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Didattica > Fonti > Stato e società nell'ancien régime > II, Introduzione | |||||||||
FontiStato e società nell'ancien régimea cura di Angelo Torre © 1983-2006 – Angelo Torre Sezione II - I tentativi di riorganizzazione amministrativa e la loro crisi (1520-1560 circa)Introduzione1. I mutamenti nella scala delle operazioni che caratterizzano la crisi del sistema feudale fondano sempre più il potere del sovrano e delle sue istituzioni sulla tassazione di sudditi legati non solo al suo dominio diretto, bensì al carattere sovrano della sua autorità. Una simile trasformazione impone a sua volta una serie di mutamenti del modello di amministrazione. Infatti la monarchia medievale può essere schematicamente intesa come un centro di raccolta di rendite ricavate dal dominio personale del sovrano, e l'amministrazione è tesa ad assicurarne la continuità con l'offerta di servizi, quali, ad esempio, la protezione e la giustizia. La congiuntura della prima metà del Cinquecento rappresenta da questo punto di vista una svolta cruciale nella quale giungono a compimento i processi di ridefinizione giuridica dell'autorità, delle competenze e delle prerogative del sovrano, che abbiamo sommariamente illustrato nella sezione precedente. In virtù di questo processo si sviluppa una serie di innovazioni politiche di grande rilevanza, che non risiedono tanto nell'elaborazione di nuove e più raffinate nozioni giuridiche, quanto nel tentativo di dare applicazione concreta ed empirica a nozioni da lungo tempo elaborate. In altri termini, il problema degli uomini di governo del primo Cinquecento è quello di trovare nella prassi quotidiana il modo di far funzionare le nuove dimensioni della macchina amministrativa e, soprattutto, di adeguarle ai meccanismi periferici del potere. Oltre l'estensione della prerogativa regia, cui abbiamo accennato sopra, tali innovazioni investono sia l'organizzazione del governo centrale, sia il confronto con i poteri territoriali estranei all'ambito regio — primo fra tutti quello della Chiesa —, sia il controllo sulle istituzioni politiche periferiche. Non si tratta di tematiche indipendenti, bensì, come vedremo, di aspetti diversi di un unico problema di fondo: la costituzione di un'ossatura finanziaria capace di far fronte all'aumento delle dimensioni e dei costi dell'apparato centrale del potere, che si avverte e si intensifica nei decenni centrali del secolo. Tant'è che laddove, come nell'area germanica, questi sforzi falliscono, per l'incapacità dell'autorità imperiale di avviare un'effettiva costruzione di un apparato giudiziario e fiscale centrale capace di favorire la penetrazione all'interno delle maglie periferiche del potere, la formazione di apparati statali forti e dinamici risulterà ritardata di almeno un secolo e mezzo (doc. 1). In questo contesto la comparsa di un agente «esterno» quale la lotta religiosa che si sviluppa — sia pure con caratteri, modi e tempi svariati — con il diffondersi delle idee riformate, influenza profondamente l'assetto del potere statale, accentuando di volta in volta gli elementi di forza e di debolezza presenti in ciascun quadro istituzionale. Per quanto riguarda l'organizzazione del governo centrale occorrono alcune osservazioni preliminari. È questo infatti un tema preferito dalla storiografia giuridica e costituzionale, che sottolinea come nella congiuntura della prima metà del Cinquecento si assista a una progressiva specializzazione di funzioni negli ambiti alle immediate dipendenze del sovrano. Secondo tali interpretazioni (cfr. Nota conclusiva) si formerebbero in questo periodo sezioni particolari negli organi centrali del governo, in particolare nel Consiglio del re, sulla base della competenza amministrativa, e si darebbe quindi avvio a un funzionamento burocratico e «moderno» dell'apparato centrale del potere. Dal punto di vista della storia sociale è difficile condividere un simile e netto ottimismo. Piuttosto, ci si trova di fronte a una serie di mutamenti informali e impliciti, spesso carichi di contraddizioni. È il caso degli stessi protagonisti di tali trasformazioni, i servitori del re: le monarchie cinquecentesche prediligono infatti, anche per le cariche più alte e decisive, individui non provenienti dalla grande nobiltà, preferiti non soltanto per le competenze specifiche — conoscenza delle lingue straniere o delle tecniche di contabilità — ma piuttosto perché si vede nelle loro origini più o meno umili la garanzia di una docilità e di una fedeltà che il nobile, rappresentante di tradizioni di potere territoriale estranee all'ambito regio, più difficilmente può assicurare. Tuttavia i nuovi funzionari, pur dotati di solide basi culturali, se non addirittura legati alle avanguardie umanistiche o erasmiane, non sfuggono a modelli di comportamento che ne smentiscono in parte le qualità innovative. Mantengono innanzitutto un rapporto personalistico con il sovrano, conservando un concetto di fedeltà del tutto coerente con quello della società medievale, e sfruttano l'esercizio della funzione pubblica piegandola a strategie familiari di accumulazione di potere territoriale con l'acquisto di terre, signorie e titoli. Il loro comportamento rivela un inestricabile intreccio tra meccanismi di governo e strutture sociali: la specifica gerarchia della società di ordini impone che il rapporto tra sovrano e singolo individuo o corpo sociale sia determinato dallo «stato» di quest'ultimo, cioè dalla sua posizione nell'organismo sociale complessivo. Perciò l'ufficio non viene definito come mansione o come servizio, bensì come dignità; è in stretta relazione con la persona che lo ricopre, e ha perciò un'ineliminabile natura patrimoniale. Pur entro questi limiti, le monarchie del primo Cinquecento mostrano una chiara tendenza alla razionalizzazione dei metodi di governo. La miglior illustrazione di questo aspetto è offerta dal caso spagnolo: negli anni venti, e sotto la spinta del cancelliere di Carlo V, Mercurino da Gattinara (sez. prima, doc. 20), alla struttura «polisinodale» dell'impero spagnolo, caratterizzata cioè da una serie di Consigli territoriali (doc. 20), vengono affiancati corpi esecutivi più efficenti e compatti, quali il Consiglio delle finanze, il Consiglio di guerra e il Consiglio di stato (doc. 18), dotati di responsabilità globale a carattere interregionale. È in questo quadro che si afferma la nuova figura del segretario, destinato ad assumere una funzione cruciale nel sistema di comunicazione tra centro e periferia, esautorando la