'età moderna l'autorità sovrana è essenzialmente un'autorità giurisdizionale, che si afferma e si perpetua attraverso una serie di rappresentanti a ciò preposti: ufficiali di giustizia che hanno il compito di emettere sentenze in nome del re e in sedi specifiche, i tribunali regi.
È un dato costante della riemergente autorità monarchica la netta espansione della giustizia centrale: questa si manifesta sia con la diffusione delle corti d'appello o la tendenza ad avocare cause dalle giustizie locali, come nella Francia dei secoli XV e XVI, sia con la crescita quantitativa dei giudici di pace inglesi e l'estensione dei loro poteri (doc. 9). Nello stesso senso vanno intese l'istituzione di alcaldes entregadores nella Spagna dei re cattolici al fine di controllare la potente corporazione dei pastori castigliani, la Mesta (doc. 7), e il favore concesso dai sovrani alle Hermanidades, organismi quasi spontanei di polizia urbana e rurale, che divengono il veicolo di pacificazione della Castiglia. Ma soprattutto i sovrani castigliani riaffermano la propria autorità attraverso l'opera di giudici dipendenti direttamente dal centro, i corregidores (doc. 6).

Occorre in ogni caso chiarire le ragioni per le quali, negli ultimi secoli del Medioevo, il potere centrale ha trovato nella giustizia una straordinaria possibilità di sviluppo. Il processo al quale tale estensione dà vita è in realtà fortemente contraddittorio. Infatti il potere giurisdizionale, e in particolare quello di prima istanza, ha sede in sfere politiche e sociali del tutto o in parte sottratte all'ambito dell'autorità del re: le signorie rurali, le magistrature ecclesiastiche e quelle urbane. Ciò significa che, in condizioni normali, l'esercizio del potere giurisdizionale è caratterizzato da un vistoso squilibrio dei rapporti di forza, che appare in tutta evidenza nel tipo prevalente di conflitti da cui è investita la società nel periodo considerato: sono conflitti che, come abbiamo visto, vertono spesso sulla capacità signorile di esercitare un controllo diretto o indiretto sulla terra e sui contadini. La stessa estensione della giustizia regia nella periferia, che contraddistingue il periodo di formazione dello stato moderno, non smentisce questo quadro: si tratta infatti e principalmente dell'espansione della giustizia di appello. È significativo a questo riguardo il modello di sviluppo assunto dalla giustizia francese nelle sue premesse tardo-medievali: fin dal 1260 viene istituita una sezione della curia regis col compito di emettere sentenze di appello, il Parlamento di Parigi. È un esempio che conoscerà numerose repliche ogni volta che una nuova fetta di territorio verrà acquisita dalla Corona francese. Nella stessa Inghilterra, dove pur non si conoscono istituzioni simili ai parlamenti provinciali francesi, l'autorità sovrana si preoccupa di essere presente nei territori periferici con istituzioni d'appello intermittenti, costituite da giudici delle corti londinesi che si trasferiscono a intervalli prefissati nelle corti locali.

L'espansione della giustizia, intesa come espansione della possibilità di appello e come implicito controllo delle giustizie periferiche, comporta dunque, e paradossalmente, un ribadimento della delega della giustizia di prima istanza alle autorità sociali e politiche periferiche. In tal modo viene sancito e rafforzato il sostanziale squilibrio dei rapporti sociali: l'esercizio della giustizia da parte del re esprime certo una vocazione riequilibratrice, ma soltanto sul piano virtuale (docc. 8 e 9).

In realtà la crescita della funzione giurisdizionale risponde a esigenze e obiettivi di tipo diverso. In primo luogo offre all'autorità centrale larghi margini di iniziativa, soprattutto poiché le consente di insinuarsi - a seconda della coesione delle élites periferiche - nelle maglie locali del potere ed estendere così il proprio controllo su realtà sociali teoricamente sottratte alla sua prerogativa. Di più, con la presenza di un giudice dipendente dal centro il sovrano è in grado di offrire una risorsa politica ai suoi fedeli per sopraffare uno schieramento rivale (doc. 6).