tradizionale figura del cancelliere, dal carattere più spiccatamente consultivo e notariale (doc. 19/a). L'ascesa del segretario esprime una tendenza generale dello stato nella prima metà del Cinquecento: con gli anni quaranta sarà infatti presente sia nella monarchia inglese, dove tenderà ad assumere i contorni di una precoce figura di ministro dotato di responsabilità politica (doc. 19/c), sia in quella francese, dove insieme a distinte responsabilità di carattere territoriale un gruppo di segretari si occuperà collegialmente della guerra (doc. 19/b). In Spagna il segretario fonda in realtà il suo grande potere sulla prevalenza assunta, soprattutto in corrispondenza della crisi del 1521-22 e dell'aumento del volume di spesa imposto dalle guerre d'Italia, dalle preoccupazioni finanziarie: l'esempio più chiaro a questo proposito è fornito da Francisco de los Cobos, segretario di Carlo V, la cui onnipotenza è dovuta alla funzione di consigliere finanziario del sovrano assunta all'inizio degli anni venti (doc. 10/a). In realtà nell'ascesa del segretario si può ravvisare il riflesso di processi innovativi che investono il settore finanziario, e che trovano espressione nel tentativo di centralizzare i canali di reperimento di fondi concretizzatosi nella riforma delle contadurias majores operata da Carlo V nel 1523 (doc. 10/a) e in quella quasi contemporanea di Francesco I, tradottasi nella creazione del Trésor de l'Épargne: entrambe le iniziative sono infatti dettate dall'esigenza dei due sovrani di trattenere presso di sé denaro di cassa per le necessità «straordinarie». Al di là dei mutamenti formali, si ha in ogni caso la sensazione che la presenza dello stato prenda a manifestarsi su piani più complessi e generali: è quanto si avverte prendendo in esame le reazioni che esso innesca in un caso, come quello spagnolo, in cui una rapida espansione territoriale dilata in breve tempo poteri e prerogative dell'autorità centrale. L'inizio del regno di Carlo V è infatti segnato da una rivolta delle città castigliane, nella quale converge una pluralità di reazioni e fermenti. In primo luogo la ribellione dei comuneros del 1520-21 riflette un'ondata di xenofobia popolare seguita dall'arrivo del sovrano asburgico in terra spagnola insieme a una corte composta in gran parte di stranieri, fiamminghi, borgognoni e italiani, che si dimostrano in breve inclini a ogni genere di estorsioni finanziarie: in questo senso il movimento comunero rappresenta il primo fermento protonazionale della storia europea. In secondo luogo la rivolta si dirige contro la presenza di magistrati quali i corregidores, in genere appartenenti alla piccola nobiltà, che fin dal tempo dei Re Cattolici il potere centrale aveva utilizzato per l'amministrazione delle città: da questo punto di vista si può parlare di una specifica risposta municipale all'assetto istituzionale della monarchia che esprime senza dubbio il modo in cui l'espansione del potere centrale veniva intesa dai sudditi. La stessa denominazione del movimento — comunidades — rinvia infatti a un'accezione ribellistica, l'insieme di abitanti liberi di un medesimo Comune riuniti in una forma di alleanza giurata ereditata dalla tradizione medievale, con l'intento di ritornare a modalità di autonomia amministrativa della comunità urbana precedenti al consolidamento del potere monarchico. Nello stesso tempo, tuttavia, i comportamenti dei rivoltosi, si tradussero nella formazione di governi municipali, le juntas: in esse trovavano voce le masse popolari artigiane, in cui va ravvisata una reazione all'aristocratizzazione dei regimientos oligarchici che governavano le città. Fu certo questo aspetto radicale della rivolta a determinare il definitivo schieramento della nobiltà nel campo regio, dopo una prima fase nella quale, insieme alle oligarchie cittadine, essa aveva impresso al movimento un carattere apertamente antimonarchico che si rifaceva alla tradizione delle guerre civili quattrocentesche. Di fatto ciò determinò la sconfitta militare del movimento di rivolta, e con esso l'eliminazione di ogni forma di costituzionalismo contrattuale nella Castiglia, condannando le Cortes, che di fatto rappresentavano soltanto le città, a un ruolo sempre più marginale nella vita politica castigliana. Inoltre la distruzione della rivolta dei comuneros implicò un fatto unico in Europa: la sconfitta militare delle città contro uno schieramento monarchico-aristocratico. Il potere centrale si sarebbe riorganizzato su queste basi anticittadine (doc. 2). 2. Si è detto sopra dell'atteggiamento empirico e dei tentativi di concreta applicazione di norme giuridiche nella prassi quotidiana del potere che contraddistinguono le monarchie nella prima metà del Cinquecento: la problematica religiosa costituisce al riguardo il campo di osservazione privilegiato di questo ambito cruciale dello sviluppo dell'apparato statale. Esso ha conosciuto tuttavia soluzioni divergenti a seconda delle situazioni: se è vero infatti che le relazioni con il papato riguardano tutte le autorità sovrane di questo periodo, è altrettanto certo che un fenomeno quale la Riforma protestante scatenò reazioni di incalcolabile portata, accelerando e, portando a termine il processo di distacco delle autorità sovrane da organismi politici sovranazionali: anche qui, tuttavia, il peso assunto dai problemi religiosi ebbe un peso diverso a seconda delle formazioni statali prese in considerazione. Ciò emerge con chiarezza se si confrontano le strategie monarchiche alla luce del loro diverso coinvolgimento con i movimenti riformati. A questo fine è necessario distinguere il caso spagnolo e quello francese, che esemplificano i rapporti tra sovrani e Chiesa nella situazione precedente lo sviluppo della lotta religiosa, da quello inglese e da quello germanico, nei quali la presenza della Riforma assunse contorni specifici, mettendo in moto dinamiche peculiari di rafforzamento dell'autorità sovrane e delle autorità territoriali. Per quanto riguarda la monarchia spagnola, essa è caratterizzata da rapporti particolarmente stretti con la curia romana. In virtù della sua posizione geografica e del conseguente ruolo di estremo difensore della fede cristiana, il sovrano spagnolo gode di privilegi particolari; non soltanto egli è il massimo detentore di terre ecclesiastiche dell'Occidente europeo, e non soltanto il clero spagnolo contribuisce in misura eccezionale al mantenimento dell'apparato regio di potere, ma anche sul piano politico il sovrano si è conquistato la capacità di controllare le nomine dei seggi episcopali