Nell'imporsi quale garante dell'ordinata composizione dei conflitti sociali l'autorità centrale rivela una dominante preoccupazione per il controllo dell'ordine in un tempo nel quale i tribunali e le stesse corti regie hanno una scarsa capacità di imporsi ai poteri locali: ancora all'inizio del secolo XVI, ad esempio, una lite per il possesso di un feudo può condurre i contendenti alla guerra privata, con battaglie, assedi e saccheggi, nel caso che la sentenza non venga accettata dal perdente. Dietro la costante preoccupazione dell'ordine, tuttavia, è possibile scorgere la tendenza, cruciale, dello stato a detenere il monopolio della violenza nei confronti della nobiltà periferica. Ne è un segno, ad esempio, l'estensione del delitto di lesa maestà nel primo Cinquecento, che giungerà in Inghilterra a toccare i discorsi ingiuriosi nei riguardi dell'autorità sovrana. Occorre notare come, nel periodo in esame, questa non sia che una linea di tendenza, poiché la nozione stessa di un ordine gestito dallo stato rimarrà inefficace per tutto l'ancien régime. A maggior ragione, lo è nella società quattro e cinquecentesca: i nobili inglesi continueranno ancora a lungo ad accompagnarsi a scorte spesso imponenti di servitori armati mentre quelli francesi, come si vedrà meglio oltre, durante le guerre di religione troveranno modo di manifestare la propria vocazione alla gestione privata della violenza. È in ogni caso il germe di un profondo mutamento culturale quello contenuto nell'estensione della giustizia del re: l'idea che debba esser l'autorità sovrana a determinare il diritto di definire quali comportamenti rientrino nella norma e quali rappresentino invece una devianza. Lo stato cioè tende a creare un concetto di ordine che si sostituisce ai rapporti ispirati dalla lealtà allo status e alle solidarietà territoriali (doc. 6).

Un'ulteriore linea di tendenza che si profila dietro l'estensione della giustizia regia è rappresentata dalla possibilità di accentrare funzioni di controllo nell'immediato entourage del sovrano, creando tribunali alle dirette dipendenze dell'organo supremo del governo, il consiglio del re: ne sono un esempio la Camera stellata dei Tudor, il Gran Consiglio di Luigi XII; la presenza del sovrano vi conferisce un'autorità superiore a quella di qualsiasi altra corte, e significativamente queste corti avranno giurisdizione su reati legati all'ordine «pubblico».

Non deve infine stupire che questo sia l'unico settore in cui lo stato manifesta una strategia precisa d'intervento, come conferma la stessa entità della legislazione sull'argomento, che nel caso francese assumerà la forma di un corpo articolato di norme che costella il primo Cinquecento.

Due sono ancora le considerazioni che si possono trarre da questi aspetti della prerogativa regia tra Quattro e Cinquecento. La prima è che la prevalenza della sfera giurisdizionale attribuisce un carattere specifico alle istituzioni statali: ognuna di esse, e ciascuna in ogni suo grado, si presenta con aspetti e prerogative molteplici - dalla finanza all'amministrazione - tra le quali è tuttavia dominante la funzione giurisdizionale. Comporre le dispute tra suddito e suddito, tra suddito e re, è un attributo essenziale del potere (docc. 13 e 19). Perciò l'amministratore è anche un giudice, e viceversa. Infine la struttura stessa della giustizia - demandata ad autorità locali quella di prima istanza, accentrata nei suoi gradi superiori - suggerisce l'immagine di un potere centrale dotato sì di forza, ma di scarsa efficacia periferica. Una struttura nella quale il sovrano deriva la sua forza locale dalla capacità di svolgere un'opera di mediazione in un complesso di rapporti sociali fortemente squilibrati.