vacanti (doc. 3). Le vicende cinquecentesche accentueranno tale ruolo privilegiato: la scoperta dei territori americani farà infatti della struttura imperiale spagnola un insostituibile veicolo di espansione della Chiesa romana nel nuovo mondo. Ma il sovrano spagnolo si appoggerà alla Chiesa e alle sue istituzioni per fronteggiare la sua specifica condizione di debolezza di fronte a un insieme disperso ed eterogeneo di popolazioni caratterizzate da spinte centrifughe e da solide resistenze alle proprie strategie accentratrici, nonché dalla marcata diversità etnica e culturale (nella stessa penisola iberica convivono popolazioni moresche, neoconvertiti ebraici, popolazioni di origine celtica). Lo strumento sarà del tutto originale: un tribunale dell'Inquisizione affidato alla Chiesa ma assoggettato politicamente al sovrano attraverso un Consiglio centrale istituito fin dal 1483. L'Inquisizione spagnola (estesa in Italia ai soli domini siciliani) costituisce così un potente veicolo di uniformazione, culturale prima che politica, a disposizione dell'autorità centrale (doc. 4): essa di fatto fungerà da strumento di soffocazione delle autonomie locali, soprattutto sul piano culturale. Attraverso di essa verranno represse le minoranze moresche a partire dal 1492, quelle ebraiche (i conversos) negli anni venti del Cinquecento, mentre la stessa sorte toccherà agli esponenti della cultura illuminata (Alumbrados) nei decenni centrali, ai pur esigui nuclei riformati nella seconda metà del secolo e alle popolazioni moresche all'inizio del secolo XVII (doc. 13). Va in ogni caso osservato come l'opera di repressione delle minoranze culturali non vada ascritta alla sola azione inquisitoriale, ma affondi in tensioni profonde della società castigliana. Nel caso delle minoranze ebraiche, almeno, si è osservato come nel paese la repressione si accompagni a un movimento per la limpieza de sangre come attributo indispensabile per detenere alte cariche dello stato e della Chiesa: attraverso l'ossessione della linajudo, o del proprio lignaggio, la cristianità dei progenitori giunge a costituire un elemento cruciale nell'onore di un individuo. In tal modo, la repressione delle minoranze ebraiche favorì negli anni cinquanta la conquista del potere o quanto meno l'ascesa sociale di una piccola ed esclusiva classe di «vecchi cristiani» tradizionalisti, che avrebbe preparato e propugnato la chiusura culturale all'Europa caratteristica della Spagna della seconda metà del secolo. Meno nette sono invece le conclusioni che si possono trarre a proposito dell'opera di uniformazione politica promossa dal Consiglio dell'Inquisizione: mentre la storiografia di fine Ottocento ne faceva uno strumento di soffocazione politica dalle autonomie locali, oggi si tende a ritenere ancora mal conosciuto il suo impatto reale sulle singole realtà locali. Certo, in una realtà periferica come la Sicilia, dal punto di vista politico l'introduzione dell'Inquisizione disattende le istanze di inizio Cinquecento in favore di una riforma della giustizia, ma non per questo appare priva di consenso (doc. 15). In ultima analisi l'uso «assolutistico» dell'Inquisizione da parte di Ferdinando il Cattolico non riesce a superare la fragilità politica costitutiva dell'unione dinastica spagnola: piuttosto, il rapporto con la Chiesa ne fa emergere gli elementi di debolezza, mentre ne consolida invece i punti di forza. È una considerazione, questa, valida anche per la situazione francese. Qui i rapporti tra Corona e papato sono definiti dal Concordato del 1516 (doc. 5/a), ed esemplificano con chiarezza l'ormai raggiunta capacità della Corona di controllare la complessa aggregazione politica del regno. Infatti nel concordato si ribadisce la volontà del sovrano di affermare un deciso controllo sulle cariche vescovili, ponendo fine al regime dei candidati e dell'elezione, instaurando la norma della nomina regia da sottoporre solo successivamente all'approvazione papale. Di converso, la Corona rinuncia a una cospicua quota di surplus consentendo a che la Chiesa riscuota le «annate» in territorio francese. Ne risulta una limitazione dell'autonomia del clero gallicano, che costituiva invece un punto di forza dei concordati precedenti: a essa si appellarono ovviamente gli oppositori nel Parlamento di Parigi. Se la vicenda francese esprime il riuscito tentativo di rafforzamento politico della Corona, malgrado un relativo indebolimento finanziario, l'esatto opposto si ricava da un sommario esame della vicenda inglese. Qui il processo che dalla richiesta di divorzio di Enrico VIII conduce alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici e alla creazione di una Chiesa nazionale, è comunemente inteso come un espediente finanziario adottato da una Corona incapace di superare i vincoli imposti dai Comuni all'estensione della fiscalità regia (doc. 6). A ben guardare, tuttavia, si ricava l'impressione di un processo fortemente contraddittorio. Da un lato infatti le vicende della Riforma enriciana esprimono un evidente tentativo della Corona di usare il conflitto giurisdizionale con il papato per estendere ulteriormente la prerogativa regia. Il comportamento di Enrico VIII e dei suoi consiglieri non lascia dubbi in proposito: dopo la richiesta di divorzio del 1527, negata dal pontefice, egli si fa riconoscere nel 1531 protettore e capo supremo della Chiesa d'Inghilterra; nei due anni successivi impedisce che gli appelli delle cause ecclesiastiche vengano giudicati a Roma (doc. 6/a), e che le annate papali vengano trasferite all'esterno del regno. Nello stesso tempo giunge a estendere il delitto di lesa maestà agli oltraggi verbali alla propria persona (doc. 6/b); secolarizza i beni ecclesiastici (circa un quarto della terra inglese), costituisce nuovi settori di amministrazione, quali la Court of Augmentations (doc. 14/a), sottratti al controllo parlamentare, nel palese tentativo di costituire una base finanziaria sufficiente a mantenere un esercito indipendente dal parere e dal consenso del Parlamento. Queste e altre iniziative dal chiaro connotato assolutistico ottengono, è vero, il consenso dell'assemblea, ma è evidente come per Enrico VIII questa fosse una triste necessità a cui doveva adattarsi per l'assoluto bisogno di conquistarsi la legittimità e il seguito popolare in un'impresa audace quale la rottura con Roma: non sarebbe altrimenti comprensibile il suo tentativo di eludere il controllo parlamentare attribuendo ai proclami del suo Consiglio il valore di legge pari agli statuti approvati dall'assemblea (doc. 