3. Anche da questo punto di vista assumono decisivo interesse i rapporti tra le autorità del centro e quelle della periferia. La sede istituzionale in cui questi tradizionalmente si esprimono è costituita da assemblee rappresentative di ceto che assolvono alla funzione di esprimere il consenso dei contribuenti più autorevoli al gettito di un donativo da accordare al sovrano, con la possibilità, in cambio, di rendere pubbliche le osservazioni dei sudditi sull'andamento del governo. Si tratta di istituzioni grandemente diffuse, conosciute con nomi diversi (Commons nel regno inglese, États nelle regioni di lingua francese, Cortes in quelle iberiche, Parlamenti o Senati in quelle italiane, Stände nelle tedesche) e diversamente interpretate dagli storici (cfr. Nota conclusiva) nella loro funzione interlocutoria del potere regio.

Senza dubbio le assemblee rappresentative traggono origine da una ricerca di consenso da parte dei principi territoriali nel periodo di più evidente sfaldamento delle lealtà di natura vassallatica al fine di ottenere il riconoscimento della propria supremazia politica. È significativo, in ogni caso, che nella procedura delle assemblee tale riconoscimento avvenga in forme che possiamo definire «contrattuali»: la stessa autorità alla quale si concede il donativo, o contributo fiscale suddiviso per territori, ha il dovere di rispettare le leggi di consuetudinarie della società politica - privilegi, usi, costumi, ecc. La lealtà di un territorio al sovrano e la fedeltà di quest'ultimo alla sua «costituzione» politica sono cioè legate a filo doppio, come è ben illustrato dal caso della Catalogna e dell'Aragona, dove particolarmente forte fu la capacità delle élites rappresentate di limitare la supremazia del re (doc. 11).

Una simile generale condizione si stempera tuttavia a seconda della forza e della capacità rappresentativa della singola istituzione. A questo riguardo, soprattutto, va sottolineata la peculiarità inglese, nella quale l'assemblea, o Camera dei Comuni, riesce a mantenere la prerogativa di rappresentare tutto il regno e di parlare in suo nome. È soprattuto il fatto di essere un'assemblea generale a dare ai Comuni una tale capacità di contrattare con il sovrano il gettito globale delle imposte richieste, da trasformarsi in un canale costante di comunicazione tra centro e periferia: essa infatti corona la carriera dei giudici di pace periferici, e consente in tal modo alle élites locali di esprimere pubblicamente la propria opinione politica. In un processo bisecolare che sommariamente seguiremo, essa costituirà un veicolo di modernizzazione politica unico in Europa (doc. 22).

Diverso è invece il caso del continente, dove è evidente come le assemblee rappresentative esprimano una sorta di compromesso tra autorità centrale e poteri periferici. Paradossalmente infatti i rappresentanti inviati alle assemblee appartengono a ceti in genere esenti dal pagamento del tributo. Tranne forse i procuratori delle città castigliane, che vi erano soggetti almeno in via di diritto, nel resto del continente i rappresentanti dei primi due ordini, clero e nobiltà, godono di esenzioni fiscali variabili ma consistenti, talvolta addirittura del privilegio totale. Nel caso francese, ad esempio, la nobiltà presente alle assemblee è soprattutto la nobiltà media, che non segue i grandi a corte e non gode di pensioni e gratifiche regie. Un ceto, dunque, che non ha alcun interesse a proteggere le libertà «parlamentari» delle assemblee (di parola, ecc.) e che si pone perciò come obiettivo quello dell'affermazione della propria influenza sulla regione di provenienza. In tal modo, di fronte al rafforzamento del potere centrale essa riduce la propria strategia alla protezione dei propri «soggetti» dall'esenzione regia (doc. 18), oppure si propone quale contraddittorio garante dell'ordine locale (doc. 15). Considerazioni simili si possono svolgere a proposito del terzo ordine, in genere rappresentato da elementi del patriziato urbano: tuttavia, e nonostante siano più direttamente toccati dal problema della tassazione, neppure questi ultimi manifestano la tendenza a fare delle assemblee la sede della contrattazione dell'imposta. La logica prevalente è quella del rapporto diretto con il re alla ricerca di esenzioni e privilegi, locali o addirittura individuali (doc. 11/b). Così, poiché l'accordo privato resta il più proficuo, spesso i poteri decisionali dei rappresentanti delle città vengono debitamente limitati dalle autorità municipali, al fine di evitare per quanto è possibile innovazioni al regime fiscale che si ritiene più utile contrattare altrove (doc. 12/c). Dunque, i rapporti tra centro e periferia messi in luce dalla procedura delle assemblee sono permeati da una diffusa coscienza politica regionale, particolaristica, e prevalenti appaiono legami verticali e diretti con l'autorità centrale. E, di fatto, nel continente le assemblee rappresentative si rivelano incapaci di adattarsi alla dimensione territoriale effettivamente raggiunta dalle monarchie. La realtà politica che esse presuppongono resta, costantemente, la realtà politica provinciale o regionale. Ciò è vero tanto per le aree in cui la fine del Quattrocento vede formarsi un'espansione statale, come Francia e Spagna, quanto per altre aree, come quelle tedesche, nelle quali l'autorità principesca si attesta intorno a dimensioni regionali. Il caso francese è particolarmente significativo: le adunanze generali degli Stati sono creazioni effimere e artificiose sperimentate dall'autorità monarchica nel corso dell'acuta crisi dinastica del primo Trecento, e non dureranno oltre il secolo successivo se non in periodi di crisi altrettanto profonda, le guerre di religione. La loro realtà più vivace la si coglie invece nelle adunanze provinciali, durevolmente sentite per tutto l'ancien régime nelle regioni periferiche, cioè nei principati accorpati dalla monarchia durante la sua fase espansionistica nella seconda metà del Quattrocento. In questa fase, anzi, la forza delle strutture politiche provinciali assume un significato che contrasta con tale espansione: negli stessi Stati generali di Tours del 1484 (docc. 8, 15 e 21) i deputati si divideranno non per ordini ma per sezioni territoriali, esprimendo la preoccupazione di ogni provincia di non veder accresciuta la propria quota d'imposta.

Dunque, un veicolo smagliante ma rituale per l'affermazione di solidarietà e di una «coscienza» politica provinciale. In definitiva, il perdurare delle istituzioni rappresentative esprime la coesione delle élites periferiche intorno all'ambito provinciale del proprio dominio nel tentativo di sottrarsi allo sforzo uniformatore del sovrano: questo è il senso della costanza con cui si ribadisce ancora nel primo Cinquecento che la legge, cioè qualsiasi normativa, non può che avere natura regionale (doc. 12/a). E questa è altresì la ragione della difficoltà per la Corona di imporre uniformità istituzionale capace di rafforzare il governo centrale: anche quando questa viene intrapresa, come in Francia per la redazione delle Coutumes, cioè del diritto consuetudinario, i connotati culturali tanto profondamente radicati nelle élites locali impediscono un'effettiva opera di uniformazione legislativa e, anzi, accentuano e cristallizzano la regionalizzazione della politica (doc. 16). A ben guardare, in ogni caso, gli stessi poteri centrali nelle monarchie continentali mostrano una scarsa propensione alla uniformazione istituzionale della periferia, e senza dubbio non dispongono ancora della forza necessaria a quello che, come vedremo meglio in seguito, sarà lo scontro cruciale da cui discenderà l'evoluzione politica. Di fatto, e data la forza e la coesione delle élites locali, il potere centrale sembra teso a mediare costantemente con le realtà provinciali per mascherare la propria debolezza politica. Lo si riscontra esaminando il ruolo del rappresentante locale del re, il governatore francese o il viceré spagnolo. Nel primo prevale, almeno fino alla metà del Cinquecento, la propensione a fungere da canale istituzionale della redistribuzione delle risorse. Membro della grande nobiltà, egli fonda il proprio potere regionale su almeno tre ambiti clientelari: quello costituito dalla corte domestica, spesso composta di alcune centinaia di persone, che offre possibilità di prestigio ai rampolli della nobiltà locale. Un secondo canale è rappresentato dal corpo locale della gendarmerie, che egli comanda e nella quale la nobiltà trova uno sbocco vantaggioso. Un terzo accontenta una clientela specificamente politica, e si manifesta nell'influenza che il governatore esercita sulle cariche locali, e che aumenterà vertiginosamente d'importanza con la crisi della monarchia nella seconda metà del Cinquecento.