6/c). Se non sussistono dubbi sull'esistenza di progetti assolutistici nell'entourage del sovrano, è impossibile non riconoscere il fallimento, o almeno un profondo snaturamento. Di fatto la Corona inglese si trovava di fronte a due ostacoli insormontabili per un potere centrale dotato di consenso ma di scarsa forza politica: la sopravvivenza del diritto comune e di un'assemblea rappresentativa che, oltre a svolgere le canoniche funzioni di consenso all'imposta e di alta corte di giustizia, possedeva una prerogativa legislativa sconosciuta alle assemblee del continente, tale per cui le leggi approvate al suo interno avevano vigore statutario e costituivano parte integrante della legislazione comune. La necessità del sovrano di ottenere il consenso del Parlamento non solo rafforzò la posizione relativa di quest'ultimo, ma consentì una reale diffusione della polemica religiosa: negli anni quaranta si sarebbe fatta sentire l'influenza luterana, nei primi anni cinquanta quella calvinista, seguita da una dura reazione cattolica; ma soprattutto, fin dagli anni quaranta, l'aristocrazia inglese si sarebbe divisa in due fazioni contrapposte la cui lotta non era destinata a spegnersi che all'avvento di Elisabetta Tudor nel 1558. Di fronte allo sfaldarsi dell'ordine sociale interno la Corona avrebbe preso la decisione fatale di disperdere le proprie finanze in imprese militari nel continente, con esito peraltro disastroso. In tal modo l'avventura della Riforma si concludeva con la vendita delle terre sottratte alla Chiesa e con una definitiva debolezza finanziaria della Corona. Di fatto la serie di avvenimenti qui sommariamente ricordati doveva provocare il fallimento di quello che era stato il vero asse portante della politica dinastica dei Tudor: fino all'intorno degli anni quaranta, infatti, la Corona aveva puntato alla sostituzione dei magnati feudali sopravvissuti alla guerra civile con una nuova aristocrazia legata alla corte. La vecchia nobiltà, tuttavia, non era ancora pienamente ridotta alla decadenza, quando l'attenzione della Corona venne attirata da altri problemi, quali la Riforma negli anni trenta, la guerra e l'inflazione nel decennio successivo. Il risultato fu di rendere la Corona gravemente dipendente dal Parlamento per il sostegno politico e finanziario, e di costringerla a sostituire i magnati in declino con un'aristocrazia amministrativa e militare cui vennero date in concessione grandi signorie territoriali sulle rovine delle proprietà ecclesiastiche e della vecchia nobiltà. Prima ancora della definitiva creazione di una aristocrazia enriciana, in ogni caso, le pressioni finanziarie per la guerra costrinsero la Corona a vendere le terre ecclesiastiche a gentry e contadini concessionari, creando un ceto gentilizio (squirearchy) le cui aspirazioni avrebbero dovuto esser integrate in un modo o nell'altro nel sistema politico. In ogni caso il comportamento di Enrico VIII mette in luce un problema di portata generale per il continente europeo, il peso della lotta religiosa nel sancire in modo definitivo il processo di distacco delle autorità territoriali sovrane dagli organismi politici sovranazionali. Se la vicenda inglese ben sottolinea come la separazione dalla Chiesa di Roma consentisse di liberare energie politiche e risorse materiali, le vicende germaniche non solo confermano questa linea di tendenza, ma mettono in luce come il rinnovamento religioso abbia travolto la stessa autorità imperiale in un processo di crisi politica risoltosi a tutto vantaggio dei principati territoriali. Il movimento di riforma religiosa nasce infatti in un clima di profonda frustrazione politica che coinvolgeva la «nazione» tedesca nel suo complesso, dopo il fallimento dei progetti di riforma costituzionale avanzati a cavallo del secolo XVI dall'imperatore Massimiliano e ripresi da Carlo V all'atto della sua elezione: in particolare, l'istituzione di un Reichsregiment composto di rappresentanti della dieta imperiale avrebbe dovuto offrire uno strumento consultivo capace di garantire forme embrionali di governo territoriale (doc.7). Le idee religiose di Lutero rappresentavano l'espressione specifica di un simile fermento di unità nazionale, ma l'opposizione imperiale ebbe l'effetto di trasformarlo in un focolaio di divisioni intestine fomentate dagli stessi principi territoriali: fin dal 1521-22 furono infatti avviate in ogni principato le misure invocate da Lutero, dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici al rifiuto delle autorità religiose tradizionali all'abolizione del celibato ecclesiastico. Tale tendenza venne poi confermata dalla dieta di Spira del 1526, che concesse a ogni autorità territoriale la possibilità di determinare la politica religiosa secondo i dettami della propria coscienza; una decisione, questa, che avrebbe poi costituito il fondamento del compromesso del 1555, la pace di Augusta, secondo la quale veniva consentito a ogni autorità territoriale (fatti salvi i principati ecclesiastici) di decidere la confessione religiosa nell'ambito del proprio dominio: era questo un equilibrio che, pur nella sua instabilità (giacché non arrestò l'avanzata del movimento riformato nelle regioni settentrionali) sarebbe durato fino al secolo successivo. Ma accanto allo stravolgimento dei caratteri «nazionali» originari, il destino territoriale della diffusione della religione riformata nei territori germanici ne mette in luce gli stretti legami con la costruzione dello stato, nel senso almeno che la prima ebbe successo solo in presenza di apparati di potere centrale, mentre, d'altro canto, la presenza di un movimento di rinnovamento religioso era destinata a rafforzare notevolmente gli apparati burocratici principeschi: in questo senso la Riforma non causò uno sviluppo sostanzialmente nuovo ma accelerò tendenze già in atto da tempo. Si deve in ogni caso parlare di una reciprocità di influenze tra Riforma protestante e formazione dello stato. La Riforma offre infatti alle dinastie principesche una nuova risorsa, immediatamente utilizzabile nel quadro della strategia di trasformazione delle signorie territoriali tardo-medievali in organismi politici territoriali moderni, chiusi e dotati di maggior estensione. Agli strumenti tradizionali di espansione territoriale — faida, guerra, acquisti e alleanze matrimoniali — la Riforma associa un'ulteriore possibilità, costituita dalla secolarizzazione dei territori ecclesiastici, la cui importanza risiede certo negli aspetti quantitativi (evidenti nel caso inglese) ma soprattutto in quelli qualitativi: in