Minor uso clientelare della distribuzione di cariche e di risorse politiche, e un più sapiente gioco di contrappesi sono presenti nel sistema viceregale, la cui origine aragonese medievale tradisce una prerogativa di rispetto delle consuetudini locali da parte del potere regio. La presenza del viceré non reggerebbe in genere l'urto con gli interessi locali (doc. 14) se l'operato del diretto rappresentante dell'autorità sovrana non fosse controllato centralmente da una giunta di rappresentanti, la Consulta, con il compito istituzionale di difendere gli interessi e il corpo di consuetudini della provincia.

Assenza di assemblee rappresentative centrali e mediazione con le élites locali più coese regolano dunque i rapporti tra centro e periferia nelle monarchie continentali. Nel caso inglese, invece, alla funzione di contrappeso istituzionale che vanno assumendo i Comuni occorre accostare un diverso modello di governo della periferia. Il nucleo centrale del regno gode di una compattezza istituzionale ereditata dalla monarchia medievale: il potere pubblico viene infatti esercitato in modo omogeneo attraverso la delega a nobili luogotenenti e ufficiali di nomina regia, gli sceriffi, cui si affiancano con peso crescente i giudici di pace. L'espansione cinquecentesca della monarchia Tudor avverrà invece verso regioni dalla specifica tradizione politico-culturale - Galles, Irlanda e Nord - secondo modelli di conquista coloniale che imporranno strutture amministrative particolari, sotto l'immediato controllo del re: nasceranno così nel 1536 il Consiglio del Galles e nel 1569 il Consiglio del Nord con il compito specifico di reprimerne e incanalarne le specificità culturali, sottraendole al controllo delle élites autoctone (doc. 17).


4. Una simile configurazione dei rapporti tra autorità centrali e periferiche possiede rilevanti conseguenze per lo sviluppo del settore decisivo dell'organizzazione statale della prima età moderna: la fiscalità. La prima decisiva osservazione riguarda i gruppi sociali toccati dalla fiscalità del re: l'Inghilterra si distingue dalle monarchie continentali per le peculiarità del comportamento dell'aristocrazia di fronte alla fiscalità centrale: qui infatti l'insieme dei gruppi sociali proprietari, dallo strato gentilizio al più ristretto gruppo dei Pari, partecipa nel primo Cinquecento al pagamento dell'imposta. Al contrario, nel continente la nobiltà ne è esente in misura più o meno totale. Economicamente impoverita, pressata dall'incremento delle proprie esigenze monetarie causato dall'inflazione e dalla crescente dimensione del mercato, essa non può che tentare di aumentare i canoni dovuti dai propri censuari. Tale risorsa è minacciata dall'aumento della fiscalità del re, che erode la quantità di surplus disponibile. Si assiste così al delinearsi di una nuova configurazione dei rapporti sociali nelle campagne, frutto di un preciso rapporto tra Corona e popolazioni rurali: dietro l'appoggio che la prima fornisce all'emancipazione dal servaggio è da cogliere infatti il tentativo - riuscito - di assicurarsi una base fiscale di dimensioni eccezionali a tutto svantaggio della classe signorile. Si può comprendere dunque come all'origine stessa del consenso contadino all'imposizione fiscale «straordinaria», dovuta al re in quanto autorità sovrana e non come signore feudale diretto, stia un rapporto di tipo contrattuale: il ridimensionamento del potere immediatamente gravante sulle popolazioni contadine e la continuità del possesso dei fondi costituiscono le contropartite più allettanti che l'autorità regia è stata in grado di offrire (doc. 18).