seguito alla secolarizzazione gli stati territoriali germanici vedono dilatarsi la propria struttura interna, nel senso che l'apparato statale è destinato ad assumere nuove funzioni, a estendere cioè il proprio potere prima delegato ad autorità feudali inferiori. Attraverso la Riforma si creano nuovi settori di amministrazione: in alcuni casi, ad esempio, i concistori vengono elevati a uffici religiosi supremi dello stato territoriale, che si trova in tal modo a disporre di una struttura amministrativa ecclesiastica, dai concistori ai sovrintendenti fino all'ultimo parroco di villaggio. Inoltre lo stato diventa responsabile del sistema scolastico superiore, dovendosi preoccupare della formazione dei parroci, oltre ovviamente a quella del proprio personale diretto, composto essenzialmente di giuristi. Infine con la Riforma si indeboliscono o addirittura vengono eliminati i suoi avversari potenziali: l'abrogazione dell'antico ordinamento ecclesiastico fa sì che il clero superiore, un ceto composto essenzialmente di elementi nobiliari, perda una posizione politica indipendente e venga direttamente controllato dallo stato. In tal modo si rafforza la sovranità verso l'interno da parte del principe territoriale. Non va del resto sottovalutato il modo stesso in cui la Riforma è stata attuata. Ponendosi sotto l'autorità principesca, l'introduzione della Riforma assume sempre più i caratteri di un compito amministrativo: non solo per il fatto che è il principe medesimo ad arrogarsi la funzione di capo della Chiesa nei suoi territori; e neppure solo per il fatto che la funzione episcopale viene attribuita a nuovi uffici statali, i concistori, con i quali la persona consacrata del vescovo viene sostituita dall'istituzione anonima e impersonale di un ufficio. Piuttosto, la stessa problematica religiosa della Riforma viene semplificata, appiattita e formalizzata nelle mani di una burocrazia che ne assicurerà un'attuazione totale, posta com'è sotto il controllo del principe. Da questo punto di vista la Riforma protestante si differenzia dai movimenti religiosi precedenti e successivi, giacché non soltanto è il primo movimento religioso a svilupparsi nell'epoca della burocrazia, ma è anche il solo a essere attuato con i mezzi della burocrazia. La Riforma va dunque considerata, nel mondo germanico, come un elemento che asseconda la formazione di poteri territoriali autonomi dall'autorità imperiale, e determina una precisa diffusione territoriale della confessione religiosa. Diverso è il caso delle situazioni in cui le scelte religiose della popolazione contrastano con quelle della dinastia regnante; qui la diffusione delle idee riformate dà luogo a conflitti religiosi in cui vanno colti importanti aspetti di lotta politica e civile, come nel caso della rivolta olandese e delle guerre di religione francesi a partire dagli anni sessanta. La rilevanza della problematica religiosa per la storia dello stato in questo contesto è da ravvisare soprattutto nella ripresa di iniziativa politica della nobiltà, sia dei suoi vertici che delle sue propaggini periferiche (doc. 8/b), che tendono a usare le assemblee rappresentative (Stati generali nel caso delle Province Unite, Stati provinciali e generali in Francia) come uno strumento di lotta politica contro le dinastie sovrane. In entrambe le situazioni si assiste al tentativo aristocratico di rinsaldare attraverso di esse la coscienza politica delle comunità locali costituendo sulla base dell'adesione religiosa vere e proprie organizzazioni politiche dotate di controllo sulla pubblica amministrazione in varie regioni e forti di eserciti pressoché permanenti (doc. 8/a). Esamineremo meglio nella sezione successiva le ragioni e i motivi di questo comportamento delle aristocrazie: basti qui rilevare come la lotta religiosa determini lo schieramento dei ceti nobiliari in campi opposti, vere e proprie fazioni nelle quali i legami verticali e clientelari risultano rafforzati da scelte ideologiche. Dal punto di vista politico e sociale è poi di estrema rilevanza notare come tale schieramento delle aristocrazie nella lotta religiosa si accompagni a fermenti antifiscali delle popolazioni soggette, soprattutto rurali, che caratterizzano tutto il secondo Cinquecento, e determinano soprattutto in Francia l'interruzione del prelievo fiscale da parte del governo centrale. La saldatura tra fermenti religiosi e politici è confermata da un aspetto preciso della lotta innescata dalla diffusione delle idee riformate. Come illustrato oltre (terza sez., doc. 3) da parte calvinista è la stessa autorità sovrana ad esser sottoposta a una ridefinizione sostanziale: essa trova infatti la propria legittimità in un comportamento ritenuto giusto dai sudditi, che si riservano il diritto di ribellarsi all'autorità quando questa non corrisponda alle aspettative della popolazione. La radicalità di una simile posizione non ha bisogno di esser sottolineata: piuttosto, è necessario rilevare come essa abbia dato luogo a soluzioni innovative del problema della convivenza politica. Soprattutto nella Francia di fine Cinquecento si suggerisce la ricerca di una terza via capace di impedire il completo prevalere di una delle parti sull'altra: come vedremo più avanti, le guerre di religione francesi si risolvono infatti in un regime politico le cui premesse furono avanzate da un gruppo di moderati, i cosiddetti politiques, che propugnavano la coesistenza nello stesso regno di due religioni diverse nella convinzione che ciò non compromettesse l'unità nazionale e la saldezza dello stato. D'altro canto, la ribellione olandese sfociò nella creazione di uno stato fondato sì sull'omogeneità delle scelte religiose dei sudditi, ma articolato sull'istituzione di un regime che consentiva loro di esprimere il consenso al prelievo fiscale dell'autorità centrale (terza sez., doc. 10/d). 3. Oltre che dalla problematica e dalla lotta religiosa la vita dello stato cinquecentesco è segnata dall'acuirsi dei problemi finanziari, determinati dalla crescita del volume della spesa, particolarmente sensibile a partire dagli anni quaranta. Tale aumento è connesso all'altrettanto rapida crescita delle spese militari indotte dalle guerre per la supremazia europea che opposero gli Asburgo ai Valois nella prima metà del secolo e che proseguirono colorandosi di tinte religiose allorché i monarchi francesi non rinunciarono a svolgere il ruolo di antagonisti della massima potenza cattolica, la Spagna di Filippo II. In ogni caso l'accresciuto peso dello stato sulla società e i suoi aspetti finanziari costituiscono i segni di una rivoluzione militare che, tra il 1560 e il 1660, muta il significato sociale del fenomeno bellico. Innovazioni tattiche quali la fanteria, una maggior articolazione della strategia (ad esempio, campagne militari condotte contemporaneamente da più eserciti) e soprattutto un prodigioso incremento della scala delle operazioni belliche accentuano in modo drammatico l'impatto della guerra sulla società. Da un lato, infatti, aumentano le dimensioni fisiche della guerra e, insieme con esse, la sua pericolosità e la tragicità delle conseguenze di una inusitata potenza di fuoco e di offesa. Inoltre mutano le dimensioni sociali della guerra: eserciti più potenti rendono necessaria una produzione massiccia di armamenti di ogni genere, mentre con l'uso di truppe mercenarie offrono impieghi potenzialmente retribuiti ai contadini delle aree più povere e marginali; alimentano opportunità di carriera in strati ben più vasti della sola nobiltà, generando nuovi tipi di imprenditori sociali: munizionieri, vettovagliatori, ecc. (doc. 9/b). Accanto all'accelerazione dei ritmi di sviluppo di economie non tradizionali e all'accentuazione della mobilità sociale, i mutamenti della guerra producono un decisivo aumento dell'autorità dello stato: in primo luogo, come vedremo oltre, per le implicazioni finanziarie e fiscali di tale crescita di dimensioni (docc. 10 e 13); in secondo luogo perché con la creazione di un'istituzione specificatamente destinata a produrre violenza, sia pure in modo «disciplinato», si consacrò l'acquisizione da parte dello stato del monopolio della violenza sociale (doc. 9/a). Le implicazioni finanziarie dell'estensione della sfera di azione dello stato non riguardano soltanto l'aumento bruto delle spese della guerra: piuttosto, il reperimento in tempi ristretti di fondi crescenti mette a nudo la struttura del potere su cui si fondano gli stati rinascimentali e i loro limiti costitutivi. Il primo è rappresentato dalla rigidità del sistema fiscale e dalla cronica insufficienza della base contributiva. Quest'ultima deriva dalla difficoltà tecnica di attribuire valore a beni prodotti in un'economia chiusa e non monetaria, caratterizzata dalla produzione per la sussistenza da parte di unità economiche familiari; in ogni caso ha soprattutto origini politiche e sociali che investono come si è già accennato il rapporto tra autorità centrali ed élites locali, e si manifestano nella persistenza di una prassi contrattuale nel rapporto tra sovrano e sudditi. Per i sudditi, infatti, il fatto che l'entità del prelievo debba rispettare la posizione dei singoli corpi nella gerarchia sociale rappresenta un vero e proprio vincolo costituzionale. Per il sovrano, al contrario, la contrattualità del regime fiscale costituisce un ostacolo alla piena esplicazione dell'imperium: perciò quegli strumenti che consentono di rimuovere o di aggirare tale ostacolo vengono intesi dai sudditi come estensione e consolidamento del potere politico del sovrano, e cioè come perdita dei propri privilegi fiscali. È certamente questo il caso della fiscalità indiretta la cui estensione ad aree prima esenti ha determinato, intorno alla metà del secolo, rivolte di intere regioni francesi, come ad esempio la Guienna e la ribellione dei domini fiamminghi nell'impero spagnolo. Sono considerazioni, queste, che impediscono di vedere nella fiscalità indiretta una mera tecnica di reperimento fiscale: per le popolazioni rurali, soprattutto, essa valeva come una sorta di obbligo di commercializzazione (terza sez., doc. 13/c), unica soluzione al reperimento della moneta necessaria a far fronte all'imposizione, anche se nella struttura dell'economia contadina ciò significava un'inevitabile compressione dei consumi (doc. 13). D'altro canto l'introduzione della fiscalità indiretta ha avuto indubbie responsabilità nell'orientare gli investimenti dei gruppi possidenti, e principalmente i patriziati urbani, in direzione della terra, verso la costituzione di possedimenti fondiari da cui trarre i consumi alimentari di base. Soprattutto nel caso castigliano questa tendenza alla «rifeudalizzazione» è stata favorita da un altro espediente fiscale, la vendita delle terre comuni dei villaggi, i cosiddetti baldíos (doc. 12), che nell'ultimo terzo del Cinquecento comportò la sottrazione di risorse vitali per gli strati inferiori della popolazione contadina. Il secondo limite della struttura del potere degli stati rinascimentali, messo a nudo dalla politica finanziaria, trae origine dall'urgenza della spesa, e principalmente dei pagamenti dell'esercito. Di fronte al ritardo reale con cui può essere raccolta l'imposta, il sovrano è costretto a farsi anticipare le somme necessarie ad altissimo interesse: è questo un espediente tipico, praticato nella monarchia spagnola a partire dagli anni venti attraverso un contratto o asiento con un uomo d'affari, stipulato in Spagna o nei territori in cui andava effettuato il pagamento, e fondato su una precisa voce dell'entrata (una parte del donativo, di un'imposta indiretta, ecc.; doc. 11/a). Profonde sono le implicazioni di questo che possiamo chiamare «espediente creditizio»: in primo luogo esso rivela i profondi legami dello stato con il mondo degli affari e il capitalismo commerciale. Questi si esprimono nella capacità dello stato di offrire occasioni di investimento alla «borghesia» commerciale; rivelano insomma la natura imprenditoriale dello stato cinquecentesco. Al tempo stesso, tuttavia, palesano la debolezza generale e costitutiva del governo centrale, la sua dipendenza da poteri intermedi: di volta in volta essi sono rappresentati da uomini d'affari, dalle Cortes o, come vedremo, dagli stessi funzionari, poiché assolvono alla funzione di adattare la presenza dello stato ai diversi ambiti della vita economica e sociale — in una parola, svolgere opera di mediazione. Nel caso del credito l'adattamento risiede nella profittabilità dell'investimento statale per banchieri e grandi mercanti: l'asiento è infatti a breve termine e ad alto interesse, consente profitti elevatissimi. Ben presto, tuttavia, questi si rivelano affatto potenziali, poiché lo stato impegna tanto, se non più di quanto vuole e può ottenere, e il ricorso al credito ingenera una rapida spirale di indebolimento, con l'accumularsi di arretrati e di arretrati di arretrati (doc. 10). Inoltre la corrispondenza speculare dell'asiento con una specifica voce dell'imposta ne determina l'impossibilità di eccedere l'ammontare globale del prelievo fiscale. Superato questo limite alla Corona non