Per questi motivi complessi la monarchia francese riesce a imporre fin dalla metà del secolo XV, e con una facilità sorprendente per i contemporanei, la destinazione di una parte rilevante del surplus contadino verso un potere lontano e non uniformemente forte. La monarchia francese sfrutta infatti la forza politica di cui gode nel nucleo centrale del suo dominio imponendo la cosiddetta «taglia reale», imposta diretta sulla proprietà fondiaria non nobile, la cui esazione viene perciò affidata a funzionari stipendiati dal re, gli eletti, che ne stabiliscono la ripartizione senza il consenso esplicito delle autorità periferiche, all'interno di una circoscrizione territoriale, l'élection (doc. 19). Al contrario dei «paesi d'elezione», nelle regioni in cui tale forza politica è più limitata, cioè dove l'autorità del re è più recente o più lontana nello spazio, la necessità del consenso delle élites locali impone il ricorso alle assemblee provinciali, dove si contrattano il gettito e la ripartizione nelle comunità interessate di una «taglia personale», fondata cioè sullo status sociale dei contribuenti. In questo caso l'esazione dell'imposta sarà affidata a quelle stesse autorità periferiche, in genere esenti, che vi hanno consentito, tramite una commissione temporanea (paesi d'Etat).

Il contrasto tra questi diversi regimi fiscali è accentuato poi dalla presenza, già segnalata, di accordi particolari che ogni singolo corpo sociale può stipulare direttamente col re: significativamente, ad esempio, nella fase di maggior intensificazione dell'imposizione diretta, grosso modo corrisponde al regno di Luigi XI (doc. 21), le città riescono a conquistare privilegi fiscali dalla conseguenza univoca: scaricare sulle campagne, reali produttrici della ricchezza sociale, l'onere del mantenimento delle istituzioni centrali, prima fra tutte l'esercito.
L'imposta diretta non è tuttavia l'unico strumento della fiscalità regia, e in ogni caso resta incapace di coprire il crescente volume di spesa dello stato, ma soprattutto non è in grado di raggiungere tutti i contribuenti. Dalla fine del Medioevo la monarchia ha adottato a questo scopo contribuzioni indirette, incorporate nel prezzo di servizi insostituibili, quali il sale (gabella), o derrate di consumo universale (aíde). Anche questi espedienti, pur allargando la base fiscale, si dimostrano incapaci di limitare la sperequazione, poiché i consumi gravano in modo differenziato sull'economia familiare dei diversi gruppi sociali e in certi casi, come la gabella, possono aver l'effetto di bloccare attività cruciali in un'economia non monetaria, prima fra tutte l'allevamento estensivo del bestiame.

Identiche tendenze si producono in Spagna, sia pure sotto l'influenza di condizioni iniziali difformi. In primo luogo l'assenza di un'imposizione simile alla taglia accentua l'eterogeneità dei regimi fiscali: la capacità contrattuale della nobiltà locale consente per esempio al regno d'Aragona di sottrarsi alla fiscalità centrale, poiché ogni aumento contributivo richiede l'unanimità del consenso delle Cortes di ciascuna delle sue regioni. Il contributo aragonese resta così sostanzialmente inalterato per tutto il periodo moderno, e l'inflazione contribuirà nel corso del Cinquecento a farlo decrescere in termini reali. Il medesimo regime e gli stessi esiti si hanno nei domini aragonesi del Mediterraneo, e anche la Navarra, conquistata nel 1512, godrà di una larga esenzione. È quindi il regno di Castiglia a sopportare l'onere crescente della fiscalità dei re cattolici e di Carlo V: anche al suo interno, tuttavia, la capacità contrattuale dei singoli gruppi sociali determina lo squilibrio della pressione fiscale. L'esenzione totale della nobiltà è certo il segno della sua potenza economica, uscita indenne dall'austerità dei primi anni della nuova monarchia: di conseguenza la base fiscale castigliana sembra restringersi alla popolazione delle città. Anche qui, in ogni caso, un potente vincolo istituzionale - il consenso delle Cortes al donativo - ne limita la capacità contributiva, costringendo i re cattolici ad aggirare l'ostacolo sfruttando il clima della Reconquista e l'esigenza di ordine sociale, e a fare, ad esempio, delle Hermanidades un canale di imposizione fiscale sulle città sottratto al controllo delle Cortes. Anche in Spagna, naturalmente, il canale privilegiato per gli espedienti fiscali è costituito dalla contribuzione indiretta, l'alcabala, che conosce un'applicazione vastissima, dalle conseguenze più acute di quelle sentite in Francia, poiché giungerà a colpire, soprattutto a partire dal 1538 con l'introduzione della sisa, le derrate alimentari di più largo consumo.

Un'ulteriore divergenza tra politica fiscale spagnola e francese è costituita dalla diversa utilizzazione del clero come base fiscale. In Francia esso è usato soprattutto - in quanto corpo - come base di consenso politico: se ne garantisce la partecipazione alle assemblee rappresentative e nel contempo si limita l'autorità del pontefice sul suolo francese, favorendo il potere decisionale dei concili nazionali. In Spagna il clima della Reconquista facilita la pressione fiscale dello stato sul clero. La corona potrà, in tempi successivi, impadronirsi di un terzo delle decime ecclesiastiche, di un subsidio sulle rendite ecclesiastiche e infine della decima percepita sul miglior appezzamento; ma il clero avrà una parte centrale nell'imposizione della cruzada, dovuta da ogni suddito per contribuire alla cacciata dei mori mediante l'acquisto di una bolla d'indulgenza personale.

In sintesi l'assenza di un consenso pieno all'imposta, determinata dalla posizione concorrenziale assunta da aristocrazia e corona rispetto al prelievo del surplus dalle campagne, così come l'assenza di organismi centrali per concordare con i sudditi le dimensioni del gettito fiscale, condizionano pesantemente la politica fiscale delle due monarchie continentali. Persistenza di regimi molteplici e sovrapposti, sperequazione territoriale e sociale riflettono la sostanziale debolezza dell'autorità centrale, che si affida a una ripartizione dell'imposta fortemente legata agli squilibri della distribuzione locale del potere. Soprattutto, infine, la macchina fiscale, per la sua eterogeneità, riesce solo in parte a compensare i costi di gestione dell'imposta stessa, e il costo di una ormai complessa organizzazione istituzionale.

Il regime fiscale inglese si distingue invece per la sua relativa esiguità, e per la presenza di un momento centrale di contrattazione di una parte almeno del gettito fiscale. Non solo la corona inglese può contare su un gettito molto minore di quello francese o iberico, ma l'opposizione parlamentare ne impedirà l'aumento fin dall'inizio del regno di Enrico VIII negli anni venti del Cinquecento (doc. 22). Neppure nel caso inglese, dunque, l'imposizione diretta esaurisce le risorse su cui si fonda l'apparato statale: ma una serie di condizioni particolari faciliterà una soluzione originale del problema. Da un lato infatti, la corona ha di fronte un'aristocrazia feudale straordinariamente indebolita dalla sconfitta nelle guerre civili quattrocentesche. Così il regno di Enrico VII vede attuarsi una ferma politica di controllo dell'aristocrazia nel quadro della restaurazione del dominio regio: la tutela dei nobili, orfani o inabili, viene assunta in prima persona dal sovrano, costituendo una notevole fonte di entrate e la possibilità di ricompense a servitori fidati; inoltre l'esito della guerra delle Due Rose consente di incamerare possedimenti quali il ducato di Lancaster, che offrono alle finanze centrali non solo un cespite ragguardevole, ma anche un efficiente modello di amministrazione burocratica. La corona, in ogni caso, non approfitta solo della debolezza dell'aristocrazia feudale. Lo sviluppo della produzione tessile consente lo sfruttamento delle dogane e di altri tipi di imposizione indiretta: sempre Enrico VII, ad esempio, ottiene dai Comuni il consenso all'incameramento di un'imposta sulle merci transitanti nei porti, il tunnage and poundage. Anche qui, tuttavia, la congiuntura politica cinquecentesca renderà necessario, come si vedrà tra breve, ricorrere a nuove fonti di entrata attraverso l'incameramento della proprietà ecclesiastica.

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Ultimo aggiornamento: 01/03/2006