resta che dichiarare bancarotta e rifiutare perciò la restituzione dei prestiti intercorsi, anche a rischio di scatenare pericolose reazioni nel mondo finanziario. A partire dalla metà del Cinquecento, tali crisi si susseguono, soprattutto nella monarchia spagnola, con una relativa costanza — 1557, 1560, 1575, 1596, ecc. — al punto da farle ritenere, più che eventi inevitabili, tentativi di soluzione politica del problema del credito (doc. 12). Attraverso la crisi finanziaria lo stato impone la trasformazione del debito «fluttuante» in debito «consolidato», nel senso che propone ai creditori titoli sul debito statale, a basso interesse ma con la garanzia di una rendita — perpetua, vitalizia o periodica, ma comunque di lungo periodo — sulle entrate ordinarie: in questo modo, attraverso l'impiego di juros l'impegno dello stato si riduce al pagamento annuale degli interessi del primo anno. È poi di estremo interesse rilevare come questi due strumenti creditizi si alternino nel corso del Cinquecento: infatti fino al 1575 si ha una prevalenza di asientos, dietro i quali va colto il gruppo ristretto di finanzieri e uomini d'affari, tanto spagnoli quanto stranieri, e il richiamo su di essi esercitato dalle imprese della monarchia spagnola (America e guerre continentali); a partire dall'ultimo quarto del secolo emerge invece il secondo strumento, nel quale è possibile intravedere una domanda di rendita fissa che lo stato si avvia a soddisfare. Domanda proveniente da gruppi sociali disparati, dalla cosiddetta borghesia cinquecentesca al clero e alla piccola nobiltà, ma che in ogni caso indica come dietro il meccanismo della bancarotta si sia creato un canale entro il quale convogliare i capitali liberi e consolidare il rapporto tra le autorità centrali e sezioni influenti delle élites locali. La soluzione del problema creditizio consentita dalla bancarotta è tipica della monarchia spagnola, e non è estranea alla sua crescente disponibilità di metallo prezioso americano per fronteggiare gli aumenti del costo dell'amministrazione (doc. 10/b). Dove invece, come in Francia, l'aumento delle spese di corte e l'intensità della rivoluzione dei prezzi tra gli anni quaranta e gli anni settanta non può essere affrontata con strumenti puramente monetari, si assiste a iniziative creditizie disparate: in un primo tempo si profila il tentativo di usare come fonte di credito i banchieri e uomini d'affari attratti dalla crescente fortuna delle fiere di Lione, cui la Corona concede una non disinteressata protezione: lo strumento è rappresentato da un consorzio cittadino, il cosiddetto Grand Parti, cui il re garantisce il rimborso dei prestiti a medio termine, in quattro rate annuali (doc. 11/b). Ma è un tentativo limitato, che non elimina ovviamente il ricorso a prestiti individuali, a breve termine e ad altissimo interesse, e che non è destinato a resistere alla crisi finanziaria della fine degli anni cinquanta, corrispondente con la prima bancarotta spagnola. Nel periodo successivo la Corona si muove lungo diverse e divergenti strategie finanziarie: da un lato cerca di abbandonare il credito internazionale in favore di quello interno, attraverso forme di prestito dal mondo ecclesiastico garantite dal pagamento di rendite sulle municipalità (tipiche quelle sull'Hôtel de Ville di Parigi (terza sezione, doc. 1); in secondo luogo si introduce e si generalizza la tecnica del «prestito forzato» estorto alle oligarchie cittadine; inoltre si accentua il peso fiscale sul clero, anche attraverso iniziative di secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Ma sostanzialmente si tenta di riempire il vuoto creditizio lungo due direzioni. La prima è rappresentata da prestiti ottenuti attraverso creditori che ricevono in cambio i cespiti garantiti da determinate forme di entrata (i cosiddetti partisans), oppure da individui che suggeriscono nuovi espedienti fiscali, ai quali ne viene affidata la gestione dopo l'anticipo dell'entrata prevista (i traitants, spesso stranieri odiatissimi). La seconda strategia è rappresentata invece dalla vendita di cariche pubbliche, o meglio dal deliberato uso della vendita da parte della Corona a scopo finanziario. 4. Al pari della fiscalità indiretta e del credito internazionale e interno, anche la vendita di uffici mette a nudo elementi costitutivi dello stato cinquecentesco. Formalmente non si tratta di uno strumento nuovo, poiché anzi la vendita rappresenta una pratica universalmente adottata da ogni forma di potere pubblico nei modelli di organizzazione feudale della società; l'innovazione, semmai, è costituita dall'assunzione in prima persona da parte del sovrano dell'alienazione delle funzioni pubbliche e delle dignità connesse. Il secolo XVI tende in ogni caso a mutarne il significato. In primo luogo per l'aumento indiscriminato della quantità di uffici venduti: creazioni di nuove corti di giustizia, quali il présidial nella Francia di Enrico II (1551), istituzione di «alternative» semestrali, cioè raddoppio e in qualche caso triplicazione di uffici esistenti. In secondo luogo gli uffici venduti tendono a divenire ereditari, secondo un meccanismo tipico delle società feudali: a partire dal 1568, in Francia i detentori di uffici hanno a disposizione il meccanismo istituzionale della survivance, in virtù del quale si ottiene la possibilità di résigner, cioè di trasmettere la carica a eredi o amici entro quaranta giorni dalla morte (doc. 17/a). Di estremo interesse sono le considerazioni che è possibile trarre dal meccanismo della venalità delle cariche. Anzitutto, esso consente analisi comparative della struttura statale: sebbene si tratti infatti di una pratica universale, varia il modo in cui le autorità centrali hanno saputo, o potuto, utilizzarla a proprio vantaggio. È perciò conveniente distinguere queste situazioni dai casi in cui, come nell'Inghilterra elisabettiana, la Corona non riesce ad assicurarsi il monopolio della vendita. In Francia e in Spagna, sia pure con sfumature diverse, la venalità esprime la propensione della Corona ad adottare politiche assolutistiche: si tratta infatti di decisioni che il sovrano prende per evidenti e pressanti ragioni finanziarie senza consultare i corpi politici sui quali fonda il proprio consenso. Ma è forse più rilevante sottolineare l'ambiguità della pratica: per la corona infatti la venalità è fallimentare, poiché la somma anticipata dagli acquirenti equivale a un prestito contratto dalle finanze regie, nel senso che all'ufficiale è dovuto un salario che rappresenta l'interesse annuo del capitale investito, e ogni creazione di ufficio comporta un aumento delle spese; dal punto di vista politico, inoltre, la vendita comporta la cessione di potere pubblico da parte del sovrano, cessione resa ancor più evidente dalla tendenza della carica a divenire ereditaria. Neppure per l'ufficiale, d'altronde, l'ufficio costituisce una fonte rilevante di entrata. O almeno lo stipendio ufficiale: una ricerca ormai classica sulla busta paga effettiva degli ufficiali nella Lombardia del secondo Cinquecento ha mostrato come la burocrazia dello stato moderno si regga più sul sistema delle onoranze implicite nella detenzione della carica che non sul salario ufficialmente concesso dal sovrano. Per queste ragioni lo studio della burocrazia si traduce nell'individuazione della corruzione quale effettivo modello di funzionamento della macchina statale (terza sez., doc. 7/b). Ciononostante l'espediente venale si rivela decisivo nella costruzione dello stato: soprattutto nella situazione francese la costituzione di una burocrazia totalmente venale caratterizza il modello di redistribuzione delle ricchezze presupposto dall'esistenza di un potere centrale. Si devolve di fatto una porzione di potere agli ufficiali, ma questa è largamente coperta dalla costituzione di cospicui gruppi sociali, al centro come in periferia, sul lungo periodo dipendenti dal potere del sovrano. La contropartita è tuttavia degna di rilievo: nel caso francese non si tratta tanto di finanziamenti anticipati e della possibilità della Corona di estorcere agli ufficiali prestiti forzati e altre forme di prelievo, quanto piuttosto dell'offerta di una possibilità di mobilità sociale in una società di ordini. In molti casi, infatti, la dignità connessa con la funzione è di per sé nobilitante, in altri lo è l'esercizio per più generazioni di una medesima carica. Non è un caso che laddove la venalità risulta meno legata ad aspettative di mobilità sociale effettiva, come in Spagna, saranno i caratteri e l'entità della retribuzione a consentire lo sviluppo di un'«ideologia» del funzionario quale servitore dello stato: saranno cioè i giuristi lombardi, cui il sistema spagnolo di venalità offriva minori occasioni di mobilità (doc. 17/a), a proporre per primi una teoria del «giusto salario» che si rivelerà a lungo andare cruciale per il superamento del servizio dello stato quale mero privilegio concesso a famiglie localmente potenti. La venalità, in ogni caso, esprime una condizione strutturale dello sviluppo dello stato cinquecentesco, e la sua assenza va intesa, allo stesso modo, come una incapacità effettiva di talune autorità centrali di costruire le componenti essenziali del proprio apparato di potere. È il caso della monarchia inglese, che a partire dall'ascesa al trono di Elisabetta Tudor (1558) conosce sviluppi solo parzialmente coerenti con i modelli continentali. Il processo iniziato con la secolarizzazione dei beni ecclesiastici, che abbiamo poco sopra esaminato, consentiva infatti al Parlamento di affermare la propria indipendenza, basata ormai saldamente sul potere di concedere il donativo, a spese di gravi debolezze finanziarie della Corona. Infatti, le difficoltà politiche di quest'ultima avevano imposto non soltanto la cessione di massicce quote di terra monastica ed ecclesiastica all'aristocrazia e agli strati gentilizi, ma la resistenza e la solidità del diritto consuetudinario (e della prassi contrattuale che questo portava con sé) impediva al potere centrale sia di sfruttare il monopolio di alcuni servizi essenziali, quali il sale e l'allume, sia, soprattutto, di ingrandire la modesta burocrazia regia. I pochi uffici venali sarebbero costantemente andati a profitto di personaggi di corte o di ufficiali preminenti. L'assenza di burocrazia doveva avere due conseguenze di fondo. In primo luogo avrebbe consacrato la definitiva delega del consenso alla gentry e al ceto mercantile, che avrebbero impedito di finanziare la crescita del potere centrale con una più massiccia imposizione fiscale: si sarebbe così arrestato un processo indispensabile per la costruzione di un forte apparato di potere centrale, la sostituzione della gentry locale con ufficiali regi retribuiti, sul modello continentale. Questo è il vero dilemma della monarchia Tudor: mentre le élites affidavano alla Corona il compito di imporre estese regolamentazioni economiche e sociali (terza sez., doc. 15/a), non le consentivano di dotarsi dei poteri amministrativi indispensabili per affrontare tale compito. Di qui la seconda conseguenza dell'assenza di una venalità controllata dalla Corona: poiché non esistevano ufficiali locali stipendiati e la macchina amministrativa centrale era inadeguata, la Corona fu costretta a ricorrere all'uso di informatori di professione (doc. 16), che si prestavano a tale opera per profitto — in genere la metà della multa inflitta ai trasgressori delle norme, soprattutto economiche, sul livello dei prezzi, sul pagamento delle dogane, ecc.: un sistema rimasto in vigore fino al 1951! È naturale pensare che tali individui, provenienti in genere dagli strati più poveri, non avessero le medesime speranze di ascesa sociale degli ufficiali continentali, ma in breve tempo trasformassero le proprie prerogative legali e istituzionali in ricatto ed estorsione generalizzati. In conclusione, la monarchia cinquecentesca è caratterizzata da uno stretto intreccio, per quanto attiene alla dinamicità dello sviluppo di forti apparati centrali, di problemi posti dal diffondersi della lotta religiosa e di problemi finanziari connessi all'estendersi della sfera di azione dello stato. Mentre le diverse soluzioni adottate dal potere centrale di fronte alla prima conducono al rafforzamento dell'apparato del potere sovrano a spese di minoranze religiose e culturali, o al contrario consentono il dispiegarsi e il rafforzarsi di nuclei di opposizione, le diverse modalità di soluzione dei problemi finanziari conducono ad altrettanti modelli di consenso dei quali il potere centrale può avvalersi o dai quali risulta per un certo lasso di tempo dominato. In ogni caso l'azione dello stato, soprattutto sul piano del reclutamento del personale, come è messo in luce dal meccanismo della venalità, appare ormai in grado di modellare nuove élites e di rafforzarne più o meno la posizione nella gerarchia sociale. È tale fattore a determinare non pochi dei caratteri assunti dai singoli modelli di organizzazione sociale e statale nel periodo compreso tra la metà del Cinque e la metà del Seicento. |
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